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La pietra lunare
"Mi pare impossibile che quando c'è la luna noi si dorma nelle nostre case", disse la fanciulla con un leggero ansito, parlando questa volta lentamente. "Quando c'è la luna fuori della finestra chiusa succedono cose strane, e meravigliose", aggiunse come riflettendo; "cioè insomma ci sono cose che corrono navigano girano per conto loro mentre noi dormiamo. Non è strano questo? Non è strano anche che si possa dormire mentre la luna attraversa il cielo?".
Pubblicato nel 1939, "La pietra lunare" è il primo romanzo di Tommaso Landolfi, incentrato sulla dicotomia tra reale e fantastico, sulle due realtà che muovono l’immaginario dell’autore ed improntano tutta la sua opera, capace di poesia e potenza espressiva sorprendenti (essa costituisce, secondo la definizione di Andrea Zanzotto, "uno dei punti di riferimento più radiosi del nostro Novecento letterario"). Da una parte c’è la vita del quotidiano, legata alla fisiologia del corpo, impregnata di un "odore pesante d'avanzi di lavatura di piatti e d'insetti domestici"; dall’altra, si apre il mondo meraviglioso ed affascinante popolato da creature misteriose come Gurù, la fanciulla-capra che appare con la luna.
Giovancarlo Scarabozzo è uno studente di lettere del secondo anno, che si diletta a scrivere versi; è timido, affascinato dalle donne, ma impacciato. Giovancarlo rifiuta la corporeità: una volta visto il corpo di una donna, la femminilità, ai suoi occhi di poeta, perde di fascino. Non è così per Gurù che, apparsa "dal fondo dell'oscurità" con "due occhi neri, dilatati e selvaggi", lo ha rapito, mostrandogli, tra il suo stupore, i "lunari orrori" abitati da creature diafane e fantomatiche, le viscere della terra dove regnano le Madri, in un percorso iniziatico alla scoperta dell’amore e di sé.
L’influenza della luna sugli eventi terreni è cosa postulata da molti operatori di scienze più o meno occulte: è noto per esempio che gli astrologi le dànno grande importanza nelle loro elucubrazioni. Per essi Selene regge l’impalcatura sensibile dell’Io, che lo fa ricettivo ed emotivo. E’ una sensibilità che può esser dispersiva, legata all’infanzia e al senso di appartenenza al tutto. Porta candore, fiduciosità, inesperienza, sprovvedutezza al limite, sempre irriducibilità agli schemi della ragione, spirito di ricerca. A tutto questo la luna aggiunge femminilità.
II lunatico è ipersensibile, a volte nel senso artistico, altre in quello nevrotico; inquieto, forse angosciato, tendenzialmente insicuro e sottomesso, cerca un appoggio, ma si rivela imprevedibile, in grado di mettere in mostra estrosità «strane». È legato alle cose misteriose della natura, ma esprime questo legame in modo mutevole; ciò lo porta all’intuizione, alla preveggenza, alla percezione extrasensoriale, alla magia, alla malìa.
Inoltre, per via alquanto misteriose, la luna è legata a quei fenomeni di continuità fra il mondo animale e quello umano, il cui caso più tipico è la licantropia: gli uomini si trasformano in lupi mannari in notti di luna piena, come è già attestato da Petronio Arbitro (LXII).
I lunatici di cui parleremo oggi hanno caratteristiche di questa natura.
4.1 Tommaso Landolfi (1908-79) La pietra lunare (1939)
"Mi pare impossibile che quando c'è la luna noi si dorma nelle nostre case", disse la fanciulla con un leggero ansito, parlando questa volta lentamente. "Quando c'è la luna fuori della finestra chiusa succedono cose strane, e meravigliose", aggiunse come riflettendo; "cioè insomma ci sono cose che corrono navigano girano per conto loro mentre noi dormiamo. Non è strano questo? Non è strano anche che si possa dormire mentre la luna attraversa il cielo?".
Pubblicato nel 1939, "La pietra lunare" è il primo romanzo di Tommaso Landolfi, incentrato sulla dicotomia tra reale e fantastico, sulle due realtà che muovono l’immaginario dell’autore ed improntano tutta la sua opera, capace di poesia e potenza espressiva sorprendenti (essa costituisce, secondo la definizione di Andrea Zanzotto, "uno dei punti di riferimento più radiosi del nostro Novecento letterario"). Da una parte c’è la vita del quotidiano, legata alla fisiologia del corpo, impregnata di un "odore pesante d'avanzi di lavatura di piatti e d'insetti domestici"; dall’altra, si apre il mondo meraviglioso ed affascinante popolato da creature misteriose come Gurù, la fanciulla-capra che appare con la luna.
Giovancarlo Scarabozzo è uno studente di lettere del secondo anno, che si diletta a scrivere versi; è timido, affascinato dalle donne, ma impacciato. Giovancarlo rifiuta la corporeità: una volta visto il corpo di una donna, la femminilità, ai suoi occhi di poeta, perde di fascino. Non è così per Gurù che, apparsa "dal fondo dell'oscurità" con "due occhi neri, dilatati e selvaggi", lo ha rapito, mostrandogli, tra il suo stupore, i "lunari orrori" abitati da creature diafane e fantomatiche, le viscere della terra dove regnano le Madri, in un percorso iniziatico alla scoperta dell’amore e di sé.
L’influenza della luna sugli eventi terreni è cosa postulata da molti operatori di scienze più o meno occulte: è noto per esempio che gli astrologi le dànno grande importanza nelle loro elucubrazioni. Per essi Selene regge l’impalcatura sensibile dell’Io, che lo fa ricettivo ed emotivo. E’ una sensibilità che può esser dispersiva, legata all’infanzia e al senso di appartenenza al tutto. Porta candore, fiduciosità, inesperienza, sprovvedutezza al limite, sempre irriducibilità agli schemi della ragione, spirito di ricerca. A tutto questo la luna aggiunge femminilità.
II lunatico è ipersensibile, a volte nel senso artistico, altre in quello nevrotico; inquieto, forse angosciato, tendenzialmente insicuro e sottomesso, cerca un appoggio, ma si rivela imprevedibile, in grado di mettere in mostra estrosità «strane». È legato alle cose misteriose della natura, ma esprime questo legame in modo mutevole; ciò lo porta all’intuizione, alla preveggenza, alla percezione extrasensoriale, alla magia, alla malìa.
Inoltre, per via alquanto misteriose, la luna è legata a quei fenomeni di continuità fra il mondo animale e quello umano, il cui caso più tipico è la licantropia: gli uomini si trasformano in lupi mannari in notti di luna piena, come è già attestato da Petronio Arbitro (LXII).
I lunatici di cui parleremo oggi hanno caratteristiche di questa natura.
4.1 Tommaso Landolfi (1908-79) La pietra lunare (1939)
LE DUE ZITTELLE
La collana Piccola Biblioteca Adelphi ripubblica il racconto
Le due zittelle di Tommaso Landolfi restituendogli gli onori dovuti. Lo scrittore termina il lavoro nel ’43 e lo pubblica a puntate sulla rivista fiorentina “Il Mondo” della tipografia Vallecchi. Quest’ultimo rimarrà il curatore privilegiato delle opere di tutta una vita, salvo screzi e incomprensioni intermittenti, come non a caso accade per la stampa del libro in questione. Stanco delle solite lentezze decisionali dell’editore, Landolfi decide di bussare alla porta di Bompiani che lo fa uscire nel gennaio del ’46, permettendo alla critica di accoglierlo all’unanimità come opera narrativa straordinaria.
Lilla e Nena sono i campioni formidabili di una vita passata in sordina. Due sorelle votate a sacrificio per diretta intercessione di una madre che succhia loro linfa vitale fino all’ultimo respiro esalato. La morte -per paradosso e pietà- porta sollievo, scarcerando le reiette claustrali. La tregua è però breve, perché l’olezzo del miasma è spudorato in questa storia, e dissacrante. E’ la scimmia Tombo ad avere il ruolo dell’incarnazione diabolica: scoperta inscenare cerimoniali scandalosi nella cappella del monastero vicino, per ristabilire gli equilibri, l’espiazione è quella capitale. Nena, lo zoccolo duro della coppia, si erge a pretore sovrumano, titano inaccessibile dai buoni sentimenti di Lilla. La quasi banalità dell’antefatto ha risvolti grotteschi. Il racconto si fa leopardiano quando intervengono a giudizio monsignor Tostini -classicamente reazionario- e il giovane padre Alessio -ardente di un Dio che è sopra i circuiti meramente umani di “dare ed avere”-. I due si sfidano a singolar tenzone sostenendo arringa, con la platea della corte muliebre che attende di pronunciare il pollice verso. Dalla cronaca quasi bozzettistica di una vicenda familiare di provincia, l’ubris di una scimmia, dipana la trama da filosofia nel boudoir. L’autore agisce con l’autorità del narratore e lancia ammiccamenti al lettore, mediante lingua plastica e maliarda, che è squarcio subliminare di potenza incantatoria. L’arcaismo grafico, nel titolo e nel testo (la doppia - t - di zittelle) è divertimento sarcastico dello scrittore. Il falso etimo “zitta” si fa sentenza schietta del proprio umore sulla meschinità protagonista.
Tommaso Landolfi, Le due zittelle, Adelphi Editore, Milano, 1999.
Ritengo buona cosa spolverare gli scaffali della nostra letteratura, per trovare testi che possono essere una buona lente di ingrandimento e un efficiente setaccio rispetto ai contesti umani, sociali e civili in cui ci troviamo a vivere. V’è uno stile che rende tale profondità piacevole: lo stile ironico.
Questo è lo stile di Tommaso Landolfi, stile di cui è permeata tutta la sua produzione, e in questa il lungo racconto Le due zittelle. Ironico sin dal titolo. «Zittelle» gioca con «zitte» oltre che con «zitelle»: un’ironia che sa essere sarcastica, acre e irriverente. Questo scrittore contemporaneo, mai best seller, riservato e appartato come le sue opere, mostra acume e divertimento nell’analisi narrativa che fa della natura umana. Sembrano vani l’uomo e l’agire umano dipinti nei suoi racconti. Ne Le due zittelle, dalla vanità sembra levarsi un grido di denuncia contro la mancanza di rispetto della diversità, il mancato ascolto del diverso che tende le braccia verso di noi e non può che essere e manifestare quello che è. La scrittura di Landolfi, sotto una forma un po’ antiquata all’orecchio di oggi, è così viva che non può non attrarre.
In questo racconto, «il mio miglior racconto» (Landolfi), uno dei «maggiori “incubi” psicologici e morali della moderna letteratura europea» (Montale), il grottesco illuminante è che rapporti problematici non vi possono essere solo tra personaggi umani ma anche con animali: qui una scimmia manda in aria – anche con rabbia – il contesto dimesso e ottuso in cui si ritrova, e da questo contesto viene infine uccisa in una pagina dai vivacissimi colori tragicomici.
Un contesto dimesso e ottuso, le propaggini di una «muffosa» provincia italiana:
«In uno scuorante quartiere d’una città essa medesima per tanti versi scuorante, al primo piano d’una casa borghese vivevano due zittelle colla vecchia madre. […]. Epperò, volendo dir tutto e in modo sbrigativo, nell’intero rione si respirava una vaga aria di grettezza e di reazione, […] a un ignaro visitatore […] gli sarebbe sembrato che su ogni cosa si fosse deposta un’impalpabile polverina grigia».
Le protagoniste sono due anziane e devote «zittelle», Lilla e Nena. Le visite, che ricevono, riportano con orrore gli scandali che rovinano quell’apparente quiete. E poi la scimmia ‘domestica’, unico «maschio di casa», «debitamente castrato», padrone e tiranno e vittima, su cui le due zittelle effondono tutto il loro affetto femminile; il diverso eccellente, dipinto acutamente da Landolfi:
«Era la scimia un animale piuttosto piccolo e vivace, […]. Fra noi: in che modo penetrare d’un bruto i pensieri, il vero significato dei suoi gesti, anche ad adottare l’accezione umana di tali termini? Un uomo di fronte a un altro uomo ha almeno una convenzione, se non altro di linguaggio, […]. Quella scimia insomma era una scimia, con tutti gli attributi esteriori e le qualità apparenti della sua razza; era una creatura misteriosa».
Intorno a questa «creatura misteriosa» si snoda tutto il racconto: tenuta chiusa dentro una grande gabbia, dove è libera di muoversi ma allo stesso tempo costretta, nervosa e quasi piena di odio lì dentro, attenta e quasi gentile fuori di essa, a un certo punto viene scoperta da alcune pie monache essere autrice di un atroce delitto nella vicina piccola cappella. Da sola, la «scimia» riesce a liberarsi dalla gabbia, ad uscire dalla casa delle sue padrone, a superare un giardino e quindi ad entrare in quella cappella, dove …:
«[…]. E la cosa orribile ebbe principio.
«Tombo [il nome della scimmia] s’accostò con decisione al ciborio e l’aprì bruscamente, sbatacchiando il portello. Restato un attimo a guardar di traverso, come una gallina, vi affondò il solito braccio e ne trasse per due volte una manata di ostie consacrate, che rapidamente divorò. […].
«[…]. Poi, levatosi in moto brusco, brandì con una sorta di foia l’ampolla e ne leccò l’orifizio; subito dopo vi si attaccava e beveva il sacro vino rimasto fino all’ultima gocciola.
«Non era molto, quel sacro vino, e tuttavia l’effetto fu quasi immediato. Senza propriamente ubriacarlo, esso valse a conferire all’animale un gran tono e una grande baldanza, […]. Giacché s’era riaccocolato per riprendere il sacro calice, che dispose adesso nel bel mezzo dell’altare. Raccolse anche l’ostia consacrata e ve la poggiò sopra a mo’ di coperchio. Diede infine di piglio al sacro corporale, […] per buttarselo alla brava sulle spalle. […]. Venne al sacro calice, che prese mantenendosi di spalle al luogo pei fedeli, guardando ossia il ciborio, lo elevò; lo riposò; […]. Le due donne per un momento non capirono, si rifiutarono di capire … Lettore, non ne ho colpa: Tombo diceva messa.
«[… infine] devo pur dirlo in qualche modo, scompisciò l’altare».
Questo il fatto. Due religiosi sono chiamati a giudicare: monsignor Tostini,
«un di quei preti che […] ostentano una gran tolleranza e comprensione in tutte le faccende umane e non umane, che paiono grandemente apprezzare e gloriosamente celebrare la natura e il mondo del buon Dio […]; e di cui più declamatoria e retriva genia non si dà»,
e padre Alessio,
«un giovinetto, […] prete timido e facile ai rossori, e che già dicevano molto caritatevole, sebbene abitasse da poco la città; era infatti straniero, svizzero salvo errori».
Il Tostini:
«Su questi peccati e su questi peccatori infierire è gloria. Dove andrebbe a finire tra l’altro il mondo, la società, l’individuo, […]. Ora, la scimia in quanto animale aveva diritto, senza dubbio, a una più grande indulgenza; ma al tempo stesso, di nuovo in quanto animale, ammetteva una più grande severità ed escludeva i soverchi scrupoli. Giacché Dio creò gli animali sottoposti all’uomo e per suo comodo. […] il peccato rimesso lo è a patto di qualcosa, che esso attende la sua espiazione, […] qui il peccatore c’è, anche se non sa d’aver peccato».
Padre Alessio:
«Che cosa ne sa una povera scimia dei vostri altari e delle vostre ostie consacrate?».
Così ha inizio, in un crescendo di toni, una discussione sul peccato – sulla sua realtà o invenzione umana –, sulla morale – degli uomini e non degli animali –, sul libero arbitrio. Poi padre Alessio scoppia in una pagina intensa:
«Dio è, monsignore, al pari di me, al pari di quella scimia, estraneo alle vostre complicate partite di dare ed avere! Dio non ha nulla a che fare colle vostre o nostre istituzioni morali, coi nostri altari, colle nostre ostie consacrate; non dico che sia al disopra o al disotto di queste cose, dico anzi che esse non gli appartengono, non gli sono pertinenti, o almeno non più di altre, di tutte le altre cose, […]. Dio, Dio non so che sia. Cento volte ogni giorno lo bestemmio e cento lo benedico … Non so che sia, e per questo forse gli son più vicino … Me lo figuro talvolta come l’idea generale o astratta di tutte le innumerevoli cose che si trovano sulla terra, perché la terra solo conosco. […] Dio […], ciò in cui ogni contrasto trova pace e ogni eterogeneo diventa omogeneo, restando tuttavia diverso. […] tutto egli comprende. […]. Dio, lo cerco … […]. Lo cerco senza tregua. So di non perderlo perché non lo troverò mai. E non posso trovarlo: io sono lui, e quando dico che lo cerco intendo che cerco di essere il più possibile lui … […] non ho parole per dire quello che voglio e sono costretto a servirmi dei vostri e nostri termini. […]. E intanto lo adoro in tutte le sue creature, che sono parte di lui e di me».
La discussione diventa uno scontro: il giovane prete si sforza d’essere violento nel parlare, per sommuovere tutta quella cappa; alla fine viene buttato fuori dalla casa ‘polverosa’ delle sorelle, non prima di rivolgere delle parole alle zittelle sullo stato esistenziale che si sono costruite.
L’epilogo: l’animale deve morire, ma v’è da decidere il tipo di supplizio. Tombo si rende conto che qualcosa non va: scoperto nella sua ‘nefandezza’ e temendo subito per sé, si è poi tranquillizzato pian piano, ma ora torna ad essere preoccupato. Ironicamente il Landolfi ci mostra alla fine come la scimia riesca in parte a capire le donne, a comprenderne le intenzioni, a capirne le gerarchie interne, mentre esse sembrano non avere la stessa sensibilità nei confronti dell’animale; quasi a volerci dire che essere diverso non vuol dire essere avulso dalla possibilità di una comunicazione.
Tombo viene ucciso con un lungo spillone acuminato per capelli:
«Infine Tombo, che s’era dibattuto furiosamente, si spense; si spense la violenza dei suoi sussulti, si spensero i suoi occhi che all’ultimo istante esprimevano ormai solo una sgomenta meraviglia».
«Una sgomenta meraviglia». Viene seppellito nel giardino della casa in paese; intorno una campagna apparentemente salubre:
«l’orizzonte è contrastato e chiuso da grandi eucalitti coi tronchi lucenti e disquamati, che sempre paiono in morboso sudore; […] gazze […] gracidano, […] in un tono stanco e senza speranza; e se volano, è un volo cadente, […]. In generale, poi, non sembrano intendersela con nessun altro uccello. E quando, chissà come, su un degli alberi capita una vivace pica, le sue strida risuonano pari a quelle d’un bimbo in una casa vuota o colpita dalla sventura, […]. E a chi guardi attorno pare, insomma, che su ogni cosa si sia deposta un’impalpabile polverina grigia».
Dal grigiore siamo partiti, al grigiore siamo tornati. È la morale la protagonista di questo racconto; la morale di cui tanto parliamo, ma di cui spesso non sappiamo trattare – soprattutto nei nostri contesti attuali, sempre più diversificati e sempre più caratterizzati da un melting pot –. La morale che a fatica riesce a costruirsi – in un processo di rinnovamento e di ricostruzione – nei rapporti tra le generazioni, forse soprattutto per la mancata responsabilità di chi ritiene di detenerne il testimone che vuole consegnare. Che manchi un sincero spirito di ascolto e di servizio in alcuni se non in molti, spirito che deve caratterizzare ogni uomo, ogni educatore, ogni cristiano, nel rapporto con se stesso e con l’altro? Forse un racconto un po’ ‘strano’ e un po’ ‘sarcastico’, che sembra tanto lontano da questi temi così impegnativi, può – con la serietà della leggerezza – aiutarci a riflettere.
Giacomo Tumminello
26/03/2010
Le due zittelle di Tommaso Landolfi restituendogli gli onori dovuti. Lo scrittore termina il lavoro nel ’43 e lo pubblica a puntate sulla rivista fiorentina “Il Mondo” della tipografia Vallecchi. Quest’ultimo rimarrà il curatore privilegiato delle opere di tutta una vita, salvo screzi e incomprensioni intermittenti, come non a caso accade per la stampa del libro in questione. Stanco delle solite lentezze decisionali dell’editore, Landolfi decide di bussare alla porta di Bompiani che lo fa uscire nel gennaio del ’46, permettendo alla critica di accoglierlo all’unanimità come opera narrativa straordinaria.
Lilla e Nena sono i campioni formidabili di una vita passata in sordina. Due sorelle votate a sacrificio per diretta intercessione di una madre che succhia loro linfa vitale fino all’ultimo respiro esalato. La morte -per paradosso e pietà- porta sollievo, scarcerando le reiette claustrali. La tregua è però breve, perché l’olezzo del miasma è spudorato in questa storia, e dissacrante. E’ la scimmia Tombo ad avere il ruolo dell’incarnazione diabolica: scoperta inscenare cerimoniali scandalosi nella cappella del monastero vicino, per ristabilire gli equilibri, l’espiazione è quella capitale. Nena, lo zoccolo duro della coppia, si erge a pretore sovrumano, titano inaccessibile dai buoni sentimenti di Lilla. La quasi banalità dell’antefatto ha risvolti grotteschi. Il racconto si fa leopardiano quando intervengono a giudizio monsignor Tostini -classicamente reazionario- e il giovane padre Alessio -ardente di un Dio che è sopra i circuiti meramente umani di “dare ed avere”-. I due si sfidano a singolar tenzone sostenendo arringa, con la platea della corte muliebre che attende di pronunciare il pollice verso. Dalla cronaca quasi bozzettistica di una vicenda familiare di provincia, l’ubris di una scimmia, dipana la trama da filosofia nel boudoir. L’autore agisce con l’autorità del narratore e lancia ammiccamenti al lettore, mediante lingua plastica e maliarda, che è squarcio subliminare di potenza incantatoria. L’arcaismo grafico, nel titolo e nel testo (la doppia - t - di zittelle) è divertimento sarcastico dello scrittore. Il falso etimo “zitta” si fa sentenza schietta del proprio umore sulla meschinità protagonista.
Tommaso Landolfi, Le due zittelle, Adelphi Editore, Milano, 1999.
Ritengo buona cosa spolverare gli scaffali della nostra letteratura, per trovare testi che possono essere una buona lente di ingrandimento e un efficiente setaccio rispetto ai contesti umani, sociali e civili in cui ci troviamo a vivere. V’è uno stile che rende tale profondità piacevole: lo stile ironico.
Questo è lo stile di Tommaso Landolfi, stile di cui è permeata tutta la sua produzione, e in questa il lungo racconto Le due zittelle. Ironico sin dal titolo. «Zittelle» gioca con «zitte» oltre che con «zitelle»: un’ironia che sa essere sarcastica, acre e irriverente. Questo scrittore contemporaneo, mai best seller, riservato e appartato come le sue opere, mostra acume e divertimento nell’analisi narrativa che fa della natura umana. Sembrano vani l’uomo e l’agire umano dipinti nei suoi racconti. Ne Le due zittelle, dalla vanità sembra levarsi un grido di denuncia contro la mancanza di rispetto della diversità, il mancato ascolto del diverso che tende le braccia verso di noi e non può che essere e manifestare quello che è. La scrittura di Landolfi, sotto una forma un po’ antiquata all’orecchio di oggi, è così viva che non può non attrarre.
In questo racconto, «il mio miglior racconto» (Landolfi), uno dei «maggiori “incubi” psicologici e morali della moderna letteratura europea» (Montale), il grottesco illuminante è che rapporti problematici non vi possono essere solo tra personaggi umani ma anche con animali: qui una scimmia manda in aria – anche con rabbia – il contesto dimesso e ottuso in cui si ritrova, e da questo contesto viene infine uccisa in una pagina dai vivacissimi colori tragicomici.
Un contesto dimesso e ottuso, le propaggini di una «muffosa» provincia italiana:
«In uno scuorante quartiere d’una città essa medesima per tanti versi scuorante, al primo piano d’una casa borghese vivevano due zittelle colla vecchia madre. […]. Epperò, volendo dir tutto e in modo sbrigativo, nell’intero rione si respirava una vaga aria di grettezza e di reazione, […] a un ignaro visitatore […] gli sarebbe sembrato che su ogni cosa si fosse deposta un’impalpabile polverina grigia».
Le protagoniste sono due anziane e devote «zittelle», Lilla e Nena. Le visite, che ricevono, riportano con orrore gli scandali che rovinano quell’apparente quiete. E poi la scimmia ‘domestica’, unico «maschio di casa», «debitamente castrato», padrone e tiranno e vittima, su cui le due zittelle effondono tutto il loro affetto femminile; il diverso eccellente, dipinto acutamente da Landolfi:
«Era la scimia un animale piuttosto piccolo e vivace, […]. Fra noi: in che modo penetrare d’un bruto i pensieri, il vero significato dei suoi gesti, anche ad adottare l’accezione umana di tali termini? Un uomo di fronte a un altro uomo ha almeno una convenzione, se non altro di linguaggio, […]. Quella scimia insomma era una scimia, con tutti gli attributi esteriori e le qualità apparenti della sua razza; era una creatura misteriosa».
Intorno a questa «creatura misteriosa» si snoda tutto il racconto: tenuta chiusa dentro una grande gabbia, dove è libera di muoversi ma allo stesso tempo costretta, nervosa e quasi piena di odio lì dentro, attenta e quasi gentile fuori di essa, a un certo punto viene scoperta da alcune pie monache essere autrice di un atroce delitto nella vicina piccola cappella. Da sola, la «scimia» riesce a liberarsi dalla gabbia, ad uscire dalla casa delle sue padrone, a superare un giardino e quindi ad entrare in quella cappella, dove …:
«[…]. E la cosa orribile ebbe principio.
«Tombo [il nome della scimmia] s’accostò con decisione al ciborio e l’aprì bruscamente, sbatacchiando il portello. Restato un attimo a guardar di traverso, come una gallina, vi affondò il solito braccio e ne trasse per due volte una manata di ostie consacrate, che rapidamente divorò. […].
«[…]. Poi, levatosi in moto brusco, brandì con una sorta di foia l’ampolla e ne leccò l’orifizio; subito dopo vi si attaccava e beveva il sacro vino rimasto fino all’ultima gocciola.
«Non era molto, quel sacro vino, e tuttavia l’effetto fu quasi immediato. Senza propriamente ubriacarlo, esso valse a conferire all’animale un gran tono e una grande baldanza, […]. Giacché s’era riaccocolato per riprendere il sacro calice, che dispose adesso nel bel mezzo dell’altare. Raccolse anche l’ostia consacrata e ve la poggiò sopra a mo’ di coperchio. Diede infine di piglio al sacro corporale, […] per buttarselo alla brava sulle spalle. […]. Venne al sacro calice, che prese mantenendosi di spalle al luogo pei fedeli, guardando ossia il ciborio, lo elevò; lo riposò; […]. Le due donne per un momento non capirono, si rifiutarono di capire … Lettore, non ne ho colpa: Tombo diceva messa.
«[… infine] devo pur dirlo in qualche modo, scompisciò l’altare».
Questo il fatto. Due religiosi sono chiamati a giudicare: monsignor Tostini,
«un di quei preti che […] ostentano una gran tolleranza e comprensione in tutte le faccende umane e non umane, che paiono grandemente apprezzare e gloriosamente celebrare la natura e il mondo del buon Dio […]; e di cui più declamatoria e retriva genia non si dà»,
e padre Alessio,
«un giovinetto, […] prete timido e facile ai rossori, e che già dicevano molto caritatevole, sebbene abitasse da poco la città; era infatti straniero, svizzero salvo errori».
Il Tostini:
«Su questi peccati e su questi peccatori infierire è gloria. Dove andrebbe a finire tra l’altro il mondo, la società, l’individuo, […]. Ora, la scimia in quanto animale aveva diritto, senza dubbio, a una più grande indulgenza; ma al tempo stesso, di nuovo in quanto animale, ammetteva una più grande severità ed escludeva i soverchi scrupoli. Giacché Dio creò gli animali sottoposti all’uomo e per suo comodo. […] il peccato rimesso lo è a patto di qualcosa, che esso attende la sua espiazione, […] qui il peccatore c’è, anche se non sa d’aver peccato».
Padre Alessio:
«Che cosa ne sa una povera scimia dei vostri altari e delle vostre ostie consacrate?».
Così ha inizio, in un crescendo di toni, una discussione sul peccato – sulla sua realtà o invenzione umana –, sulla morale – degli uomini e non degli animali –, sul libero arbitrio. Poi padre Alessio scoppia in una pagina intensa:
«Dio è, monsignore, al pari di me, al pari di quella scimia, estraneo alle vostre complicate partite di dare ed avere! Dio non ha nulla a che fare colle vostre o nostre istituzioni morali, coi nostri altari, colle nostre ostie consacrate; non dico che sia al disopra o al disotto di queste cose, dico anzi che esse non gli appartengono, non gli sono pertinenti, o almeno non più di altre, di tutte le altre cose, […]. Dio, Dio non so che sia. Cento volte ogni giorno lo bestemmio e cento lo benedico … Non so che sia, e per questo forse gli son più vicino … Me lo figuro talvolta come l’idea generale o astratta di tutte le innumerevoli cose che si trovano sulla terra, perché la terra solo conosco. […] Dio […], ciò in cui ogni contrasto trova pace e ogni eterogeneo diventa omogeneo, restando tuttavia diverso. […] tutto egli comprende. […]. Dio, lo cerco … […]. Lo cerco senza tregua. So di non perderlo perché non lo troverò mai. E non posso trovarlo: io sono lui, e quando dico che lo cerco intendo che cerco di essere il più possibile lui … […] non ho parole per dire quello che voglio e sono costretto a servirmi dei vostri e nostri termini. […]. E intanto lo adoro in tutte le sue creature, che sono parte di lui e di me».
La discussione diventa uno scontro: il giovane prete si sforza d’essere violento nel parlare, per sommuovere tutta quella cappa; alla fine viene buttato fuori dalla casa ‘polverosa’ delle sorelle, non prima di rivolgere delle parole alle zittelle sullo stato esistenziale che si sono costruite.
L’epilogo: l’animale deve morire, ma v’è da decidere il tipo di supplizio. Tombo si rende conto che qualcosa non va: scoperto nella sua ‘nefandezza’ e temendo subito per sé, si è poi tranquillizzato pian piano, ma ora torna ad essere preoccupato. Ironicamente il Landolfi ci mostra alla fine come la scimia riesca in parte a capire le donne, a comprenderne le intenzioni, a capirne le gerarchie interne, mentre esse sembrano non avere la stessa sensibilità nei confronti dell’animale; quasi a volerci dire che essere diverso non vuol dire essere avulso dalla possibilità di una comunicazione.
Tombo viene ucciso con un lungo spillone acuminato per capelli:
«Infine Tombo, che s’era dibattuto furiosamente, si spense; si spense la violenza dei suoi sussulti, si spensero i suoi occhi che all’ultimo istante esprimevano ormai solo una sgomenta meraviglia».
«Una sgomenta meraviglia». Viene seppellito nel giardino della casa in paese; intorno una campagna apparentemente salubre:
«l’orizzonte è contrastato e chiuso da grandi eucalitti coi tronchi lucenti e disquamati, che sempre paiono in morboso sudore; […] gazze […] gracidano, […] in un tono stanco e senza speranza; e se volano, è un volo cadente, […]. In generale, poi, non sembrano intendersela con nessun altro uccello. E quando, chissà come, su un degli alberi capita una vivace pica, le sue strida risuonano pari a quelle d’un bimbo in una casa vuota o colpita dalla sventura, […]. E a chi guardi attorno pare, insomma, che su ogni cosa si sia deposta un’impalpabile polverina grigia».
Dal grigiore siamo partiti, al grigiore siamo tornati. È la morale la protagonista di questo racconto; la morale di cui tanto parliamo, ma di cui spesso non sappiamo trattare – soprattutto nei nostri contesti attuali, sempre più diversificati e sempre più caratterizzati da un melting pot –. La morale che a fatica riesce a costruirsi – in un processo di rinnovamento e di ricostruzione – nei rapporti tra le generazioni, forse soprattutto per la mancata responsabilità di chi ritiene di detenerne il testimone che vuole consegnare. Che manchi un sincero spirito di ascolto e di servizio in alcuni se non in molti, spirito che deve caratterizzare ogni uomo, ogni educatore, ogni cristiano, nel rapporto con se stesso e con l’altro? Forse un racconto un po’ ‘strano’ e un po’ ‘sarcastico’, che sembra tanto lontano da questi temi così impegnativi, può – con la serietà della leggerezza – aiutarci a riflettere.
Giacomo Tumminello
26/03/2010
la civetta
La civetta
Articolo n. 1000
La civetta è un breve racconto diTommaso Landolfi. E' difficile rendere la tragica bellezza di una novella che è soprattutto una descrizione di un'alba dai colori liquidi allagati da una luce prima fioca, poi radiosa, infine abbacinante. Landolfi usa le parole come fossero corpose pennellate con cui raffigurare lo scenario grandioso e terribile dove si consumano gli ultimi istanti di vita di una civetta colpita dalla cartuccia di un cacciatore.
E' necessario riportare qualche stralcio del testo per apprezzare la maestria pittorica di Landolfi.
Ecco l'incipit: "La civetta lentò il volo all'improvviso e si posò su una forca: un'uggia, un vago malessere cominciavano ad invaderla. Non è che già l'alba imbiancasse il cielo, ma pure d'oltre l'orizzonte cominciava ad incalzare e le stelle impallidivano un poco dalla parte d'oriente; avvicinandosi lo scatenato giorno, già un sospetto di chiaria velava gli occhi della civetta le più lontane cime. Di certo s'affrettava il funesto sole a passi di lupo per affacciarsi in un esoso trionfo di fra i gioghi".
Prezioso il brano in cui è dipinto il chiarore che si diluisce tra le colline ed il cielo: "S'argentavano gli olivi, il cielo, la brezza, le nubi; si doravano, si velavano di sangue. Polvere di smeraldi e di giade ondeggiava nell'alto ed il polveroso corallo dei cirri".Il sole ormai sorto, dardeggiante raggi corruschi, è fissato in uno Spannung descrittivo: "Ruppe di botto il crestato signore del giorno e rapido grandeggiò fra le pietraie".
Da questi esempi emergono le qualità di una scrittura raffinata sino alla sontuosità, ma sempre venata da una dolorosa visione del mondo. Landolfi è scrittore, per certi versi, barocco, incline ad un'aggettivazione ridondante e ricercata, pungolato da un horror vacui che l''ispirazione sfrenata riempie di meravigliosi orrori, di ironici brividi, di incommensurabili particolari. Egli aveva intuito che la narrativa era destinata a morire, poiché si può solo raccontare l'immobile dramma dell'esistenza, in bilico tra l'assurdo e la morte per piantare lo spillo della scrittura su un pensiero abissale o su un brandello di "realtà".
Nel testo in esame, solenne poema della luce intesa come mortale fissità, il destino del pennuto, che sbarra i grandi occhi (reminiscenza della civetta pascoliana nei Poemi conviviali) e soffia disperatamente di fronte ai barbagli allucinanti, disegna il destino umano inchiodato al Da-sein, bruciato dalla vampa di un'impossibile gioia.
Nell'indifferenza cinica del cacciatore, che rinuncia al rapace notturno caduto vivo dall'albero, si consuma l'epilogo: "Ma, sebbene si sbattesse ancora lì a terra, davanti ad un cane che l'annusava diffidente e tentasse forse piccoli voli, pure la civetta non aveva più coscienza ed era felice".
Non avere più coscienza ed essere felici. Proprio così: solo nell'oblio, nel non essere, si rintana forse l'ultima illusione di felicità.
Articolo n. 1000
La civetta è un breve racconto diTommaso Landolfi. E' difficile rendere la tragica bellezza di una novella che è soprattutto una descrizione di un'alba dai colori liquidi allagati da una luce prima fioca, poi radiosa, infine abbacinante. Landolfi usa le parole come fossero corpose pennellate con cui raffigurare lo scenario grandioso e terribile dove si consumano gli ultimi istanti di vita di una civetta colpita dalla cartuccia di un cacciatore.
E' necessario riportare qualche stralcio del testo per apprezzare la maestria pittorica di Landolfi.
Ecco l'incipit: "La civetta lentò il volo all'improvviso e si posò su una forca: un'uggia, un vago malessere cominciavano ad invaderla. Non è che già l'alba imbiancasse il cielo, ma pure d'oltre l'orizzonte cominciava ad incalzare e le stelle impallidivano un poco dalla parte d'oriente; avvicinandosi lo scatenato giorno, già un sospetto di chiaria velava gli occhi della civetta le più lontane cime. Di certo s'affrettava il funesto sole a passi di lupo per affacciarsi in un esoso trionfo di fra i gioghi".
Prezioso il brano in cui è dipinto il chiarore che si diluisce tra le colline ed il cielo: "S'argentavano gli olivi, il cielo, la brezza, le nubi; si doravano, si velavano di sangue. Polvere di smeraldi e di giade ondeggiava nell'alto ed il polveroso corallo dei cirri".Il sole ormai sorto, dardeggiante raggi corruschi, è fissato in uno Spannung descrittivo: "Ruppe di botto il crestato signore del giorno e rapido grandeggiò fra le pietraie".
Da questi esempi emergono le qualità di una scrittura raffinata sino alla sontuosità, ma sempre venata da una dolorosa visione del mondo. Landolfi è scrittore, per certi versi, barocco, incline ad un'aggettivazione ridondante e ricercata, pungolato da un horror vacui che l''ispirazione sfrenata riempie di meravigliosi orrori, di ironici brividi, di incommensurabili particolari. Egli aveva intuito che la narrativa era destinata a morire, poiché si può solo raccontare l'immobile dramma dell'esistenza, in bilico tra l'assurdo e la morte per piantare lo spillo della scrittura su un pensiero abissale o su un brandello di "realtà".
Nel testo in esame, solenne poema della luce intesa come mortale fissità, il destino del pennuto, che sbarra i grandi occhi (reminiscenza della civetta pascoliana nei Poemi conviviali) e soffia disperatamente di fronte ai barbagli allucinanti, disegna il destino umano inchiodato al Da-sein, bruciato dalla vampa di un'impossibile gioia.
Nell'indifferenza cinica del cacciatore, che rinuncia al rapace notturno caduto vivo dall'albero, si consuma l'epilogo: "Ma, sebbene si sbattesse ancora lì a terra, davanti ad un cane che l'annusava diffidente e tentasse forse piccoli voli, pure la civetta non aveva più coscienza ed era felice".
Non avere più coscienza ed essere felici. Proprio così: solo nell'oblio, nel non essere, si rintana forse l'ultima illusione di felicità.
il racconto del lupo mannaro
Tommaso Landolfi
(1908-1979)
Il racconto del lupo
mannaro
IL TEMA DEL RACCONTO La luna è stata fonte di ispirazione per poesie e canzoni,
rappresentata in innumerevoli dipinti, considerata una dea da molte popolazioni e
comunque sentita come una presenza amica, che rischiara la notte benevolmente, per
tutti tranne che per i protagonisti di questo racconto, che con la luna hanno qualche
problema.
amico ed io non possiamo patire1 la luna: al suo lume escono i morti sfigurati
dalle tombe, particolarmente donne avvolte in bianchi sudari, l’aria si
colma d’ombre verdognole e talvolta s’affumica d’un giallo sinistro, tutto c’è da
temere, ogni erbetta ogni fronda ogni animale, in una notte di luna. E quel che
è peggio, essa ci costringe a rotolarci mugolando e latrando nei posti umidi, nei
braghi dietro ai pagliai; guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti! Con
cieca furia lo sbraneremmo, ammenoché egli non ci pungesse, più ratto2 di noi,
con uno spillo. E, anche in questo caso, rimaniamo tutta la notte, e poi tutto il
giorno, storditi e torpidi, come uscissimo da un incubo infamante. Insomma
l’amico ed io non possiamo patire la luna.
Ora avvenne che una notte di luna io sedessi in cucina, ch’è la stanza più
riparata della casa, presso il focolare; porte e finestre avevo chiuso, battenti e
sportelli, perché non penetrasse filo dei raggi che, fuori, empivano3 e facevano
sospesa l’aria. E tuttavia sinistri movimenti si producevano entro di me, quando
l’amico entrò all’improvviso recando in mano un grosso oggetto rotondo simile
a una vescica di strutto4, ma un po’più brillante. Osservandola si vedeva che
pulsava alquanto, come fanno certe lampade elettriche, e appariva percorsa da
deboli correnti sottopelle, le quali suscitavano lievi riflessi madreperlacei simili
a quelli di cui svariano5 le meduse.
«Che è questo?» gridai, attratto mio malgrado da alcunché di magnetico nell’aspetto
e, dirò, nel comportamento della vescica.
«Non vedi? Son riuscito ad acchiapparla...» rispose l’amico guardandomi
con un sorriso incerto.
«La luna!» esclamai allora. L’amico annuì tacendo. Lo schifo ci soverchiava:
la luna fra l’altro sudava un liquido ialino6 che gocciava di tra le dita dell’amico.
Questi però non si decideva a deporla.
«Oh mettila in quell’angolo» urlai, «troveremo il modo di ammazzarla!»
«No», disse l’amico con improvvisa risoluzione, e prese a parlare in gran fretta,
«ascoltami, io so che, abbandonata a se stessa, questa cosa schifosa farà di tutto
per tornarsene in mezzo al cielo (a tormento nostro e di tanti altri); essa non
può farne a meno, è come i palloncini dei fanciulli. E non cercherà davvero le
uscite più facili, no, su sempre dritta, ciecamente e stupidamente: essa, la maligna
che ci governa, c’è una forza irresistibile che regge anche lei. Dunque hai capito
la mia idea: lasciamola andare qui sotto la cappa, e, se non ci libereremo di lei, ci
libereremo del suo funesto splendore, giacché la fuliggine la farà nera quanto
uno spazzacamino. In qualunque altro modo è inutile, non riusciremmo ad
ammazzarla, sarebbe come voler schiacciare una lacrima d’argento vivo».
Così lasciammo andare la luna sotto la cappa; ed essa subito s’elevò colla
rapidità d’un razzo e sparì nella gola del camino.
«Oh», disse l’amico «che sollievo! quanto faticavo a tenerla giù, così viscida e
grassa com’è! E ora speriamo bene»; e si guardava con disgusto le mani impiastricciate.
Udimmo per un momento lassù un rovellio7, dei fiati sordi al pari di trulli8,
come quando si punge una vescia9, persino dei sospiri: forse la luna, giunta alla
strozzatura della gola, non poteva passare che a fatica, e si sarebbe detto che
sbuffasse. Forse comprimeva e sformava, per passare, il suo corpo molliccio;
gocce di liquido sozzo cadevano friggendo nel fuoco, la cucina s’empiva di
fumo, giacché la luna ostruiva il passaggio. Poi più nulla e la cappa prese a
risucchiare il fumo.
Ci precipitammo fuori. Un gelido vento spazzava il cielo terso, tutte le stelle
brillavano vivamente; e della luna non si scorgeva traccia. Evviva urràh, gridammo
come invasati, è fatta! e ci abbracciavamo. Io poi fui preso da un dubbio:
non poteva darsi che la luna fosse rimasta appiattata nella gola del mio
camino? Ma l’amico mi rassicurò, non poteva essere, assolutamente no, e del
resto m’accorsi che né lui né io avremmo avuto ormai il coraggio d’andare a
vedere; così ci abbandonammo, fuori, alla nostra gioia. Io, quando rimasi solo
bruciai sul fuoco, con grande circospezione, sostanze velenose, e quei suffumigi10
mi tranquillizzarono del tutto. Quella notte medesima, per gioia, andammo
a rotolarci un po’ in un posto umido nel mio giardino, ma così, innocentemente
e quasi per sfregio, non perché vi fossimo costretti.
Per parecchi mesi la luna non ricomparve in cielo e noi eravamo liberi e leggeri.
Liberi no, contenti e liberi dalle triste rabbie, ma non liberi. Giacché non è
che non ci fosse in cielo, lo sentivamo bene invece che c’era e ci guardava; solo
era buia, nera, troppo fuligginosa per potersi vedere e poterci tormentare. Era
come il sole nero e notturno che nei tempi antichi attraversava il cielo a ritroso,
fra il tramonto e l’alba.
Infatti, anche quella nostra misera gioia cessò presto; una notte la luna ricomparve.
Era slabbrata e fumosa, cupa da non si dire, e si vedeva appena, forse solo
l’amico ed io potevamo vederla, perché sapevamo che c’era; e ci guardava rabbuiata
di lassù con aria di vendetta. Vedemmo allora quanto l’avesse danneggiata
il suo passaggio forzato per la gola del camino; ma il vento degli spazi e la sua
corsa stessa l’andavano gradatamente mondando11 della fuliggine, e il suo continuo
volteggiare ne riplasmava il molle corpo. Per molto tempo apparve come
quando esce da un’eclisse, pure ogni giorno un po’più chiara; finché ridivenne
così, come ognuno può vederla, e noi abbiamo ripreso a rotolarci nei braghi.
Ma non s’è vendicata, come sembrava volesse, in fondo è più buona di quanto
non si crede, meno maligna più stupida, che so! Io per me propendo a credere
che non ci abbia colpa in definitiva, che non sia colpa sua, che lei ci è obbligata
tale e quale come noi, davvero propendo a crederlo. L’amico no, secondo lui
non ci sono scuse che tengano.
Ed ecco ad ogni modo perché io vi dico: contro la luna non c’è niente da
fare.
Percorso di lettura 1 3
S. Damele, T. Franzi, Storie che contano © Loescher Editore, 2010PUBBLICAZIONE
Il mar delle blatte e altre
storie, 1939
LUOGO E TEMPO
campagna italiana,
senza tempo
PERSONAGGI
due amici, lupi mannari
1. patire: sopportare, tollerare.
2. ratto: veloce.
3. empivano: riempivano.
4. vescica di strutto: la vescica urinaria
di maiale o di bovino che veniva ripulita
e fatta seccare per contenere lo strutto,
il grasso di maiale per friggere.
5. svariano: danno colorazioni diverse.
6. ialino: che ha l’aspetto e la trasparenza
del vetro.
7. rovellio: lavorio
faticoso.
8. trulli: rumorose
emissioni d’aria
dagli intestini.
9. vescia: vescica.
10. suffumigi: va -
pori.
SCHEDA DI ANALISI Il racconto del lupo mannaro
LA STORIA E I PERSONAGGI
Il lato buffo dell’orrore
Landolfi nei suoi racconti amava addentrarsi nella dimensione del fantastico, però in
modo molto personale e spesso ribaltandone i termini. È ciò che avviene anche in questo
racconto a proposito del rapporto tra la luna e i protagonisti, due amici affetti da
licantropismo, fenomeno per cui la luna piena trasformerebbe alcuni uomini in lupi
mannari, i licantropi. Il motivo del lupo mannaro, che ha origine in una forma di isteria
che spingerebbe l’individuo colpito – di solito in coincidenza con la fase di luna piena –
a simulare il comportamento e l’ululato del lupo, è presente nella letteratura dell’orrore,
sia in quella popolare che in quella colta, basti ricordare la novella Mal di Luna di
Pirandello.
Landolfi ne offre una versione molto personale: vittime non sono i lupi mannari, ma la
luna. Non si sa come, essa è stata catturata ed è descritta prima come qualcosa di ripugnante
(«un grosso oggetto rotondo simile a una vescica di strutto, ma un po’più brillante
»), poi come una sfera affumicata e deformata, a causa del passaggio dalla canna
del camino, percorso consacrato dalla favolistica al lupo cattivo, e il riferimento non è
casuale.
I temi
Del racconto si possono dare diverse interpretazioni. A un primo livello si può notare
che l’autore ha operato un cambiamento di connotazione del fantastico: da cupo e terrificante
l’ha trasformato in giocoso e leggero, per il divertimento suo e dei lettori.
A una lettura più approfondita si può analizzare il rapporto tra i protagonisti, uomini
tormentati, incapaci di accettare se stessi e le proprie manchevolezze, e la luna, personalizzazione
simbolica dei loro incubi, di cui ci si può impadronire, ma non si può
distruggere. Mettono in atto un complicato rituale per liberarsene («... lasciamola
andare qui sotto la cappa, e, se non ci libereremo di lei, ci libereremo del suo funesto
splendore... In qualunque altro modo è inutile, non riusciremmo ad ammazzarla»), ma
esso è preventivamente e dichiaratamente destinato al fallimento. Altrettanto si può
dire per la loro aspirazione alla normalità; anche quando la luna non compare più in
cielo, essi non sono liberi dalla loro privata ossessione e sentono il bisogno di comportarsi
come se ci fosse, anche se non sono disposti a riconoscerlo: «Quella notte medesima,
per gioia, andammo a rotolarci un po’ in un posto umido nel mio giardino, ma
così, innocentemente e quasi per sfregio, non perché vi fossimo costretti».
IL DISCORSO NARRATIVO
La costruzione della storia
I racconti de Landolfi sono stati definiti da Italo Calvino dei “congegni narrativi esatti”,
in cui l’autore sa costruire la storia oscillando tra il surreale e il grottesco e soprattutto
utilizzando il meccanismo del “non detto”. Del comportamento dei protagonisti,
«l’amico e io», e della loro insofferenza verso la luna è offerta una descrizione ampia
(«... essa ci costringe a rotolarci mugolando e latrando nei posti umidi, nei braghi dietro
ai pagliai; guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti!...»), ma incompleta,
in quanto non si spiega mai che sono lupi mannari. Così come non si dice che quel
«grosso oggetto rotondo simile a una vescica di strutto» è la luna. Divenuta invisibile
(«Per parecchi mesi la luna non ricomparve in cielo e noi eravamo liberi e leggeri»), la
luna è un personaggio presente quanto e più di prima («... lo sentivamo bene invece che
c’era e ci guardava; solo era buia, nera...»), creando un senso di attesa verso lo scioglimento
finale, quando la luna «slabbrata e fumosa, cupa da non si dire» ricompare e,
quasi con sollievo, i due protagonisti riprendono a rotolarsi nel braghi, perché «controla luna non c’è niente da fare».
(1908-1979)
Il racconto del lupo
mannaro
IL TEMA DEL RACCONTO La luna è stata fonte di ispirazione per poesie e canzoni,
rappresentata in innumerevoli dipinti, considerata una dea da molte popolazioni e
comunque sentita come una presenza amica, che rischiara la notte benevolmente, per
tutti tranne che per i protagonisti di questo racconto, che con la luna hanno qualche
problema.
amico ed io non possiamo patire1 la luna: al suo lume escono i morti sfigurati
dalle tombe, particolarmente donne avvolte in bianchi sudari, l’aria si
colma d’ombre verdognole e talvolta s’affumica d’un giallo sinistro, tutto c’è da
temere, ogni erbetta ogni fronda ogni animale, in una notte di luna. E quel che
è peggio, essa ci costringe a rotolarci mugolando e latrando nei posti umidi, nei
braghi dietro ai pagliai; guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti! Con
cieca furia lo sbraneremmo, ammenoché egli non ci pungesse, più ratto2 di noi,
con uno spillo. E, anche in questo caso, rimaniamo tutta la notte, e poi tutto il
giorno, storditi e torpidi, come uscissimo da un incubo infamante. Insomma
l’amico ed io non possiamo patire la luna.
Ora avvenne che una notte di luna io sedessi in cucina, ch’è la stanza più
riparata della casa, presso il focolare; porte e finestre avevo chiuso, battenti e
sportelli, perché non penetrasse filo dei raggi che, fuori, empivano3 e facevano
sospesa l’aria. E tuttavia sinistri movimenti si producevano entro di me, quando
l’amico entrò all’improvviso recando in mano un grosso oggetto rotondo simile
a una vescica di strutto4, ma un po’più brillante. Osservandola si vedeva che
pulsava alquanto, come fanno certe lampade elettriche, e appariva percorsa da
deboli correnti sottopelle, le quali suscitavano lievi riflessi madreperlacei simili
a quelli di cui svariano5 le meduse.
«Che è questo?» gridai, attratto mio malgrado da alcunché di magnetico nell’aspetto
e, dirò, nel comportamento della vescica.
«Non vedi? Son riuscito ad acchiapparla...» rispose l’amico guardandomi
con un sorriso incerto.
«La luna!» esclamai allora. L’amico annuì tacendo. Lo schifo ci soverchiava:
la luna fra l’altro sudava un liquido ialino6 che gocciava di tra le dita dell’amico.
Questi però non si decideva a deporla.
«Oh mettila in quell’angolo» urlai, «troveremo il modo di ammazzarla!»
«No», disse l’amico con improvvisa risoluzione, e prese a parlare in gran fretta,
«ascoltami, io so che, abbandonata a se stessa, questa cosa schifosa farà di tutto
per tornarsene in mezzo al cielo (a tormento nostro e di tanti altri); essa non
può farne a meno, è come i palloncini dei fanciulli. E non cercherà davvero le
uscite più facili, no, su sempre dritta, ciecamente e stupidamente: essa, la maligna
che ci governa, c’è una forza irresistibile che regge anche lei. Dunque hai capito
la mia idea: lasciamola andare qui sotto la cappa, e, se non ci libereremo di lei, ci
libereremo del suo funesto splendore, giacché la fuliggine la farà nera quanto
uno spazzacamino. In qualunque altro modo è inutile, non riusciremmo ad
ammazzarla, sarebbe come voler schiacciare una lacrima d’argento vivo».
Così lasciammo andare la luna sotto la cappa; ed essa subito s’elevò colla
rapidità d’un razzo e sparì nella gola del camino.
«Oh», disse l’amico «che sollievo! quanto faticavo a tenerla giù, così viscida e
grassa com’è! E ora speriamo bene»; e si guardava con disgusto le mani impiastricciate.
Udimmo per un momento lassù un rovellio7, dei fiati sordi al pari di trulli8,
come quando si punge una vescia9, persino dei sospiri: forse la luna, giunta alla
strozzatura della gola, non poteva passare che a fatica, e si sarebbe detto che
sbuffasse. Forse comprimeva e sformava, per passare, il suo corpo molliccio;
gocce di liquido sozzo cadevano friggendo nel fuoco, la cucina s’empiva di
fumo, giacché la luna ostruiva il passaggio. Poi più nulla e la cappa prese a
risucchiare il fumo.
Ci precipitammo fuori. Un gelido vento spazzava il cielo terso, tutte le stelle
brillavano vivamente; e della luna non si scorgeva traccia. Evviva urràh, gridammo
come invasati, è fatta! e ci abbracciavamo. Io poi fui preso da un dubbio:
non poteva darsi che la luna fosse rimasta appiattata nella gola del mio
camino? Ma l’amico mi rassicurò, non poteva essere, assolutamente no, e del
resto m’accorsi che né lui né io avremmo avuto ormai il coraggio d’andare a
vedere; così ci abbandonammo, fuori, alla nostra gioia. Io, quando rimasi solo
bruciai sul fuoco, con grande circospezione, sostanze velenose, e quei suffumigi10
mi tranquillizzarono del tutto. Quella notte medesima, per gioia, andammo
a rotolarci un po’ in un posto umido nel mio giardino, ma così, innocentemente
e quasi per sfregio, non perché vi fossimo costretti.
Per parecchi mesi la luna non ricomparve in cielo e noi eravamo liberi e leggeri.
Liberi no, contenti e liberi dalle triste rabbie, ma non liberi. Giacché non è
che non ci fosse in cielo, lo sentivamo bene invece che c’era e ci guardava; solo
era buia, nera, troppo fuligginosa per potersi vedere e poterci tormentare. Era
come il sole nero e notturno che nei tempi antichi attraversava il cielo a ritroso,
fra il tramonto e l’alba.
Infatti, anche quella nostra misera gioia cessò presto; una notte la luna ricomparve.
Era slabbrata e fumosa, cupa da non si dire, e si vedeva appena, forse solo
l’amico ed io potevamo vederla, perché sapevamo che c’era; e ci guardava rabbuiata
di lassù con aria di vendetta. Vedemmo allora quanto l’avesse danneggiata
il suo passaggio forzato per la gola del camino; ma il vento degli spazi e la sua
corsa stessa l’andavano gradatamente mondando11 della fuliggine, e il suo continuo
volteggiare ne riplasmava il molle corpo. Per molto tempo apparve come
quando esce da un’eclisse, pure ogni giorno un po’più chiara; finché ridivenne
così, come ognuno può vederla, e noi abbiamo ripreso a rotolarci nei braghi.
Ma non s’è vendicata, come sembrava volesse, in fondo è più buona di quanto
non si crede, meno maligna più stupida, che so! Io per me propendo a credere
che non ci abbia colpa in definitiva, che non sia colpa sua, che lei ci è obbligata
tale e quale come noi, davvero propendo a crederlo. L’amico no, secondo lui
non ci sono scuse che tengano.
Ed ecco ad ogni modo perché io vi dico: contro la luna non c’è niente da
fare.
Percorso di lettura 1 3
S. Damele, T. Franzi, Storie che contano © Loescher Editore, 2010PUBBLICAZIONE
Il mar delle blatte e altre
storie, 1939
LUOGO E TEMPO
campagna italiana,
senza tempo
PERSONAGGI
due amici, lupi mannari
1. patire: sopportare, tollerare.
2. ratto: veloce.
3. empivano: riempivano.
4. vescica di strutto: la vescica urinaria
di maiale o di bovino che veniva ripulita
e fatta seccare per contenere lo strutto,
il grasso di maiale per friggere.
5. svariano: danno colorazioni diverse.
6. ialino: che ha l’aspetto e la trasparenza
del vetro.
7. rovellio: lavorio
faticoso.
8. trulli: rumorose
emissioni d’aria
dagli intestini.
9. vescia: vescica.
10. suffumigi: va -
pori.
SCHEDA DI ANALISI Il racconto del lupo mannaro
LA STORIA E I PERSONAGGI
Il lato buffo dell’orrore
Landolfi nei suoi racconti amava addentrarsi nella dimensione del fantastico, però in
modo molto personale e spesso ribaltandone i termini. È ciò che avviene anche in questo
racconto a proposito del rapporto tra la luna e i protagonisti, due amici affetti da
licantropismo, fenomeno per cui la luna piena trasformerebbe alcuni uomini in lupi
mannari, i licantropi. Il motivo del lupo mannaro, che ha origine in una forma di isteria
che spingerebbe l’individuo colpito – di solito in coincidenza con la fase di luna piena –
a simulare il comportamento e l’ululato del lupo, è presente nella letteratura dell’orrore,
sia in quella popolare che in quella colta, basti ricordare la novella Mal di Luna di
Pirandello.
Landolfi ne offre una versione molto personale: vittime non sono i lupi mannari, ma la
luna. Non si sa come, essa è stata catturata ed è descritta prima come qualcosa di ripugnante
(«un grosso oggetto rotondo simile a una vescica di strutto, ma un po’più brillante
»), poi come una sfera affumicata e deformata, a causa del passaggio dalla canna
del camino, percorso consacrato dalla favolistica al lupo cattivo, e il riferimento non è
casuale.
I temi
Del racconto si possono dare diverse interpretazioni. A un primo livello si può notare
che l’autore ha operato un cambiamento di connotazione del fantastico: da cupo e terrificante
l’ha trasformato in giocoso e leggero, per il divertimento suo e dei lettori.
A una lettura più approfondita si può analizzare il rapporto tra i protagonisti, uomini
tormentati, incapaci di accettare se stessi e le proprie manchevolezze, e la luna, personalizzazione
simbolica dei loro incubi, di cui ci si può impadronire, ma non si può
distruggere. Mettono in atto un complicato rituale per liberarsene («... lasciamola
andare qui sotto la cappa, e, se non ci libereremo di lei, ci libereremo del suo funesto
splendore... In qualunque altro modo è inutile, non riusciremmo ad ammazzarla»), ma
esso è preventivamente e dichiaratamente destinato al fallimento. Altrettanto si può
dire per la loro aspirazione alla normalità; anche quando la luna non compare più in
cielo, essi non sono liberi dalla loro privata ossessione e sentono il bisogno di comportarsi
come se ci fosse, anche se non sono disposti a riconoscerlo: «Quella notte medesima,
per gioia, andammo a rotolarci un po’ in un posto umido nel mio giardino, ma
così, innocentemente e quasi per sfregio, non perché vi fossimo costretti».
IL DISCORSO NARRATIVO
La costruzione della storia
I racconti de Landolfi sono stati definiti da Italo Calvino dei “congegni narrativi esatti”,
in cui l’autore sa costruire la storia oscillando tra il surreale e il grottesco e soprattutto
utilizzando il meccanismo del “non detto”. Del comportamento dei protagonisti,
«l’amico e io», e della loro insofferenza verso la luna è offerta una descrizione ampia
(«... essa ci costringe a rotolarci mugolando e latrando nei posti umidi, nei braghi dietro
ai pagliai; guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti!...»), ma incompleta,
in quanto non si spiega mai che sono lupi mannari. Così come non si dice che quel
«grosso oggetto rotondo simile a una vescica di strutto» è la luna. Divenuta invisibile
(«Per parecchi mesi la luna non ricomparve in cielo e noi eravamo liberi e leggeri»), la
luna è un personaggio presente quanto e più di prima («... lo sentivamo bene invece che
c’era e ci guardava; solo era buia, nera...»), creando un senso di attesa verso lo scioglimento
finale, quando la luna «slabbrata e fumosa, cupa da non si dire» ricompare e,
quasi con sollievo, i due protagonisti riprendono a rotolarsi nel braghi, perché «controla luna non c’è niente da fare».
cancroregina
Tommaso Landolfi e la sua storia bizzarra nel racconto Cancroregina di Nunzia Attardi - il 27 maggio
I protagonisti del romanzo di Landolfi, Cancroregina, sono due: da un lato c'è uno scrittore fallito, pieno di debiti e con la voglia di evadere da una routine noiosa e solitaria; dall'altro c'è uno scienziato folle, uscito da poco da un manicomio che invita lo scrittore a prendere parte, insieme a lui, ad un'avventura bizzarra e lontana dalle sue abitudini che consiste nel fare un viaggio, o meglio un volo verso la luna a bordo di un'astronave di sua creazione chiamata Cancroregina. Già da questi pochi elementi è chiaro come Landolfi abbia voluto mescolare motivi di reportario assai familiari nella letteratura: la noia di una situazione statica, la possibilità di evadere e fare una nuova esperienza presentata da una figura ambigua a metà tra il Mefistofole del Faust e il genio della lampada della favola di Aladdin e infine il viaggio. Proprio il viaggio, organizzato all'improvviso e figlio di disperazione, speranza e follia insieme, si trasforma in un incubo: quando le cose sembrano andare bene, lo scienziato rivela la sua natura folle (sebbene già fossero evidenti i suoi squilibri mentali) esasperando lo scrittore e addirittura accusandolo di impedire, con il suo peso, la normale andatura del viaggio. Dal momento che i due “esploratori” sanno poco l'uno dell'altro e sono mossi da motivazioni assai diverse le liti e le incomprensioni arrivano ad un livello di tensione tale che lo scrittore per difendersi dal folle scienziato lo scaraventa letteralmente fuori dalla navicella. Lo scrittore crede così di essere solo; in realtà lo scienziato Filano si è aggrappato alla navicella e continua a far parte del viaggio ea seguire la sua navicella nello spazio. Landolfi a questo punto del romanzo trasforma completamente la sua storia: da un racconto iniziale, strutturato a norma (benche la presenza di elementi bizzarri), si passa ad una sorta di diario di bordo in prima persona, un flusso di parole dello scrittore che riflette sul senso di vacuità e di insoddisfazione della sua vita e della condizione dell'uomo in generale. A mio avviso Landolfi, trova con una maniera innovativa e stramba di riflettere sui temi dell'uomo, come già era successo in passato e su uno in particolare: la pazzia. La pazzia pervade l'opera del Landolfi, con sfaccettature diverse nei due personaggi e anche nella stessa navicella: abbandonato il comune progetto di conquistare la luna e trovatosi solo, lo scrittore diventa vittima di Cancroregina, la navicella si ribella, per un guasto tecnico, impazzisce appunto e si ferma, lontana dalla luna, lontana dalla terra, bloccata nell'orbita dello spazio e il protagonista con lei. Sergio Givone, filosofo italiano, a proprosito di Cancroregina definisce il romanzo Un viaggio al fondo della disperazione.
I protagonisti del romanzo di Landolfi, Cancroregina, sono due: da un lato c'è uno scrittore fallito, pieno di debiti e con la voglia di evadere da una routine noiosa e solitaria; dall'altro c'è uno scienziato folle, uscito da poco da un manicomio che invita lo scrittore a prendere parte, insieme a lui, ad un'avventura bizzarra e lontana dalle sue abitudini che consiste nel fare un viaggio, o meglio un volo verso la luna a bordo di un'astronave di sua creazione chiamata Cancroregina. Già da questi pochi elementi è chiaro come Landolfi abbia voluto mescolare motivi di reportario assai familiari nella letteratura: la noia di una situazione statica, la possibilità di evadere e fare una nuova esperienza presentata da una figura ambigua a metà tra il Mefistofole del Faust e il genio della lampada della favola di Aladdin e infine il viaggio. Proprio il viaggio, organizzato all'improvviso e figlio di disperazione, speranza e follia insieme, si trasforma in un incubo: quando le cose sembrano andare bene, lo scienziato rivela la sua natura folle (sebbene già fossero evidenti i suoi squilibri mentali) esasperando lo scrittore e addirittura accusandolo di impedire, con il suo peso, la normale andatura del viaggio. Dal momento che i due “esploratori” sanno poco l'uno dell'altro e sono mossi da motivazioni assai diverse le liti e le incomprensioni arrivano ad un livello di tensione tale che lo scrittore per difendersi dal folle scienziato lo scaraventa letteralmente fuori dalla navicella. Lo scrittore crede così di essere solo; in realtà lo scienziato Filano si è aggrappato alla navicella e continua a far parte del viaggio ea seguire la sua navicella nello spazio. Landolfi a questo punto del romanzo trasforma completamente la sua storia: da un racconto iniziale, strutturato a norma (benche la presenza di elementi bizzarri), si passa ad una sorta di diario di bordo in prima persona, un flusso di parole dello scrittore che riflette sul senso di vacuità e di insoddisfazione della sua vita e della condizione dell'uomo in generale. A mio avviso Landolfi, trova con una maniera innovativa e stramba di riflettere sui temi dell'uomo, come già era successo in passato e su uno in particolare: la pazzia. La pazzia pervade l'opera del Landolfi, con sfaccettature diverse nei due personaggi e anche nella stessa navicella: abbandonato il comune progetto di conquistare la luna e trovatosi solo, lo scrittore diventa vittima di Cancroregina, la navicella si ribella, per un guasto tecnico, impazzisce appunto e si ferma, lontana dalla luna, lontana dalla terra, bloccata nell'orbita dello spazio e il protagonista con lei. Sergio Givone, filosofo italiano, a proprosito di Cancroregina definisce il romanzo Un viaggio al fondo della disperazione.
LA PASSEGGIATA
La passeggiata
Parafrasando Magritte, il racconto a seguire di Landolfi non è una passeggiata. E' tutto costruito con parole desuete, arcaiche, strambe, oscure. Ma assolutamente vere, non inventate. Parole sante, insomma, quelle che ogni tanto mi diverto a presentare. E siccome sono buono, ecco un link con la "traduzione" delle parole più difficili.
La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima ... Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina.
In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!…
Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene.
— Dove le porti?
— Agli aratori laggiù: vede, dov’è quell’essedo. C’è il crovello per loro.
— E il mivolo, o il gobbello?
— Bah, noialtri si fa senza.
E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai. Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola.
Che dirvi? quando mi trovai tra quei miei piccoli amici senza parola, lo gnafalio, il telefio, il mezereo, e tutta quella gualda, mi si aprì il cuore. Procedetti, e principiarono i camepizi, le bugole, gli ilatri, i matalli, gli zizzifi anche, benché, a vero dire, guasti alquanto dall’exoasco o dall’oidio; e zighene e arginnidi (pafie o latonie) e le piccole depressarie passavano di luogo in luogo; e, accanto o sopra me, trochili e peppole, parizzole e castorchie, e l’aria era tutta uno zezzio, un zinzilulio… E c’era poi il popolo minore: le smicre, i lissi, l’empidi medesime, e chi potrebbe noverarlo tutto!…
Alla fodina ormai l’acqua da tant’anni stagnava: rabeschi di gigartina, fumoso trasparire di carta, e zannichellia e scirpo; giungendo io, tre farciglioni fuggirono, e balenò un cimandorlo. Ma era destino che neppur qui fossi lasciato tranquillo. Sentii frusciar la frasca alle mie spalle; mi volsi: il gignore del ferrazzuolo che sbiluciava.
— O tu?… Beh, che si fa di bello al distendino?
— Uhm, poco di bello: il padrone s’è dato piuttosto alla moatra.
Anche questo! Io non sono un lerniuccio, ma via…
— Già, — riprese, — da noi ora è troppo se si fa fernette; mancano perfin le ingordine.
— Bravo davvero il tuo padrone!
— Mah, si sa bene, quando la s’infaona…
— E qui ora che ci fai?
— Per via dei leucischi. Ci si buttaron noi anni addietro.
— Ah, ecco; e come…
— Coi prostomi e colle molleche, — rispose pronto.
Non era un caramogio, come non era uno sbiobbo, s’ha a dire. Ma io lo lasciai lì e mi spinsi innanzi per la lonchite. Sapevo che da un certo punto si scopriva una bella vista.
Ed eccolo laggiù, il gran padre; e perfino si scorgevano brillare i froncoli quando prendevano il sole. E v’era una checchia venuta di lontano, con tanto di bonette all’ipartia… Quanti pensieri, quante fantasie m’invasero allora! Usava più il chenisco? Oh tempi d’una volta: “Inguala!”, e via per iciche, per mocaiardi, per cheripi, per lanfe. E qualcuno moriva in terra straniera, ma la chernite ne riportava intatte le spoglie al paese natale: o aveva anch’essa ormai perso la sua virtù?…
Ah, s’era fatto tardi: sull’afaca e sulla ghingola compariva la trochilia, sull’atropa l’atropo, sull’agrostide l’agrostide; dove pur mò sfolgorio di sole, non era ormai che un ghimè; si diffondeva odor di nectria; s’udiva un ghiattire lontano. E così passo passo me ne tornai.
— Or mentre io fendo i sisimbri e finché sia giunto a casa, dimmi o amico lettore: son io poco un ghiargione? Tu non rispondi, e con ciò assenti; e non hai torto. Pure, non ne darei un ghieu di chi non sapesse empirsi gli occhi e l’anima come io feci quel giorno, o, sapendo, volesse tenersi ogni cosa per sé solo.
Ma ecco giunsi: la mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava, se non quella stessa, una bozzima.
Parafrasando Magritte, il racconto a seguire di Landolfi non è una passeggiata. E' tutto costruito con parole desuete, arcaiche, strambe, oscure. Ma assolutamente vere, non inventate. Parole sante, insomma, quelle che ogni tanto mi diverto a presentare. E siccome sono buono, ecco un link con la "traduzione" delle parole più difficili.
La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima ... Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina.
In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!…
Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene.
— Dove le porti?
— Agli aratori laggiù: vede, dov’è quell’essedo. C’è il crovello per loro.
— E il mivolo, o il gobbello?
— Bah, noialtri si fa senza.
E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai. Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola.
Che dirvi? quando mi trovai tra quei miei piccoli amici senza parola, lo gnafalio, il telefio, il mezereo, e tutta quella gualda, mi si aprì il cuore. Procedetti, e principiarono i camepizi, le bugole, gli ilatri, i matalli, gli zizzifi anche, benché, a vero dire, guasti alquanto dall’exoasco o dall’oidio; e zighene e arginnidi (pafie o latonie) e le piccole depressarie passavano di luogo in luogo; e, accanto o sopra me, trochili e peppole, parizzole e castorchie, e l’aria era tutta uno zezzio, un zinzilulio… E c’era poi il popolo minore: le smicre, i lissi, l’empidi medesime, e chi potrebbe noverarlo tutto!…
Alla fodina ormai l’acqua da tant’anni stagnava: rabeschi di gigartina, fumoso trasparire di carta, e zannichellia e scirpo; giungendo io, tre farciglioni fuggirono, e balenò un cimandorlo. Ma era destino che neppur qui fossi lasciato tranquillo. Sentii frusciar la frasca alle mie spalle; mi volsi: il gignore del ferrazzuolo che sbiluciava.
— O tu?… Beh, che si fa di bello al distendino?
— Uhm, poco di bello: il padrone s’è dato piuttosto alla moatra.
Anche questo! Io non sono un lerniuccio, ma via…
— Già, — riprese, — da noi ora è troppo se si fa fernette; mancano perfin le ingordine.
— Bravo davvero il tuo padrone!
— Mah, si sa bene, quando la s’infaona…
— E qui ora che ci fai?
— Per via dei leucischi. Ci si buttaron noi anni addietro.
— Ah, ecco; e come…
— Coi prostomi e colle molleche, — rispose pronto.
Non era un caramogio, come non era uno sbiobbo, s’ha a dire. Ma io lo lasciai lì e mi spinsi innanzi per la lonchite. Sapevo che da un certo punto si scopriva una bella vista.
Ed eccolo laggiù, il gran padre; e perfino si scorgevano brillare i froncoli quando prendevano il sole. E v’era una checchia venuta di lontano, con tanto di bonette all’ipartia… Quanti pensieri, quante fantasie m’invasero allora! Usava più il chenisco? Oh tempi d’una volta: “Inguala!”, e via per iciche, per mocaiardi, per cheripi, per lanfe. E qualcuno moriva in terra straniera, ma la chernite ne riportava intatte le spoglie al paese natale: o aveva anch’essa ormai perso la sua virtù?…
Ah, s’era fatto tardi: sull’afaca e sulla ghingola compariva la trochilia, sull’atropa l’atropo, sull’agrostide l’agrostide; dove pur mò sfolgorio di sole, non era ormai che un ghimè; si diffondeva odor di nectria; s’udiva un ghiattire lontano. E così passo passo me ne tornai.
— Or mentre io fendo i sisimbri e finché sia giunto a casa, dimmi o amico lettore: son io poco un ghiargione? Tu non rispondi, e con ciò assenti; e non hai torto. Pure, non ne darei un ghieu di chi non sapesse empirsi gli occhi e l’anima come io feci quel giorno, o, sapendo, volesse tenersi ogni cosa per sé solo.
Ma ecco giunsi: la mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava, se non quella stessa, una bozzima.
LE LABRENE
LANDOLFI TOMMASO
LE LABRENE
Gio, 05/04/2007 - 19:36 — franchi
Tra il terzo e ultimo diario di Landolfi, “Des mois”, e questa raccolta di racconti passano sette anni; periodo segnato dalla pubblicazione di versi (segnalo, a beneficio dei pochi appassionati landolfiani, “Viola di morte” del 1972) racconti per bambini, filastrocche, raccolte di articoli già apparsi sul Corriere della Sera, l’ottimo volume di recensioni “Gogol a Roma”, un Faust per il teatro (a proposito del quale non ho trovato traccia – episodica – diversa dal nome).
Ecco quindi questa raccolta di sette racconti: prima grande novità rispetto alle precedenti antologie è il ruolo da protagonista – meglio sarebbe dire: antagonista – d’una figura letteraria (e non solo) che dovremmo semplicemente chiamare “moglie”. Seconda innovazione, la prepotente (e probabilmente funzionale, in chiave biografica) apparizione della (letteraria) categoria del “doppio”. Il fantastico – meglio: la trasfigurazione fantastica della propria biografia o di determinati eventi o sentimenti – via via tende a sfumare e a dissolversi. Rivelando, probabilmente, che la prima fonte d’ispirazione di Landolfi era la satira. D’ogni cosa, eccetto che di se stesso, a ben guardare. È comprensibile, naturalmente.
Allora – già che ci siamo – è bene ammonire chi intende accostarsi alle opere dello scrittore di Pico Farnese da neofita o giù di lì, magari per sentito dire, o forse per suggestioni meravigliose o fama d’atipicità e di ottocentismo: tornate indietro e guardate con interesse ai primi diciott’anni di produzione, diciamo dal 1937 alla metà degli anni Cinquanta, per innamorarvi di quella scrittura e di quelle narrazioni che meritano si versino fiumi d’(accademico) inchiostro per diverse generazioni.
In questo caso, onestamente, c’è da salutare positivamente la fluidità della narrazione, la densità e la ricercatezza del lessico – a proposito, non manca almeno un (apparente?) neologismo: la forma verbale “amonesta”, che non ho altrove riscontrato – e la capacità di catturare il lettore. Le trame sono deboli, fiacche e poco suggestive, con l’eccezione di quella del racconto eponimo.
A partire dalla geco-fobia dell’artista – le “labrene” sono proprio i gechi – si va imbastendo un grottesco scenario di morte presunta dopo un fortuito contatto diretto con una di queste creaturine; il narratore non respira più e viene giudicato morto. Ascolta, creduto da tutti ormai defunto, il cugino che cerca – e quasi vi riesce – di sedurre la moglie; viene addirittura quasi sepolto, svicolando con un grido che interrompe la cerimonia e impedisce la tumulazione. E subito dopo è indagine sull’ossessione del tradimento, sino all’epilogo in cui l’ossessione per i gechi si sintetizza: la labrena (o la moglie?) lo fissa con uno sguardo in cui si sintetizza “tutto il male, tutto il dolore del mondo”.
Curioso come l’autore abbia parlato, già nelle prime battute, di “repulsione”, “nausea” e “disgusto” per questi invasori delle abitazioni; naturalmente l’ossessione derivava da una mania materna. La descrizione della creatura è, al solito, puntigliosa e ampiamente letteraria (p. 9): “Sorta di coccodrillo in miniatura che frequenta e percorre serpeggiando le vecchie muraglie, penetrando al caso fin nelle stanze d’abitazione, ove, come dappertutto, guata e sorprende insetti vari e segnatamente farfalle” – al termine della descrizione, viene da recriminare pensando al talento sprecato, tutto qui, per parlare di così poco; nemmeno il simbolismo che ho cercato di tradurvi è sufficiente per una lettura diversa da quella biografica/psicanalitica.
Curioso che finalmente – dopo tanti libri – si parli di penetrazione. Finalmente un personaggio di Landolfi penetra! Ma attenzione: “ho penetrato i tuoi disegni, la parte da te avuta nel mio orribile male, le tue attuali intenzioni, i tuoi colpevoli sentimenti per un altro uomo, insomma tutto” – e certo. Tutto. Sia chiaro che s’allude alla paranoia che sia stata la moglie a insinuare le labrene in camera. Questo l’orribile disegno penetrato. Il “doppio”, in questo caso, è il passaggio da “vivo” a “morto” (in vita).
In “Encarte”, due gemelli si scambiano ruolo; l’uno – più forte – sostituisce l’altro nel letto (è impotente) e in ufficio (è un mediocre); l’altro dà manforte tra banca e latrocini, sino al drammatico epilogo (protagonisti: le mogli) che non svelo. Lascio soltanto la (neutra) clausola a spiegare certe dinamiche delle riflessioni sull’identità:“Nessuna di voi due è chi è. Ovvero (che torna al medesimo) tutti noi, col rimanente dell’umanità passata, presente e futura, siamo la stessa persona”.
Ancora protagonista la moglie in “Perbellione” (riflessione folle e amara sull’incapacità di domare le proprie compagne; nemmeno la violenza sembra bastare, come avviene con negri e cani, dice il narratore) e in “Uxoricidio”, dove le pesanti critiche (la moglie viene equiparata a una governante) alla compagna cardiopatica l’accompagnano alla morte; dopo quella morte, il narratore non sa più che fare.
A chiudere la serie in bellezza, “Pellegrinaggio” – il narratore va da una vecchia amante, pretende un cunnilingus, ritrova l’amore perduto e la pace dei sensi; mentre ne “Il crittogramma” un giovane aristocratico va da un vecchio professore, esperto di crittogrammi, per decifrare una scritta che nasconderebbe un tesoro; la sua curiosità deriva dal desiderio di avere dell’oro per sedurre una donna sposata e ritrosa a concedersi. La morale è trista.
L’ultimo racconto – un regolamento di conti con un critico responsabile d’aver scritto che un autore che pubblicava con Vallecchi adottava parole inesistenti – risulta onestamente poco interessante ad un lettore diverso da un biografo di Landolfi.
Libello di narrativa misogina e sicuramente minore, nel contesto della produzione landolfiana, “Le labrene” non conquisterà l’immortalità né vincerà il tempo; il miglior Landolfi è decisamente altrove, perduto tra i venti e i trent’anni prima di tutto questo. Consigliato a chi va in cerca della decadenza d’un artista dalla passata, grande ispirazione; o a chi vuole investigare come – nell’opera d’un autore – si possa passare dal voyeurismo al disprezzo dell’oggetto del desiderio. La donna amata.
LE LABRENE
Gio, 05/04/2007 - 19:36 — franchi
Tra il terzo e ultimo diario di Landolfi, “Des mois”, e questa raccolta di racconti passano sette anni; periodo segnato dalla pubblicazione di versi (segnalo, a beneficio dei pochi appassionati landolfiani, “Viola di morte” del 1972) racconti per bambini, filastrocche, raccolte di articoli già apparsi sul Corriere della Sera, l’ottimo volume di recensioni “Gogol a Roma”, un Faust per il teatro (a proposito del quale non ho trovato traccia – episodica – diversa dal nome).
Ecco quindi questa raccolta di sette racconti: prima grande novità rispetto alle precedenti antologie è il ruolo da protagonista – meglio sarebbe dire: antagonista – d’una figura letteraria (e non solo) che dovremmo semplicemente chiamare “moglie”. Seconda innovazione, la prepotente (e probabilmente funzionale, in chiave biografica) apparizione della (letteraria) categoria del “doppio”. Il fantastico – meglio: la trasfigurazione fantastica della propria biografia o di determinati eventi o sentimenti – via via tende a sfumare e a dissolversi. Rivelando, probabilmente, che la prima fonte d’ispirazione di Landolfi era la satira. D’ogni cosa, eccetto che di se stesso, a ben guardare. È comprensibile, naturalmente.
Allora – già che ci siamo – è bene ammonire chi intende accostarsi alle opere dello scrittore di Pico Farnese da neofita o giù di lì, magari per sentito dire, o forse per suggestioni meravigliose o fama d’atipicità e di ottocentismo: tornate indietro e guardate con interesse ai primi diciott’anni di produzione, diciamo dal 1937 alla metà degli anni Cinquanta, per innamorarvi di quella scrittura e di quelle narrazioni che meritano si versino fiumi d’(accademico) inchiostro per diverse generazioni.
In questo caso, onestamente, c’è da salutare positivamente la fluidità della narrazione, la densità e la ricercatezza del lessico – a proposito, non manca almeno un (apparente?) neologismo: la forma verbale “amonesta”, che non ho altrove riscontrato – e la capacità di catturare il lettore. Le trame sono deboli, fiacche e poco suggestive, con l’eccezione di quella del racconto eponimo.
A partire dalla geco-fobia dell’artista – le “labrene” sono proprio i gechi – si va imbastendo un grottesco scenario di morte presunta dopo un fortuito contatto diretto con una di queste creaturine; il narratore non respira più e viene giudicato morto. Ascolta, creduto da tutti ormai defunto, il cugino che cerca – e quasi vi riesce – di sedurre la moglie; viene addirittura quasi sepolto, svicolando con un grido che interrompe la cerimonia e impedisce la tumulazione. E subito dopo è indagine sull’ossessione del tradimento, sino all’epilogo in cui l’ossessione per i gechi si sintetizza: la labrena (o la moglie?) lo fissa con uno sguardo in cui si sintetizza “tutto il male, tutto il dolore del mondo”.
Curioso come l’autore abbia parlato, già nelle prime battute, di “repulsione”, “nausea” e “disgusto” per questi invasori delle abitazioni; naturalmente l’ossessione derivava da una mania materna. La descrizione della creatura è, al solito, puntigliosa e ampiamente letteraria (p. 9): “Sorta di coccodrillo in miniatura che frequenta e percorre serpeggiando le vecchie muraglie, penetrando al caso fin nelle stanze d’abitazione, ove, come dappertutto, guata e sorprende insetti vari e segnatamente farfalle” – al termine della descrizione, viene da recriminare pensando al talento sprecato, tutto qui, per parlare di così poco; nemmeno il simbolismo che ho cercato di tradurvi è sufficiente per una lettura diversa da quella biografica/psicanalitica.
Curioso che finalmente – dopo tanti libri – si parli di penetrazione. Finalmente un personaggio di Landolfi penetra! Ma attenzione: “ho penetrato i tuoi disegni, la parte da te avuta nel mio orribile male, le tue attuali intenzioni, i tuoi colpevoli sentimenti per un altro uomo, insomma tutto” – e certo. Tutto. Sia chiaro che s’allude alla paranoia che sia stata la moglie a insinuare le labrene in camera. Questo l’orribile disegno penetrato. Il “doppio”, in questo caso, è il passaggio da “vivo” a “morto” (in vita).
In “Encarte”, due gemelli si scambiano ruolo; l’uno – più forte – sostituisce l’altro nel letto (è impotente) e in ufficio (è un mediocre); l’altro dà manforte tra banca e latrocini, sino al drammatico epilogo (protagonisti: le mogli) che non svelo. Lascio soltanto la (neutra) clausola a spiegare certe dinamiche delle riflessioni sull’identità:“Nessuna di voi due è chi è. Ovvero (che torna al medesimo) tutti noi, col rimanente dell’umanità passata, presente e futura, siamo la stessa persona”.
Ancora protagonista la moglie in “Perbellione” (riflessione folle e amara sull’incapacità di domare le proprie compagne; nemmeno la violenza sembra bastare, come avviene con negri e cani, dice il narratore) e in “Uxoricidio”, dove le pesanti critiche (la moglie viene equiparata a una governante) alla compagna cardiopatica l’accompagnano alla morte; dopo quella morte, il narratore non sa più che fare.
A chiudere la serie in bellezza, “Pellegrinaggio” – il narratore va da una vecchia amante, pretende un cunnilingus, ritrova l’amore perduto e la pace dei sensi; mentre ne “Il crittogramma” un giovane aristocratico va da un vecchio professore, esperto di crittogrammi, per decifrare una scritta che nasconderebbe un tesoro; la sua curiosità deriva dal desiderio di avere dell’oro per sedurre una donna sposata e ritrosa a concedersi. La morale è trista.
L’ultimo racconto – un regolamento di conti con un critico responsabile d’aver scritto che un autore che pubblicava con Vallecchi adottava parole inesistenti – risulta onestamente poco interessante ad un lettore diverso da un biografo di Landolfi.
Libello di narrativa misogina e sicuramente minore, nel contesto della produzione landolfiana, “Le labrene” non conquisterà l’immortalità né vincerà il tempo; il miglior Landolfi è decisamente altrove, perduto tra i venti e i trent’anni prima di tutto questo. Consigliato a chi va in cerca della decadenza d’un artista dalla passata, grande ispirazione; o a chi vuole investigare come – nell’opera d’un autore – si possa passare dal voyeurismo al disprezzo dell’oggetto del desiderio. La donna amata.
LE LABRENE
Incipit: “Lambrene: così talvolta le chiamo perché così le chiamava un mio compagno d’infanzia venezolano. Si tratta in sostanza d’un comune geco, e precisamente di quello denominato (salvo errore) dagli zoologi platidattilo muraiolo: sorta di coccodrillo in miniatura che frequenta e percorre serpeggiando le vecchie muraglie, penetrando al caso fin nelle stanze d’abitazione, ove, come dappertutto, guata e sorprende insetti vari e segnatamente farfalle”.
Ennesima raccolta di racconti di uno dei più geniali narratori italiani del secolo passato. I temi dei racconti sono: un uomo sconvolto dalla fobia per le labrene; due gemelli, uno che ha successo nella vita grazie al carattere deciso e sicuro mentre per l’altro vale il contrario; un insolito “mediatore” coniugale; un uxoricida che racconta del proprio delitto; un anziano che si imbatte in un incontro con una vecchia fiamma; un misterioso crittogramma che un vecchio risolutore tenta di decifrarlo; mentre nell’ultimo “raccontino”, autobiografico, l’autore si prende beffe di qualche critico che sbagliò la critica ad un suo scritto.
Alcune di queste situazioni sono inquietanti, basti prendere da esempio quella del racconto che apre e dà il titolo alla raccolta che si può serenamente etichettare con l’appellativo di kafkiano. Come spesso capita negli scritti di Landolfi troviamo il grottesco tendente, a volte, all’assurdo ma non fine a se stesso. Comunque in queste buone pagine non mancano di certo ironia e sarcasmo. Nonostante la scarsa durata narrativa i racconti risultano sempre avvincenti, altra caratteristica che fa di un autore un buon narratore. Divertente e sagace lettura che, anche se non rappresenta il punto più alto della narrativa landolfiana, risulta più che apprezzabile e meritoria di attenzione.
Ennesima raccolta di racconti di uno dei più geniali narratori italiani del secolo passato. I temi dei racconti sono: un uomo sconvolto dalla fobia per le labrene; due gemelli, uno che ha successo nella vita grazie al carattere deciso e sicuro mentre per l’altro vale il contrario; un insolito “mediatore” coniugale; un uxoricida che racconta del proprio delitto; un anziano che si imbatte in un incontro con una vecchia fiamma; un misterioso crittogramma che un vecchio risolutore tenta di decifrarlo; mentre nell’ultimo “raccontino”, autobiografico, l’autore si prende beffe di qualche critico che sbagliò la critica ad un suo scritto.
Alcune di queste situazioni sono inquietanti, basti prendere da esempio quella del racconto che apre e dà il titolo alla raccolta che si può serenamente etichettare con l’appellativo di kafkiano. Come spesso capita negli scritti di Landolfi troviamo il grottesco tendente, a volte, all’assurdo ma non fine a se stesso. Comunque in queste buone pagine non mancano di certo ironia e sarcasmo. Nonostante la scarsa durata narrativa i racconti risultano sempre avvincenti, altra caratteristica che fa di un autore un buon narratore. Divertente e sagace lettura che, anche se non rappresenta il punto più alto della narrativa landolfiana, risulta più che apprezzabile e meritoria di attenzione.
VIOLA DI MORTE
Tommaso Landolfi Viola di morte «Biblioteca Adelphi» pp. 317, € 22,00
In libreria dal 18 maggio 2011
Viola di morte
La prosa di Landolfi, tra le più musicali della letteratura italiana, lascia intravedere in filigrana un’ambizione poetica dirompente ma al tempo stesso messa a tacere, forse per l’oscuro timore - evocato in un racconto del 1937, «Night must fall» - che a lasciarsi andare «ne sarebbe venuto fuori qualcosa di troppo bello … e allora tutto sarebbe finito e riprecipitato in una voragine senza fondo». Ancorché non esercitata, tuttavia, quella «divina facoltà» non poteva che riaffiorare: non a caso, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, mentre si accentua il suo sdegnoso isolamento, Landolfi abbandona ogni progetto di romanzo per dedicarsi a una scrittura diaristica, e dunque innocente, che prepara il ritorno alla poesia. «Non trovo conforto / Se non nelle distorte / Battute / D’una musica perduta. / La prosa m’opprime: / Non la parola che dirime, / Mi giova, / Ma l’avventurosa prova / Del verso gettato al vento» leggiamo in Viola di morte, diario in versi apparso nel 1972, dove Landolfi ci mostra quel volto che sempre aveva velato «in modo quasi ossessivo, come se fosse dominato da un puro istinto di sopravvivenza che lo costringa a ripetere continuamente il suo nome» (Citati). Ed è il volto sublimemente lunare e tenebroso, talora deformato dal rancore, di chi, murato in «queste aride sedi / Di terrore e d’angoscia», non conosce che la «Soverchiante fatica / Della vita vissuta», il dileguarsi dell’amore e il dilagare della morte - castigo terribile di un Dio livido e iniquo. Ma il sogno che «il nulla avvolga nelle sue pieghe dissimulate, fruscianti e trionfali ogni cosa e ogni persona» cela il bruciante desiderio di cogliere «tutto ciò che sta “più in là”, e di cui non vedremo mai traccia», e persino rabbie e furie non sono che «sempre rinnovate dichiarazioni d’amore all’infinito» - talché, e sono ancora parole di Citati, il senso ultimo di Viola di morte è quello di «un’attesa senza nome, di una nostalgia continuamente delusa, di una speranza che osa appena intravedere un vago fantasma lungo i nuvolosi e fuggevoli confini del cielo». Collisione, quella tra un mondo atrocemente rimpianto e la sua perentoria negazione - e dunque tra canto e istanza ragionante -, che trova in questi versi una mirabile espressione:
Credevo allora d’essere in esilio
E che un prossimo giorno
Avrei potuto far ritorno
Al mio reame sconfinato, e tutto
Che qui m’era rapito
O rimaneva inascoltato -
Soavità, bellezza,
Amore, gioia, tenerezza,
Gloria, potenza - mi sarebbe reso.
Oggi ben so che questo,
Questo e non altro è il sordo regno mio
In libreria dal 18 maggio 2011
Viola di morte
La prosa di Landolfi, tra le più musicali della letteratura italiana, lascia intravedere in filigrana un’ambizione poetica dirompente ma al tempo stesso messa a tacere, forse per l’oscuro timore - evocato in un racconto del 1937, «Night must fall» - che a lasciarsi andare «ne sarebbe venuto fuori qualcosa di troppo bello … e allora tutto sarebbe finito e riprecipitato in una voragine senza fondo». Ancorché non esercitata, tuttavia, quella «divina facoltà» non poteva che riaffiorare: non a caso, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, mentre si accentua il suo sdegnoso isolamento, Landolfi abbandona ogni progetto di romanzo per dedicarsi a una scrittura diaristica, e dunque innocente, che prepara il ritorno alla poesia. «Non trovo conforto / Se non nelle distorte / Battute / D’una musica perduta. / La prosa m’opprime: / Non la parola che dirime, / Mi giova, / Ma l’avventurosa prova / Del verso gettato al vento» leggiamo in Viola di morte, diario in versi apparso nel 1972, dove Landolfi ci mostra quel volto che sempre aveva velato «in modo quasi ossessivo, come se fosse dominato da un puro istinto di sopravvivenza che lo costringa a ripetere continuamente il suo nome» (Citati). Ed è il volto sublimemente lunare e tenebroso, talora deformato dal rancore, di chi, murato in «queste aride sedi / Di terrore e d’angoscia», non conosce che la «Soverchiante fatica / Della vita vissuta», il dileguarsi dell’amore e il dilagare della morte - castigo terribile di un Dio livido e iniquo. Ma il sogno che «il nulla avvolga nelle sue pieghe dissimulate, fruscianti e trionfali ogni cosa e ogni persona» cela il bruciante desiderio di cogliere «tutto ciò che sta “più in là”, e di cui non vedremo mai traccia», e persino rabbie e furie non sono che «sempre rinnovate dichiarazioni d’amore all’infinito» - talché, e sono ancora parole di Citati, il senso ultimo di Viola di morte è quello di «un’attesa senza nome, di una nostalgia continuamente delusa, di una speranza che osa appena intravedere un vago fantasma lungo i nuvolosi e fuggevoli confini del cielo». Collisione, quella tra un mondo atrocemente rimpianto e la sua perentoria negazione - e dunque tra canto e istanza ragionante -, che trova in questi versi una mirabile espressione:
Credevo allora d’essere in esilio
E che un prossimo giorno
Avrei potuto far ritorno
Al mio reame sconfinato, e tutto
Che qui m’era rapito
O rimaneva inascoltato -
Soavità, bellezza,
Amore, gioia, tenerezza,
Gloria, potenza - mi sarebbe reso.
Oggi ben so che questo,
Questo e non altro è il sordo regno mio
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LA SINDROME DELL'ORCO
Fatta eccezione per la bibliografia redatta con scrupolo filologico e filiale dalla primogenita Idolina e acclusa al secondo volume delle Opere edito da Rizzoli, i testi licenziati da Tommaso Landolfi esplicitamente “per bambini” (così il sottotitolo alla prima edizione del Principe infelice) soffrono citazioni lacunose nei repertori, ormai numerosi, elaborati dalla critica in margine agli studi monografici sull’autore. La favola menzionata, ad esempio, compare spesso postdatata al 1954, forse per un fenomeno di attrazione operato dal secondo esperimento del genere (La raganella d'oro), stampato in quello stesso anno. É quanto accade, per esempio, nel saggio di Giancarlo Pandini edito per “Il Castoro” nel novembre 1975, ovvero nell’Enigma Landolfi di Giovanna Ghetti Abruzzi del 1979; sorte peggiore quella riservatagli nel volumetto Del Noce 1983 che li tace affatto tra le “opere principali” (spiace riferire la curatela di Carlo Bo, già dedicatario de LA BIERE DU PECHEUR)(1). Esiste almeno un’altra prova incontrovertibilmente ‘giovanile’ di mano landolfiana: la breve collana di filastrocche confluita in un volume che raccoglie versi per bambini di vari autori, pubblicato a cura di Giovanni Arpino per “I Gemelli” di Rizzoli nel 1968; certo, l'attribuzione ad autori vari non ha giovato alla paternità del libro, ma è pur vero che, fino alla comparsa dei due tomi della citata opera omnia, la restituzione di quei testi all'autore risultava malcerta. Un anno prima, infine, sotto il titolo generale di Colloqui, Landolfi affidava alcuni dialoghetti al volume collettivo Sei racconti; la veste editoriale essendo la stessa - la collana per ragazzi “I Gemelli” - e comparendo i dialoghi accanto ai racconti di Buzzati, Arpino e Rodari, un effetto di trascinamento ha qualificato l’esperienza di ‘giovanile’. Circa tale definizione, in contrasto pure con quanto afferma la nota ai testi di Idolina Landolfi (“tre racconti per bambini”), avanzeremo riserve più avanti.
Per la verità, la disattenzione verso lo scrittore di Pico, la sua esigua fortuna critica, hanno riguardato per lungo tempo - specialmente tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta - non solo gli sconfinamenti in territorio giovanile ma l’intera sua produzione. Questo dell’autore misconosciuto è diventato luogo comune della saggistica quando, in tempi più recenti, l’industria culturale ha provveduto alla riapertura del ‘caso Landolfi’ e alla sua riscoperta. Da quel momento anche le favole, i racconti e i versi per bambini hanno attirato l’attenzione degli studiosi, meritandosi giudizi superlativi: “una delle più suggestive fiabe che siano state narrate da uno scrittore italiano del nostro tempo” (2) (Il principe infelice), “un’altra [fiaba] bellissima” (La raganella d’oro), “quel capolavoro che è Il principe infelice”. (3) In generale però, trattandosi di “tipico minore” - come Landolfi diceva di sé (4) - l’autore del Principe infelice si trova a patire una doppia minorità. Se il romanziere della Pietra lunare e del Racconto d'autunno è da ritenersi minore rispetto al gotha della narrativa italiana contemporanea - Pavese, Moravia, Calvino - che sarà di quello stesso alle prese con un pubblico di minori? La questione non è nuova e riguarda lo statuto da attribuire alle sortite sporadiche tentate da un narratore nei territori, contigui ma oltre confine, del teatro, della poesia o della letteratura giovanile.
Landolfi, dopo il primo periodo fiorentino che lo consacrò maestro del racconto fantastico, si dava a sperimentare nuove forme: dal ripiegamento memorialistico dei due diari, Rien va e Des mois, prefigurati nel romanzo anomalo LA BIERE DU PECHEUR, all’anacronistico poema drammatico in endecasillabi sciolti Landolfo VI di Benevento, al radiodramma e allo sceneggiato televisivo, fino allo scioglimento lirico finale (Il tradimento precede di due anni la morte). Oltre a ciò Landolfi è stato slavista d’eccezione, traduttore dal russo, tedesco e francese, nonché critico di vaglia: tanto basta a delineare una figura di poligrafo. In questo panorama, i titoli per bambini sono andati incontro ad un annoso insabbiamento ovvero sono stati letti come di sponda rispetto ai testi più noti. Solo oggi essi ci guardano con l'insistenza di chi esige un’attenzione particolare.
La stesura del Principe infelice, compiuta nel luglio del 1938, “non deve aver preso gran tempo” (5) allo scrittore che - nello stesso periodo attendeva alla composizione di Teatrino e Favola, poi raccolti nel Mar delle blatte. Il manoscritto risulta poco variato, anche se l'edizione a stampa differisce da quello in più di un luogo, verosimilmente corretto a livello di dattiloscritto, oggi introvabile (lo scrittore era noto per fornirlo in copia unica). L’edizioneprinceps è appunto quella del dicembre 1943 per i tipi di Vallecchi, recante sul frontespizio l’indicazione “romanzo per bambini” e illustrato da Sabino Profeti su formato grande; la ristampa del 1954 – “assai meno belle le illustrazioni”(6), non fa testo. (7)
Il carteggio con Enrico Vallecchi - circa duecento lettere, per parte dell’autore, conservate presso l'Archivio Contemporaneo A. Bonsanti - (leggasi: lo spoglio scrupoloso di quelle per mano di Idolina) ci consentono di seguire da vicino le vicende di pubblicazione delle due favole. Ciò che immediatamente colpisce è l’attenzione riservata dall'autore a queste opere, forse maggiore (almeno a giudicare dalla consistenza epistolare) di quella riservata ad altre più note. Fatta la tara all’urgenza economica connessa alla composizione de La raganella d’oro, resta comunque la traccia di una paternità forte su queste opere, oggetto di un notevole investimento emotivo se l'autore vorrà spesso promuoverle presso l'editore con toni, volta a volta, irati, supplichevoli, disperati:
Non vedo né Raganelle né Principi - Son furioso, oltreché colpito al cuore (8).
Non sorprende l'attaccamento dello scrittore a queste operine se si tiene a mente la stima numerica che egli faceva del proprio pubblico (“duegenquaranta lettori”) e, all’opposto, il successo di vendite ottenuto col Principe infelice – “l'unico che ci dette qualche serio guadagno” (9) - presto esaurito. La ristampa verrà a più di un decennio di distanza, dopo aver più di una volta disperato: “Dell’altro, il Principe infelice, infelice davvero, non mi dici nulla ?”(10)
Più recentemente, nel 1985, un paio di iniziative editoriali hanno proposto la favola del ‘43 all’attenzione di un pubblico nuovo, già lanciato verso il boom di un settore in cerca di formule aggiornate a partire proprio dalle esperienze non specialistiche e meno canoniche del passato. Il principe infelice è fatto oggetto, oltre che dell’edizione Giunti - Marzocco, della prefazione di Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo alla raccolta La bottega dello stregone. La favola landolfiana viene scelta in sede critica perché considerata emblematica della funzione svolta nel novecento dagli sconfinamenti di autori ‘colti’ in territorio favolistico (11):
la trama della fiaba di Landolfi […] potrebbe aiutarci a comprendere il significato del racconto fiabesco per uno scrittore come Landolfi e, in generale, per scrittori ‘colti’, che non siano, cioè, specialisti di letteratura infantile e che si siano dedicati perciò alla scrittura di fiabe solo occasionalmente. Il contenuto del Principe infelice, infatti, sembra in qualche modo prefigurare una sorta di teoria della fiaba letteraria: il “bel sogno” destinato a guarire il protagonista dalla sua malinconia può essere assunto a simbolo della fiaba stessa, cui ci si rivolge quando la narrativa ‘colta’ ha esaurito le sue possibilità, è divenuta incapace di arricchire l'esperienza e di liberarla dalla morsa della ripetizione e della depressione(12).
Pur concordando in linea di massima con quanto affermato dai due curatori, impegnati a fornire una chiave di lettura unitaria per l’intera silloge, è facile qui notare come un simile procedimento vada incontro a qualche generalizzazione. Se quanto si dice circa l’utilità degli episodi giovanili in vista di una rivitalizzazione narrativa è condivisibile in molti casi, meno centrata appare l'intuizione proprio nel caso del Principe infelice. È pur vero, infatti, che il ‘43, data di pubblicazione dell’opera, segna il termine di quel primo tempo landolfiano all’insegna di un fantastico ancora incontaminato nonché di una intatta felicità inventivo-narrativa, cui seguirà un riaffacciarsi del realismo e una conseguente crisi narrativa e, tuttavia, occorre retrodatare il Principe infelice a quel “Pico, 28 luglio 1938”, annotato dall’autore compiuta l’opera. Quegli estremi sono proprio tempo e luogo della sua più vera ispirazione. Pico Farnese e il palazzotto avito situano la scrittura landolfiana quasi negandole altra sede(13). Il 1938, poi, è tra le annate migliori di quel quinquennio -1937/42 - durante il quale escono il Dialogo dei massimi sistemi, La pietra lunare, Il Mar delle blatte e La spada, opere che meritano lo statuto - recentemente conferito da Rizzoli - di “classici contemporanei”. Il Principe infelice viene concepito e dato alla luce in quel clima di felicità espressiva, di sorgiva facilità affabulatoria, di visionarietà fantastica che l’autore avrà modo di rimpiangere e mitizzare come personale età dell’oro nella stagione dei versi senili.
O cari mostri della giovinezza
Lunari orrori, ribrezzo
Di solitarie dimore, Palpiti di terrore:
Quanto più vivi e quasi lieti, quasi
Lievito di speranza!
In oggi fin l’angoscia è smorta. (14)
Oh tempi quando almeno la notte era terrore, era voluttuoso fremito d'ignoto! (15)
Nessuna meraviglia, perciò, se ad una lettura critica avvertita l’opera rivela l’impronta del Landolfi più celebrato. La favola si compone di ventiquattro capitoli, corredati di altrettanti titoli, ad isolare gli episodi ed agevolare la fruizione da parte di un pubblico infantile che è ragionevole immaginare intento alle figure e in ascolto di un adulto ‘recitante’, piuttosto che tutto solo alle prese con una prosa, come vedremo, ricca di arcaismi, toscanismi e voci desuete; fondata cioè su quel lessico inusitato che è l’idioletto landolfiano.
In un luogo remoto nello spazio, “molto lontano di qui, verso i confini dell'impero della Luna”, e nel tempo non meno distante e indistinto (un medioevo qualsiasi di principi, castelli e buffoni di corte) viveva un re saggio con il suo unico nato, erede e successore. Un brutto giorno il principe cade in una profonda malinconia - ciò che oggi diremmo depressione - per la quale non si trova rimedio. Gettato il bando (metà del regno attende chi saprà guarirlo), “dai paesi più lontani convennero allora medici e sapienti famosi”, ma invano. Quando tutto sembra perduto, arriva a corte un personaggio misterioso, alto non più di due spanne e barbuto; propone una terapia: “Ciò che occorre al principe è soltanto un bel sogno. Ch’egli lo faccia, e sarà guarito all’istante”. Il difficile ora è mandare il sogno salvifico a visitare la trista notte del nobile giovane; occorre recarsi al Paese dei sogni per perorarne la causa presso l'imperatore. Chi si offre per l'impresa è la giovane Rami dal cuore di cristallo, nipote del Re ardimentosa perché innamorata. Nient’affatto intimorita dal dover valicare le Montagne di Diamante, attraversare la Terra dei Fuochi Folletti, quella degli Orchi, la Brughiera delle Streghe, l’Impero della Luna e da ultimo il Paese degli Animali Parlanti, ella si appresta a partire quando Vanina e Ossala, altre due regali nipoti, più avide ma meno di lei innamorate, si accodano alla spedizione. Dopo aver superato tutte le traversie e già sulla via del ritorno, Rami raggiunge Vanina e Ossala in un luogo convenuto ma quelle - udito l’esito felice della ricerca - le comunicano la ferale e fallace novella della morte dell'amato principe.
Aveva essa appena pronunciata la sua menzogna, che s’udì uno schianto sinistro, come di cristallo frantumato, e Rami cadde esanime ai piedi della grande quercia(16).
Ora tocca al reuccio, ormai orfano e guarito, correre in soccorso all'amata e rinvivirla con un bacio. L’amplesso tuttavia risulta insufficiente a ridestare per intero la sventurata dal letargo, a meno che a quello non si aggiunga - secondo il nuovo parere che al misterioso nanerottolo vale l’altra metà del regno – l’effetto del profumo del Croco di Lotia.
Sarebbe troppo lungo narrare qui quante fatiche dovettero sopportare, e a quali terribili avventure andarono incontro, il Re e i pochi suoi fidi nella ricerca e conquista del Croco di Lotia(17).
Fatto sta che da ultimo i due, ormai nullatenenti, si stabilirono in riva ad un lago e “vissero felici e contenti per lungo volgere di anni, e là se nel frattempo non sono morti, vivono tuttora”. Il personaggio che dà titolo alla favola presenta, dal punto di vista sintomatologico, disturbi (umore nero, astenia, agorafobia) per i quali il lettore di Landolfi ha sviluppato un occhio clinico. Non solo Ottavio di Saint Vincent o Landolfo VI di Benevento, protagonisti delle opere eponime, ma tanti personaggi saturnini, immancabilmente autobiografici, trascorrono dalla malinconia all’accidia, dall’ipocondria all'ignavia. Varrà piuttosto la pena notare che qui, pur comparendo nel titolo, il tipico antieroe landolfiano (sarà lui ad essere soccorso dalla fanciulla e non viceversa) non accede neanche alla nominazione propria. Obnubilato dai fumi di un’atra bile, irresoluto a tutto, il principe pare non meritare distinzione onomastica oltre a quella che gli deriva da un titolo esplicitamente costruito con perizia intertestuale.
Il riferimento è, facilmente, all'opera prima di Oscar Wilde, la raccolta di fiabe del 1888 The Happy Prince and other tales. Landolfi, non nuovo ai rimandi citazionali fino in copertina (a partire dal Dialogo dei massimi sistemi), essendo in lui l’impulso letterario almeno di secondo grado, assicura, a chi ne esamini la scrittura in cerca di simili reperti, un lauto guadagno critico(18). Non a caso, infatti, la fiaba cui il titolo fa eco è opera di uno scrittore cólto, letterario, maggiore, né Landolfi ha voluto guardare, per questo suo esperimento, ai classici della letteratura giovanile dovuti a scrittori esclusivamente dediti all’infanzia. Il riferimento a Wilde, pertanto, suona come legittimazione preventiva per una sortita nel genere della favola; sta a significare che l'adozione di temi e strutture di genere non impedisce il transito della sostanza poetica, al contrario, come vedremo, al rispetto delle convenzioni anche retoriche corrisponde per l'autore un ampio margine di intervento artistico individuale.
Passando al personaggio femminile, Rami, nipote del Re e forse consanguinea del principe - secondo una tradizione endogamica alla quale “l’ultimo forse rappresentante genuino della gloriosa nobiltà meridionale” (19) doveva essere avvezzo - contende la scena al personaggio maschile relegandolo per la gran parte dei capitoli al ruolo di deuteragonista. Le figure femminili nella narrativa landolfiana hanno sempre avuto rilevanza assoluta; dei tanti esempi che si potrebbero addurre si pensi solo alla donna capra Gurù de La pietra lunare, a Le due zittelle oppure a La muta soggetto di un racconto tra i perfetti dello scrittore picano. Il nome di Rami evoca l’oriente e insieme alla particolarità cardiaca ricordata (un cuore di cristallo) contribuisce a renderne misteriosa origine e collocazione. Determinata a salvare l'amato che langue, secondo quanto cantilena ad ogni nuovo incontro, Rami è vittima della sua stessa modestia e ingenuità (si noti che, pur essendo bellissima, pochi a palazzo ne hanno memoria, tanto pare umile) quando Ossala e Vanina tramano la sua eliminazione e ne inducono la morte apparente. Già nel capitolo XI la nobile fanciulla era incorsa nel maleficio dell’immobilità, perciò, si deduce trattarsi di indole facile alla catalessi. L’immobilità nella donna , come per Kafka il mutismo, è attributo della perfezione in Landolfi. Queste figure, spesso ritratte nella fissità(20), conducono immancabilmente ad una traccia mnestica celebre di cui è notizia in Prefigurazioni: Prato(21).
io ero un bambino che a un anno e mezzo avevano portato davanti a sua madre morta, colla vana speranza che i lineamenti di lei gli rimanessero impressi nella memoria; e che aveva detto: lasciamola stare, dorme.
Occorre prendere coraggio e rileggere il letargo di cui al capitolo XXII alla luce di questo riferimento interno, come rigor mortis.
Ora avvenne un giorno, che cavalcando così, solo e senza meta, il re capitasse sul limitare di quella tale foresta, presso quella tale quercia ai cui piedi la giovinetta Rami era caduta esanime tanti mesi prima. Oh, meraviglia ! Le fiere avevano rispettato il suo fragile corpo, ed ella non pareva morta, ma soltanto addormentata placidamente fra l’erba(22).
Nessun altro esempio più di questo può dirci quanto cogente e magmatica possa essere la sostanza poetica sottesa da un autore anche ad opere a destinazione giovanile, qualora lo stesso vi si accosti ‘ispirato’ e scevro da pregiudizi, senza cioè ricorrere preliminarmente ad un'autoriduzione letteraria, frustrante per lettori di qualsiasi età.
Qui sorse a parlare, dal seggio foderato di damasco dove era seduta, una delle nipoti del Re, principessa di sangue reale e fanciulla di straordinaria bellezza […] Quella aveva i capelli castani, con riflessi verdognoli(23)
La descrizione, pur breve e solo accennata, del tipo fisico riporta inesorabilmente Rami all'immagine muliebre ricorrente nella narrativa di Landolfi, con l’effetto, innanzitutto, di proiettare su di lei il potere conturbante e le dinamiche del desiderio connesse. Ecco come viene ritratta la men che adolescente Rosalba nella Morte del Re di Francia:
il ventre ampio e cavo, ombreggiato di bruno e viola con sfumi di biondo verso l’alto, come della vegetazione nascente (24)
La tonalità cromatica tendente al verde, che tornerà in molte altre descrizioni di giovinetta, rimanda al frutto acerbo, in ossequio ai canoni di un lolitismo molto vivo nell’immaginario erotico landolfiano, e da quello alla rimozione della fecondità come attributo femminile, secondo la doppia opzione della verginità e/o sterilità. È il caso di Lucrezia, “la vergine lattante” che compare nell’allucinato Mar delle blatte:
E infine Lucrezia. Giunse sospinta brutalmente da due uomini in tricorno assai muscolosi. Era seminuda, con un seno fuori, dalla cui punta a ogni strattone degli uomini gorgogliava un fiotto di latte (25)
Una stessa invenzione apparenta Rami a Lucrezia, due fanciulle peraltro così distanti. Si tratta di un’immagine il cui potere perturbante nasce dall’accostamento del non umano (un rettile, un aracnide) al simbolo stesso della maternità: il seno.
Dalla cesta si levarono due serpi sonnolenti, strisciarono fuori sul pavimento vicino ai piedi dell’avvocato immobile, girarono lentamente il capo a destra e a sinistra quasi a orientarsi, poi si diressero con sicurezza verso la fanciulla. Ciascuno si impadronì di un capezzolo e rimasero così a succhiare il latte(26)
ella non pareva morta, ma soltanto addormentata placidamente fra l’erba. Dalla punta del cappuccio al seno un industre ragno aveva tessuto la sua tela, che scintillava al sole. (27)
Si noti come, pure nel secondo caso, sebbene attenuato e quasi in litote (“seno”), l'invenzione visiva rimandi al capezzolo in quanto terminazione sensibile, infatti, per quella tela tessuta dalla punta del cappuccio, occorre immaginare all'altro capo un appiglio non meno svettante. Tale audace immagine pare evocare, per tornare a Wilde, il liberty trasgressivo di Aubrey Beardsley e allude ad un livello di lettura ulteriore.
I testi per l'infanzia di Tommaso Landolfi sono costruiti in modo da contenere una sorta di doppio fondo che consente all'adulto di cogliere citazioni, ammiccamenti, disincanti ed ironie precluse al bambino. Eccone una rapida rassegna: “quella fanciulla [Rami] aveva il cuore di vetro, mentre le altre due lo avevano di carne, come la maggior parte della gente”; dove, per l’autore del Dialogo dei massimi sistemi e il suo lettore ideale, l’understatementriguarda la consistenza lapidea di molti miocardi. Ancora; giunta nel Paese dei sogni e sorpresa da quanto vede, Rami domanda: “Anche i cavalli sono sogni?” La risposta che segue non ferisce le orecchie implumi della fanciulla solo perché omnia munda mundi: “anzi i cavalli popolano spesso i sogni degli uomini, e specie delle donne”.
È poi facile immaginare il cinismo landolfiano dietro questo scambio di cortesie tra principe e nanerottolo:
Dirò da ultimo che sono dolente di togliervi l’altra metà del vostro regno (“oh, prego!” fece il re senza pensarci), ma a ciascuno il suo: a me le cure d’un vasto regno, a voi e alla vostra sposa la felicità. (28)
L’ironia su gnomi, orchi e fate tradisce la competenza di genere dello scrittore, fresco di traduzione dalle fiabe dei fratelli Grimm: gli gnomi “escono spesso dai loro covi verso mezzogiorno per aggiustare le loro scarpette (non so perché hanno sempre tante scarpe da aggiustare)”(29); “spesso le fate buone si recavano fra le streghe per riparare al male che queste facevano”(30); gli Orchi “non sono tanto cattivi quanto si dice”(31). Infine, un vero e proprio attestato di riconoscenza alla letteratura per ragazzi nella persona di Jules Verne si avrà con uno scritto critico raccolto nel 1971 in Gogol’ a Roma (sul quale occorrerà tornare). Un paio di velati riferimenti a testi di ben altro peso sono nascosti nel capitolo iniziale. Nel favoloso medioevo di ambientazione, l’eco deformata delle idee espresse nell’ Émile di Jean Jacques Rousseau sfuma in reminiscenze campanelliane:
Il piccino venne fin dalla più tenera età affidato alla cura di un’abile precettore, uomo fra i più sapienti del reame, il quale pose a profitto dell’illustre pupillo non solo tutta la sua sterminata dottrina, ma anche tutte le sue arti e la sua esperienza. Fino all'età di quindici anni circa egli lo intrattenne dei grandi spettacoli della natura, lasciò che i suoi occhi si empissero di sole e le sue orecchie di suoni, che il suo cuore battesse all’unisono col grande cuore delle cose; ma compiuta che ebbe il principe quell’età, chiese ed ottenne dal re di rinchiuderlo in un vasto castello, sontuoso a vero dire, ma dove il ragazzo era tenuto come prigioniero.(32)
Fin qui l’ Émile
Sulle pareti poi di questo castello, in parole in segni in immagini, era iscritto tutto lo scibile umano, le parole dei saggi e quelle di poeti.(33)
In queste righe il ricordo della pedagogia impartita nella Città de Sole:
tiene [il Sapienza] un libro solo, dove stan tutte le scienze, che fa leggere a tutto il popolo ad usanza dei pitagorici. E questo ha fatto pingere in tutte le muraglie, su li rivellini, dentro e di fuori, tutte le scienze […] e li figliuoli, senza fastidio, giocando si trovano saper tutte le scienze istoricamente prima che abbin dieci anni. (34)
Non è poi una caso se, mettendo mano al suo primo libro per ragazzi, Landolfi sceglie di aprire con due riferimenti - nel titolo e nel capitolo primo - che orientano verso una prevalenza del letterario sul didascalico. Infine, quanta amara consapevolezza nel seguente inciso: “la sapienza è, o almeno dovrebbe essere fonte di gioia”, dove il condizionale introduce un pessimismo le cui più lontane tracce condurranno il lettore adulto fino all’Ecclesiaste.
La funzione metaletteraria, sempre attiva in Landolfi, non smette di operare in occasione degli sconfinamenti ‘giovanili’ e, analogamente a quanto accade col lettore adulto, configura un destinatario capace di riconoscere i sedimenti letterari. L’autore del Principe infelice postula un lettore (bambino) modello capace di ravvisare, nel brano seguente, la scena madre della Bella addormentata:
Poi si chinò per deporre il primo e l’ultimo bacio sulla fronte della giovinetta, prima di darle degna sepoltura. Ma sotto le sue labbra gli parve d’un subito sentire ancora un vago calore sulla fredda fronte: “Sarebbe mai possibile? Vive ella ancora? No, certo le mie labbra erano troppo ardenti, e non è che un’illusione!” Egli appoggiò tuttavia l’orecchio sul cuore della giovinetta. Non era un'illusione: un palpito sordo e remoto, quasi venisse dalle profondità della terra su cui il tenero corpo posava, agitava, seppur debolmente, quel cuore: la fanciulla viveva! (35)
La stesura della prima favola landolfiana risente in particolare dell’influenza di Novalis e dei fratelli Grimm. Del primo e della sua metafisica della fiaba Landolfi è debitore per la trovata del sogno risanatore idea romantica quant’altre mai. Del resto, per dirla con Macrì, “la filiazione romantica di Landolfi è certa: meglio postromantica”(36), per la precisione il polo di attrazione è da collocare tra Novalis e Hoffmansthal, dove “la linea postromantica si salda con la simbolista”.(37) Dai fratelli Grimm deriva al Principe infelice un’atmosfera languida, lunare, a tratti mesta che è poi la tonalità dominante del racconto se si eccettuano il primo e l’ultimo capitolo. La traduzione dell’Enrico di Ofterdingen novalisiano e di sette fiabe raccolte dai Grimm (Fiordirovo, I talleri di stelle, Giandiferro, Cappuccetto rosso, La ragazza senza mani, Pidocchietto e Pulcetta, La luna) precedono di qualche mese la pubblicazione del Principe infelice e comunicano a Rami e al suo sposo tutto il languore di un romanticismo estenuato.
Del resto, il valore di un’opera come il Principe infelice non va cercato nei rari e comunque forzosi tentativi moraleggianti; si vedano i seguenti giocati sull’edificante binomio amore / cuore:
basta dire che non possedevano l’amore [Vanina e Ossala] senza di cui non si porta a compimento un’impresa di quel genere(38)
Non dovete però disperarvi, né disperar di ridar un giorno alla vostra sposa il cuore di prima. Con molto amore senza dubbio vi riuscirete: quale incrinatura non si rinsalda e quale cuore non si risana se si è in due?(39)
ma piuttosto nel doppio livello di lettura che l’autore governa con mano sapiente, facendo in modo che la complicità col lettore adulto non danneggi la centralità del destinatario ‘minore’.
Da questo punto di vista, un’analisi del lessico può servire da esemplificazione. Ai regionalismi (costì, leticare) che rimandano al periodo fiorentino nonché ad un gusto cruschevole caratteristico dell’intera produzione, si aggiungono arcaismi (ratta, affigurarla), voci desuete (il come causale, epperò in luogo di perciò, il plurale farmachi) e un lessico settoriale (aristocratico) capace di distinguere le gerarchie della servitù (guatteri, famigli). Un simile impasto linguistico, non solo non impedisce la fruizione infantile, ma giova alla connotazione favolosa del racconto e aggiunge alla suggestione narrativa quella fonetica, derivante dallo scollamento significante - significato, presto ricomposto dall'adulto che gestisce o supporta la lettura. Quanto più ricco, infatti, l’elenco delle gioie di Vanina ad un orecchio per il quale “bùccole” e “perle schiccate” risuonino per la prima volta?
Quelle linguistiche non sono poi le uniche libertà che lo scrittore si prende in occasione del suo esordio di favolatore. Tanto più che il dover corrispondere ad uno schema consolidato di narrazione, lungi dal frustrarne l’autonomia creativa, fornisce allo scrittore un solido impianto sul quale esercitare la propria inventiva letteraria. L’annotazione del 4/4/1959 in Rien va recita:
rifantastico di preziosi amici capaci di fornirmi quel minimo pretesto narrativo, quell’intriguccio intorno al quale dovrei fabbricare la mia perla
questo tipo di fantasia si produce in Landolfi, letteralmente, “per mancanza di favola”(40) sicché è facile intuirne l'agio mentre fabbrica, al riparo del guscio fiabesco, quella perla di ironia e disincanto che è il Principe infelice.
La dinamica libertà-convenzione, che ogni autore cólto conosce misurandosi con i numerevoli actantes o personaggi (siano essi sei o sette) e funzioni (siano esse venti o trentadue, a seconda che si guardi al modello di Greimas o di Propp), può riuscire infatti gradita a chi - come molti dei narratori contemporanei - ricerchi un grado zero dell’invenzione dal quale ripartire.
La favola è piena di leggi, di limiti e di costrizioni e - nella tradizione più pura - non permette tanta libertà; eppure io nella fiaba ho più libertà che nel romanzo
La dichiarazione rilasciata in occasione di un’intervista RAI dell’82 da Moravia, chiarisce i termini letterari della questione. La stessa “libertà negativa” si carica in Landolfi di più profonde motivazioni esistenziali.
La sera che in carcere, levando quasi materialmente le braccia alla due volte inferriata finestra, esclamai: Dio, ti ringrazio per la libertà che m’hai dato, non intendevo affatto quello che si può pensare, ma anzi il contrario. Io non intendevo ringraziare Dio del fatto che, sebbene fosse in ceppi il mio corpo, l’anima si serbasse libera e franca, e che quei ceppi non valessero a mortificare la mia umana dignità, eccetera eccetera. No, io semplicemente lo ringraziavo per ciò che ero in ceppi, per avermi tolto, come sopra, ogni pensiero e ogni possibilità d’azione e decisione, donde una gran calma era sgorgata.(41)
L’ossequio al genere non si esaurisce nell'attribuzione ai personaggi delle funzioni canoniche (vedi il nanerottolo aiutante) né con l'assunzione del lieto fine, in parte mitigato dal landolfiano umor nero, o con la vaga ambientazione medievale, ma si estende alle formule retoriche. Se l’incipit “C’era una volta” è rimandato solo di qualche anno - aprirà infatti la Raganella d'oro - non manca l’explicit “vissero felici e contenti”; è sorprendente che un autore come Landolfi, noto per aver messo in crisi e destrutturato la forma della narrativa tradizionale contaminando racconto e teatro, romanzo e saggio, accetti di buon grado di ricorrere ai più vieti espedienti, ormai fossili della tradizione orale: l’iterazione (“cammina, cammina, cammina”, “ma lontano, lontano, lontanissimo”), il richiamo fàtico al pubblico degli ascoltatori (“Immaginatevi il re e la regina!”), lo stereotipo (“scorse un lumicino”). Tutto ciò lascia credere che l’autore trovi compensazione a tanta supina acquiescenza in un livello meno esplicito del testo, a quel secondo livello che - come detto - permette ai “duegenquaranta” lettori fidati di riconoscerne la voce e di decodificare i messaggi “criptati”. Così lo sberleffo del falso rinvenimento di Rami al bacio del reuccio rimanda alla ‘poetica dell’insufficienza’ spesso dichiarata; così il finale caustico – “là dunque vissero felici e contenti per lungo volgere d’anni, e là, se nel frattempo non sono morti, vivono certo tuttora” - svela l’umor nero dell'autore e riscrive a ritroso l’intera favola, che può sopportare catalessi e risurrezioni ma non il nudo dato della morte naturale.
Per concludere, non si tacerà l’impressione che l’instabile equilibrio tra convenzione e libertà, sapientemente raggiunto e mantenuto fin quasi alla metà del libro, si fa precario col procedere dei capitoli. (42) È come se Landolfi perdesse progressivamente interesse alle regole del gioco, tendenza che si estenderà alla composizione della Raganella d'oro e non gli permetterà di bissare il successo (artistico) della favola d'esordio.
15/5/47
ti spedisco col medesimo corriere il libretto per bambini che non mi par malvagio, a parte il difetto che ti accennai a voce. Volevi circa 30 cartelle: eccone 26 fitte. Il titolo ti verrà trasmesso in seguito (che ne diresti di: La raganella d'oro ? A me sembra un po’ troppo squacquerato). Rammenta bene e avverti che il dattiloscritto è, al solito, in COPIA UNICA. E ora a te: guarda di pubblicare il più presto possibile, al massimo per settembre od ottobre (43).
NOTE
1) “A Carlo Bo restino dunque dedicate queste pagine, nelle quali forse soltanto lui capirà qualcosa. E sarà ventura; poiché tra i non intendenti si vuol porre me stesso”, Tommaso Landolfi, LA BIERE DU PECHEUR, in Opere, vol. I, Milano, Rizzoli, 1991, p.571
2) Enrico Ghidetti, Leonardo Lattarulo, La bottega dello stregone, Roma, Editori Riuniti, 1985, pag. VII
3) Pino Boero, Carmine De Luca, La letteratura per l’infanzia, Bari, Laterza, 1995, pag. VIII
4) Tommaso Landolfi, Rien va, Milano, Rizzoli, 1984, p.163
5) Da: Idolina Landolfi, Nota ai testi, in Tommaso Landolfi, Opere, cit., vol. I. p. 1004
6) Idolina Landolfi, Nota ai testi – Il principe infelice, in Tommaso Landolfi, Opere 1937- 1959, Milano, Rizzoli, 1991,vol. I, pag. 1003
7) “La ristampa del ‘54 non è comunque in alcun modo seguita da Landolfi, che il 6 dicembre, da Pico, si limita ad accusare ricevuta dei volumi. Essa è infatti in sé piuttosto sciatta, con numerosi refusi ed alcuni omissioni di intere frasi. I capoversi sono distribuiti arbitrariamente, col chiaro scopo di aumentare il numero delle pagine; inoltre scompare l’indicazione dei capitoli”. Ibid.
8) Ibid.
9) Dalla lettera di Tommaso Landolfi ad Enrico Vallecchi, datata 3 luglio 1950 pubblicata dalla figlia Idolina nello studio: Tommaso Landolfi e i suoi editori: un caso emblematico, in Fonti e studi di storia dell’editoria, Bologna, Baiesi, 1995, pag.199 Le due favole gli valsero allo scrittore di Pico il Premio Marzotto 1955
10) Landolfi a Vallecchi il 16 ottobre 1953. Idolina Landolfi, Nota ai testi, in Tommaso Landolfi, Opere 1937- 1959, cit. pag. 1003
11) Nell’antologia però compare La raganella d’oro, forse per non replicare la pubblicazione di Giunti.
12) Enrico Ghidetti, Leonardo Lattarulo, Prefazione, in AA.VV. La bottega dello stregone, Roma, Editori Riuniti, 1985, p.VIII
13) “la penna che laggiù [Pico] correva, qui [SANREMO] s’impunta e per avviarla ‘ci vuol la mano di Dio’ ”, Tommaso Landolfi, Rien va, cit., p.117.
14) Tommaso Landolfi, Il Tradimento, Milano, Rizzoli, 1977, p.89
15) Tommaso Landolfi, Rien va, cit., p.164
16) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere1937-1959, cit. pag. 384
17) Ivi, pag. 388
18) “gli interpreti devono lavorare intertestualmente in proprio. Ma questo lavoro è indispensabile, se si vuole finalmente comprendere che, a scrivere le opere di Landolfi […] non era impegnato soltanto Tommasino”, Edoardo Sanguineti, Le rivelazioni di Onisammot Iflodnal, in “Gradiva”, IV (1989), 3
19) Tommaso Landolfi, LA BIERE DU PECHEUR, in Opere, cit., vol. I, p. 667.
20) Ecco come viene immortalata l’adolescente di Settimana di sole: “ Se capita su una soglia, la luce di fuori trapassa la sua vestina leggera e la fa apparire quasi nuda, allungandole smisuratamente le gambe e scavandone l’incavalcatura senza pietà”, in Opere 1937-1959, cit. pag. 89
21) Ivi, pag. 743
22) Ivi, pag. 385
23) Ivi, pag. 363
24) Tommaso Landolfi, La morte del Re di Francia, in Opere 1937-1959,, cit. pag. 23
25) Tommaso Landolfi, Il Mar delle blatte, in Opere, cit., vol. I, pag.207
26) Ivi, pag. 209
27) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere 1937-1959,, cit., vol. I, p.385
28) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere 1937-1959,, cit. pag. 387
29) Ivi, pag. 367
30) Ivi, pag.371
31) Ivi, pag. 372
32) Ivi, pag.359
33) Ibid.
34) Tommaso Campanella, La città del Sole, Milano, Feltrinelli, 1962, pagg. 6-8
35) Ivi, pag. 386
36) Oreste. Macrì, Tommaso Landolfi. Firenze, Le lettere, 1990, pag.121
37) Ibid.
38) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere 1937-1959,, cit. pag.383
39) Ivi, pag.387
40) Ancora in Rien va all’8/6/58: “Ma l’intrigo è sempre stato la mia difficoltà insormontabile, e ho sempre invidiato Gogol’ che (incerto moralmente quanto me) fu soccorso da Puškin, si dice: datemi un intrigo e vi solleverò il mondo, e mi basta una storia qualunque giacché poi non è la storia che conta, benché necessaria”
41) Il riferimento è al mese di detenzione politica alle Murate di Firenze (23 giugno - 26 luglio 1943) Il brano è tratto da LA BIERE DU PECHEUR, cit., p. 638.
42) Si veda il personaggio dell'Imperatore del Paese dei Sogni, nel dettato del quale si affaccia il tipico falsetto landolfiano, ad esempio, nel ricorrente stilema degli eccetera: “Ma ora son tutto a te, e io solo godrò l’onore della tua preziosa compagnia , eccetera eccetera”; oppure: “ma proverò lo stesso ad aiutarti, per i tuoi begli occhi”. D’altra parte, è proprio nell'episodio del Paese dei Sogni che si affaccia il tema del gioco d’azzardo, caro all’autore e per legge proibito ai minori, quando l’Imperatore tenta di organizzare un sogno di vincita: “No, e poi no! Vi dico che così non va bene. Riproviamo. Io dunque, facciamo conto, sono il giocatore che sogna; ora, voi dovete farmi vincere, avete capito, si o no? Avanti, riproviamo”. I capitoli XV - XIX sono interamente all'insegna del Landolfi ‘maggiore’, a partire dal sogno del Principe infelice, giocato su un déreglement cromatico allucinatorio, alla trovata finale del sole caduto e ruzzolato “come una forma di cacio”, che ricorda da vicino la luna catturata nel Racconto del Lupo mannaro. Infine, tra gli esemplari più riusciti dell’imagerielandolfiana occorrerà, d’ora in poi, annoverare la descrizione fisica degli incubi: “Ma senza dubbio le creature più bizzarre di quello strano mondo, buffe e orribili al tempo stesso, erano certi esseri a forma di palloni più o meno afflosciati, che però conservavano vagamente forma umana. Enormi erano questi esseri e grigi, avevano occhi spaventosamente tristi che non si potevano guardare senza terrore e senza lagrime; la loro testa si perdeva fra i tetti delle case, e quasi non toccavano il suolo camminando, anzi sembravano oscillare portati lentamente alla deriva dal vento.”
43) Brano riportato in, Idolina Landolfi, Tommaso Landolfi e i suoi editori: un caso emblematico, in Fonti e studi di storia dell’editoria, Bologna, Baiesi, 1995, pag.192
Fatta eccezione per la bibliografia redatta con scrupolo filologico e filiale dalla primogenita Idolina e acclusa al secondo volume delle Opere edito da Rizzoli, i testi licenziati da Tommaso Landolfi esplicitamente “per bambini” (così il sottotitolo alla prima edizione del Principe infelice) soffrono citazioni lacunose nei repertori, ormai numerosi, elaborati dalla critica in margine agli studi monografici sull’autore. La favola menzionata, ad esempio, compare spesso postdatata al 1954, forse per un fenomeno di attrazione operato dal secondo esperimento del genere (La raganella d'oro), stampato in quello stesso anno. É quanto accade, per esempio, nel saggio di Giancarlo Pandini edito per “Il Castoro” nel novembre 1975, ovvero nell’Enigma Landolfi di Giovanna Ghetti Abruzzi del 1979; sorte peggiore quella riservatagli nel volumetto Del Noce 1983 che li tace affatto tra le “opere principali” (spiace riferire la curatela di Carlo Bo, già dedicatario de LA BIERE DU PECHEUR)(1). Esiste almeno un’altra prova incontrovertibilmente ‘giovanile’ di mano landolfiana: la breve collana di filastrocche confluita in un volume che raccoglie versi per bambini di vari autori, pubblicato a cura di Giovanni Arpino per “I Gemelli” di Rizzoli nel 1968; certo, l'attribuzione ad autori vari non ha giovato alla paternità del libro, ma è pur vero che, fino alla comparsa dei due tomi della citata opera omnia, la restituzione di quei testi all'autore risultava malcerta. Un anno prima, infine, sotto il titolo generale di Colloqui, Landolfi affidava alcuni dialoghetti al volume collettivo Sei racconti; la veste editoriale essendo la stessa - la collana per ragazzi “I Gemelli” - e comparendo i dialoghi accanto ai racconti di Buzzati, Arpino e Rodari, un effetto di trascinamento ha qualificato l’esperienza di ‘giovanile’. Circa tale definizione, in contrasto pure con quanto afferma la nota ai testi di Idolina Landolfi (“tre racconti per bambini”), avanzeremo riserve più avanti.
Per la verità, la disattenzione verso lo scrittore di Pico, la sua esigua fortuna critica, hanno riguardato per lungo tempo - specialmente tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta - non solo gli sconfinamenti in territorio giovanile ma l’intera sua produzione. Questo dell’autore misconosciuto è diventato luogo comune della saggistica quando, in tempi più recenti, l’industria culturale ha provveduto alla riapertura del ‘caso Landolfi’ e alla sua riscoperta. Da quel momento anche le favole, i racconti e i versi per bambini hanno attirato l’attenzione degli studiosi, meritandosi giudizi superlativi: “una delle più suggestive fiabe che siano state narrate da uno scrittore italiano del nostro tempo” (2) (Il principe infelice), “un’altra [fiaba] bellissima” (La raganella d’oro), “quel capolavoro che è Il principe infelice”. (3) In generale però, trattandosi di “tipico minore” - come Landolfi diceva di sé (4) - l’autore del Principe infelice si trova a patire una doppia minorità. Se il romanziere della Pietra lunare e del Racconto d'autunno è da ritenersi minore rispetto al gotha della narrativa italiana contemporanea - Pavese, Moravia, Calvino - che sarà di quello stesso alle prese con un pubblico di minori? La questione non è nuova e riguarda lo statuto da attribuire alle sortite sporadiche tentate da un narratore nei territori, contigui ma oltre confine, del teatro, della poesia o della letteratura giovanile.
Landolfi, dopo il primo periodo fiorentino che lo consacrò maestro del racconto fantastico, si dava a sperimentare nuove forme: dal ripiegamento memorialistico dei due diari, Rien va e Des mois, prefigurati nel romanzo anomalo LA BIERE DU PECHEUR, all’anacronistico poema drammatico in endecasillabi sciolti Landolfo VI di Benevento, al radiodramma e allo sceneggiato televisivo, fino allo scioglimento lirico finale (Il tradimento precede di due anni la morte). Oltre a ciò Landolfi è stato slavista d’eccezione, traduttore dal russo, tedesco e francese, nonché critico di vaglia: tanto basta a delineare una figura di poligrafo. In questo panorama, i titoli per bambini sono andati incontro ad un annoso insabbiamento ovvero sono stati letti come di sponda rispetto ai testi più noti. Solo oggi essi ci guardano con l'insistenza di chi esige un’attenzione particolare.
La stesura del Principe infelice, compiuta nel luglio del 1938, “non deve aver preso gran tempo” (5) allo scrittore che - nello stesso periodo attendeva alla composizione di Teatrino e Favola, poi raccolti nel Mar delle blatte. Il manoscritto risulta poco variato, anche se l'edizione a stampa differisce da quello in più di un luogo, verosimilmente corretto a livello di dattiloscritto, oggi introvabile (lo scrittore era noto per fornirlo in copia unica). L’edizioneprinceps è appunto quella del dicembre 1943 per i tipi di Vallecchi, recante sul frontespizio l’indicazione “romanzo per bambini” e illustrato da Sabino Profeti su formato grande; la ristampa del 1954 – “assai meno belle le illustrazioni”(6), non fa testo. (7)
Il carteggio con Enrico Vallecchi - circa duecento lettere, per parte dell’autore, conservate presso l'Archivio Contemporaneo A. Bonsanti - (leggasi: lo spoglio scrupoloso di quelle per mano di Idolina) ci consentono di seguire da vicino le vicende di pubblicazione delle due favole. Ciò che immediatamente colpisce è l’attenzione riservata dall'autore a queste opere, forse maggiore (almeno a giudicare dalla consistenza epistolare) di quella riservata ad altre più note. Fatta la tara all’urgenza economica connessa alla composizione de La raganella d’oro, resta comunque la traccia di una paternità forte su queste opere, oggetto di un notevole investimento emotivo se l'autore vorrà spesso promuoverle presso l'editore con toni, volta a volta, irati, supplichevoli, disperati:
Non vedo né Raganelle né Principi - Son furioso, oltreché colpito al cuore (8).
Non sorprende l'attaccamento dello scrittore a queste operine se si tiene a mente la stima numerica che egli faceva del proprio pubblico (“duegenquaranta lettori”) e, all’opposto, il successo di vendite ottenuto col Principe infelice – “l'unico che ci dette qualche serio guadagno” (9) - presto esaurito. La ristampa verrà a più di un decennio di distanza, dopo aver più di una volta disperato: “Dell’altro, il Principe infelice, infelice davvero, non mi dici nulla ?”(10)
Più recentemente, nel 1985, un paio di iniziative editoriali hanno proposto la favola del ‘43 all’attenzione di un pubblico nuovo, già lanciato verso il boom di un settore in cerca di formule aggiornate a partire proprio dalle esperienze non specialistiche e meno canoniche del passato. Il principe infelice è fatto oggetto, oltre che dell’edizione Giunti - Marzocco, della prefazione di Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo alla raccolta La bottega dello stregone. La favola landolfiana viene scelta in sede critica perché considerata emblematica della funzione svolta nel novecento dagli sconfinamenti di autori ‘colti’ in territorio favolistico (11):
la trama della fiaba di Landolfi […] potrebbe aiutarci a comprendere il significato del racconto fiabesco per uno scrittore come Landolfi e, in generale, per scrittori ‘colti’, che non siano, cioè, specialisti di letteratura infantile e che si siano dedicati perciò alla scrittura di fiabe solo occasionalmente. Il contenuto del Principe infelice, infatti, sembra in qualche modo prefigurare una sorta di teoria della fiaba letteraria: il “bel sogno” destinato a guarire il protagonista dalla sua malinconia può essere assunto a simbolo della fiaba stessa, cui ci si rivolge quando la narrativa ‘colta’ ha esaurito le sue possibilità, è divenuta incapace di arricchire l'esperienza e di liberarla dalla morsa della ripetizione e della depressione(12).
Pur concordando in linea di massima con quanto affermato dai due curatori, impegnati a fornire una chiave di lettura unitaria per l’intera silloge, è facile qui notare come un simile procedimento vada incontro a qualche generalizzazione. Se quanto si dice circa l’utilità degli episodi giovanili in vista di una rivitalizzazione narrativa è condivisibile in molti casi, meno centrata appare l'intuizione proprio nel caso del Principe infelice. È pur vero, infatti, che il ‘43, data di pubblicazione dell’opera, segna il termine di quel primo tempo landolfiano all’insegna di un fantastico ancora incontaminato nonché di una intatta felicità inventivo-narrativa, cui seguirà un riaffacciarsi del realismo e una conseguente crisi narrativa e, tuttavia, occorre retrodatare il Principe infelice a quel “Pico, 28 luglio 1938”, annotato dall’autore compiuta l’opera. Quegli estremi sono proprio tempo e luogo della sua più vera ispirazione. Pico Farnese e il palazzotto avito situano la scrittura landolfiana quasi negandole altra sede(13). Il 1938, poi, è tra le annate migliori di quel quinquennio -1937/42 - durante il quale escono il Dialogo dei massimi sistemi, La pietra lunare, Il Mar delle blatte e La spada, opere che meritano lo statuto - recentemente conferito da Rizzoli - di “classici contemporanei”. Il Principe infelice viene concepito e dato alla luce in quel clima di felicità espressiva, di sorgiva facilità affabulatoria, di visionarietà fantastica che l’autore avrà modo di rimpiangere e mitizzare come personale età dell’oro nella stagione dei versi senili.
O cari mostri della giovinezza
Lunari orrori, ribrezzo
Di solitarie dimore, Palpiti di terrore:
Quanto più vivi e quasi lieti, quasi
Lievito di speranza!
In oggi fin l’angoscia è smorta. (14)
Oh tempi quando almeno la notte era terrore, era voluttuoso fremito d'ignoto! (15)
Nessuna meraviglia, perciò, se ad una lettura critica avvertita l’opera rivela l’impronta del Landolfi più celebrato. La favola si compone di ventiquattro capitoli, corredati di altrettanti titoli, ad isolare gli episodi ed agevolare la fruizione da parte di un pubblico infantile che è ragionevole immaginare intento alle figure e in ascolto di un adulto ‘recitante’, piuttosto che tutto solo alle prese con una prosa, come vedremo, ricca di arcaismi, toscanismi e voci desuete; fondata cioè su quel lessico inusitato che è l’idioletto landolfiano.
In un luogo remoto nello spazio, “molto lontano di qui, verso i confini dell'impero della Luna”, e nel tempo non meno distante e indistinto (un medioevo qualsiasi di principi, castelli e buffoni di corte) viveva un re saggio con il suo unico nato, erede e successore. Un brutto giorno il principe cade in una profonda malinconia - ciò che oggi diremmo depressione - per la quale non si trova rimedio. Gettato il bando (metà del regno attende chi saprà guarirlo), “dai paesi più lontani convennero allora medici e sapienti famosi”, ma invano. Quando tutto sembra perduto, arriva a corte un personaggio misterioso, alto non più di due spanne e barbuto; propone una terapia: “Ciò che occorre al principe è soltanto un bel sogno. Ch’egli lo faccia, e sarà guarito all’istante”. Il difficile ora è mandare il sogno salvifico a visitare la trista notte del nobile giovane; occorre recarsi al Paese dei sogni per perorarne la causa presso l'imperatore. Chi si offre per l'impresa è la giovane Rami dal cuore di cristallo, nipote del Re ardimentosa perché innamorata. Nient’affatto intimorita dal dover valicare le Montagne di Diamante, attraversare la Terra dei Fuochi Folletti, quella degli Orchi, la Brughiera delle Streghe, l’Impero della Luna e da ultimo il Paese degli Animali Parlanti, ella si appresta a partire quando Vanina e Ossala, altre due regali nipoti, più avide ma meno di lei innamorate, si accodano alla spedizione. Dopo aver superato tutte le traversie e già sulla via del ritorno, Rami raggiunge Vanina e Ossala in un luogo convenuto ma quelle - udito l’esito felice della ricerca - le comunicano la ferale e fallace novella della morte dell'amato principe.
Aveva essa appena pronunciata la sua menzogna, che s’udì uno schianto sinistro, come di cristallo frantumato, e Rami cadde esanime ai piedi della grande quercia(16).
Ora tocca al reuccio, ormai orfano e guarito, correre in soccorso all'amata e rinvivirla con un bacio. L’amplesso tuttavia risulta insufficiente a ridestare per intero la sventurata dal letargo, a meno che a quello non si aggiunga - secondo il nuovo parere che al misterioso nanerottolo vale l’altra metà del regno – l’effetto del profumo del Croco di Lotia.
Sarebbe troppo lungo narrare qui quante fatiche dovettero sopportare, e a quali terribili avventure andarono incontro, il Re e i pochi suoi fidi nella ricerca e conquista del Croco di Lotia(17).
Fatto sta che da ultimo i due, ormai nullatenenti, si stabilirono in riva ad un lago e “vissero felici e contenti per lungo volgere di anni, e là se nel frattempo non sono morti, vivono tuttora”. Il personaggio che dà titolo alla favola presenta, dal punto di vista sintomatologico, disturbi (umore nero, astenia, agorafobia) per i quali il lettore di Landolfi ha sviluppato un occhio clinico. Non solo Ottavio di Saint Vincent o Landolfo VI di Benevento, protagonisti delle opere eponime, ma tanti personaggi saturnini, immancabilmente autobiografici, trascorrono dalla malinconia all’accidia, dall’ipocondria all'ignavia. Varrà piuttosto la pena notare che qui, pur comparendo nel titolo, il tipico antieroe landolfiano (sarà lui ad essere soccorso dalla fanciulla e non viceversa) non accede neanche alla nominazione propria. Obnubilato dai fumi di un’atra bile, irresoluto a tutto, il principe pare non meritare distinzione onomastica oltre a quella che gli deriva da un titolo esplicitamente costruito con perizia intertestuale.
Il riferimento è, facilmente, all'opera prima di Oscar Wilde, la raccolta di fiabe del 1888 The Happy Prince and other tales. Landolfi, non nuovo ai rimandi citazionali fino in copertina (a partire dal Dialogo dei massimi sistemi), essendo in lui l’impulso letterario almeno di secondo grado, assicura, a chi ne esamini la scrittura in cerca di simili reperti, un lauto guadagno critico(18). Non a caso, infatti, la fiaba cui il titolo fa eco è opera di uno scrittore cólto, letterario, maggiore, né Landolfi ha voluto guardare, per questo suo esperimento, ai classici della letteratura giovanile dovuti a scrittori esclusivamente dediti all’infanzia. Il riferimento a Wilde, pertanto, suona come legittimazione preventiva per una sortita nel genere della favola; sta a significare che l'adozione di temi e strutture di genere non impedisce il transito della sostanza poetica, al contrario, come vedremo, al rispetto delle convenzioni anche retoriche corrisponde per l'autore un ampio margine di intervento artistico individuale.
Passando al personaggio femminile, Rami, nipote del Re e forse consanguinea del principe - secondo una tradizione endogamica alla quale “l’ultimo forse rappresentante genuino della gloriosa nobiltà meridionale” (19) doveva essere avvezzo - contende la scena al personaggio maschile relegandolo per la gran parte dei capitoli al ruolo di deuteragonista. Le figure femminili nella narrativa landolfiana hanno sempre avuto rilevanza assoluta; dei tanti esempi che si potrebbero addurre si pensi solo alla donna capra Gurù de La pietra lunare, a Le due zittelle oppure a La muta soggetto di un racconto tra i perfetti dello scrittore picano. Il nome di Rami evoca l’oriente e insieme alla particolarità cardiaca ricordata (un cuore di cristallo) contribuisce a renderne misteriosa origine e collocazione. Determinata a salvare l'amato che langue, secondo quanto cantilena ad ogni nuovo incontro, Rami è vittima della sua stessa modestia e ingenuità (si noti che, pur essendo bellissima, pochi a palazzo ne hanno memoria, tanto pare umile) quando Ossala e Vanina tramano la sua eliminazione e ne inducono la morte apparente. Già nel capitolo XI la nobile fanciulla era incorsa nel maleficio dell’immobilità, perciò, si deduce trattarsi di indole facile alla catalessi. L’immobilità nella donna , come per Kafka il mutismo, è attributo della perfezione in Landolfi. Queste figure, spesso ritratte nella fissità(20), conducono immancabilmente ad una traccia mnestica celebre di cui è notizia in Prefigurazioni: Prato(21).
io ero un bambino che a un anno e mezzo avevano portato davanti a sua madre morta, colla vana speranza che i lineamenti di lei gli rimanessero impressi nella memoria; e che aveva detto: lasciamola stare, dorme.
Occorre prendere coraggio e rileggere il letargo di cui al capitolo XXII alla luce di questo riferimento interno, come rigor mortis.
Ora avvenne un giorno, che cavalcando così, solo e senza meta, il re capitasse sul limitare di quella tale foresta, presso quella tale quercia ai cui piedi la giovinetta Rami era caduta esanime tanti mesi prima. Oh, meraviglia ! Le fiere avevano rispettato il suo fragile corpo, ed ella non pareva morta, ma soltanto addormentata placidamente fra l’erba(22).
Nessun altro esempio più di questo può dirci quanto cogente e magmatica possa essere la sostanza poetica sottesa da un autore anche ad opere a destinazione giovanile, qualora lo stesso vi si accosti ‘ispirato’ e scevro da pregiudizi, senza cioè ricorrere preliminarmente ad un'autoriduzione letteraria, frustrante per lettori di qualsiasi età.
Qui sorse a parlare, dal seggio foderato di damasco dove era seduta, una delle nipoti del Re, principessa di sangue reale e fanciulla di straordinaria bellezza […] Quella aveva i capelli castani, con riflessi verdognoli(23)
La descrizione, pur breve e solo accennata, del tipo fisico riporta inesorabilmente Rami all'immagine muliebre ricorrente nella narrativa di Landolfi, con l’effetto, innanzitutto, di proiettare su di lei il potere conturbante e le dinamiche del desiderio connesse. Ecco come viene ritratta la men che adolescente Rosalba nella Morte del Re di Francia:
il ventre ampio e cavo, ombreggiato di bruno e viola con sfumi di biondo verso l’alto, come della vegetazione nascente (24)
La tonalità cromatica tendente al verde, che tornerà in molte altre descrizioni di giovinetta, rimanda al frutto acerbo, in ossequio ai canoni di un lolitismo molto vivo nell’immaginario erotico landolfiano, e da quello alla rimozione della fecondità come attributo femminile, secondo la doppia opzione della verginità e/o sterilità. È il caso di Lucrezia, “la vergine lattante” che compare nell’allucinato Mar delle blatte:
E infine Lucrezia. Giunse sospinta brutalmente da due uomini in tricorno assai muscolosi. Era seminuda, con un seno fuori, dalla cui punta a ogni strattone degli uomini gorgogliava un fiotto di latte (25)
Una stessa invenzione apparenta Rami a Lucrezia, due fanciulle peraltro così distanti. Si tratta di un’immagine il cui potere perturbante nasce dall’accostamento del non umano (un rettile, un aracnide) al simbolo stesso della maternità: il seno.
Dalla cesta si levarono due serpi sonnolenti, strisciarono fuori sul pavimento vicino ai piedi dell’avvocato immobile, girarono lentamente il capo a destra e a sinistra quasi a orientarsi, poi si diressero con sicurezza verso la fanciulla. Ciascuno si impadronì di un capezzolo e rimasero così a succhiare il latte(26)
ella non pareva morta, ma soltanto addormentata placidamente fra l’erba. Dalla punta del cappuccio al seno un industre ragno aveva tessuto la sua tela, che scintillava al sole. (27)
Si noti come, pure nel secondo caso, sebbene attenuato e quasi in litote (“seno”), l'invenzione visiva rimandi al capezzolo in quanto terminazione sensibile, infatti, per quella tela tessuta dalla punta del cappuccio, occorre immaginare all'altro capo un appiglio non meno svettante. Tale audace immagine pare evocare, per tornare a Wilde, il liberty trasgressivo di Aubrey Beardsley e allude ad un livello di lettura ulteriore.
I testi per l'infanzia di Tommaso Landolfi sono costruiti in modo da contenere una sorta di doppio fondo che consente all'adulto di cogliere citazioni, ammiccamenti, disincanti ed ironie precluse al bambino. Eccone una rapida rassegna: “quella fanciulla [Rami] aveva il cuore di vetro, mentre le altre due lo avevano di carne, come la maggior parte della gente”; dove, per l’autore del Dialogo dei massimi sistemi e il suo lettore ideale, l’understatementriguarda la consistenza lapidea di molti miocardi. Ancora; giunta nel Paese dei sogni e sorpresa da quanto vede, Rami domanda: “Anche i cavalli sono sogni?” La risposta che segue non ferisce le orecchie implumi della fanciulla solo perché omnia munda mundi: “anzi i cavalli popolano spesso i sogni degli uomini, e specie delle donne”.
È poi facile immaginare il cinismo landolfiano dietro questo scambio di cortesie tra principe e nanerottolo:
Dirò da ultimo che sono dolente di togliervi l’altra metà del vostro regno (“oh, prego!” fece il re senza pensarci), ma a ciascuno il suo: a me le cure d’un vasto regno, a voi e alla vostra sposa la felicità. (28)
L’ironia su gnomi, orchi e fate tradisce la competenza di genere dello scrittore, fresco di traduzione dalle fiabe dei fratelli Grimm: gli gnomi “escono spesso dai loro covi verso mezzogiorno per aggiustare le loro scarpette (non so perché hanno sempre tante scarpe da aggiustare)”(29); “spesso le fate buone si recavano fra le streghe per riparare al male che queste facevano”(30); gli Orchi “non sono tanto cattivi quanto si dice”(31). Infine, un vero e proprio attestato di riconoscenza alla letteratura per ragazzi nella persona di Jules Verne si avrà con uno scritto critico raccolto nel 1971 in Gogol’ a Roma (sul quale occorrerà tornare). Un paio di velati riferimenti a testi di ben altro peso sono nascosti nel capitolo iniziale. Nel favoloso medioevo di ambientazione, l’eco deformata delle idee espresse nell’ Émile di Jean Jacques Rousseau sfuma in reminiscenze campanelliane:
Il piccino venne fin dalla più tenera età affidato alla cura di un’abile precettore, uomo fra i più sapienti del reame, il quale pose a profitto dell’illustre pupillo non solo tutta la sua sterminata dottrina, ma anche tutte le sue arti e la sua esperienza. Fino all'età di quindici anni circa egli lo intrattenne dei grandi spettacoli della natura, lasciò che i suoi occhi si empissero di sole e le sue orecchie di suoni, che il suo cuore battesse all’unisono col grande cuore delle cose; ma compiuta che ebbe il principe quell’età, chiese ed ottenne dal re di rinchiuderlo in un vasto castello, sontuoso a vero dire, ma dove il ragazzo era tenuto come prigioniero.(32)
Fin qui l’ Émile
Sulle pareti poi di questo castello, in parole in segni in immagini, era iscritto tutto lo scibile umano, le parole dei saggi e quelle di poeti.(33)
In queste righe il ricordo della pedagogia impartita nella Città de Sole:
tiene [il Sapienza] un libro solo, dove stan tutte le scienze, che fa leggere a tutto il popolo ad usanza dei pitagorici. E questo ha fatto pingere in tutte le muraglie, su li rivellini, dentro e di fuori, tutte le scienze […] e li figliuoli, senza fastidio, giocando si trovano saper tutte le scienze istoricamente prima che abbin dieci anni. (34)
Non è poi una caso se, mettendo mano al suo primo libro per ragazzi, Landolfi sceglie di aprire con due riferimenti - nel titolo e nel capitolo primo - che orientano verso una prevalenza del letterario sul didascalico. Infine, quanta amara consapevolezza nel seguente inciso: “la sapienza è, o almeno dovrebbe essere fonte di gioia”, dove il condizionale introduce un pessimismo le cui più lontane tracce condurranno il lettore adulto fino all’Ecclesiaste.
La funzione metaletteraria, sempre attiva in Landolfi, non smette di operare in occasione degli sconfinamenti ‘giovanili’ e, analogamente a quanto accade col lettore adulto, configura un destinatario capace di riconoscere i sedimenti letterari. L’autore del Principe infelice postula un lettore (bambino) modello capace di ravvisare, nel brano seguente, la scena madre della Bella addormentata:
Poi si chinò per deporre il primo e l’ultimo bacio sulla fronte della giovinetta, prima di darle degna sepoltura. Ma sotto le sue labbra gli parve d’un subito sentire ancora un vago calore sulla fredda fronte: “Sarebbe mai possibile? Vive ella ancora? No, certo le mie labbra erano troppo ardenti, e non è che un’illusione!” Egli appoggiò tuttavia l’orecchio sul cuore della giovinetta. Non era un'illusione: un palpito sordo e remoto, quasi venisse dalle profondità della terra su cui il tenero corpo posava, agitava, seppur debolmente, quel cuore: la fanciulla viveva! (35)
La stesura della prima favola landolfiana risente in particolare dell’influenza di Novalis e dei fratelli Grimm. Del primo e della sua metafisica della fiaba Landolfi è debitore per la trovata del sogno risanatore idea romantica quant’altre mai. Del resto, per dirla con Macrì, “la filiazione romantica di Landolfi è certa: meglio postromantica”(36), per la precisione il polo di attrazione è da collocare tra Novalis e Hoffmansthal, dove “la linea postromantica si salda con la simbolista”.(37) Dai fratelli Grimm deriva al Principe infelice un’atmosfera languida, lunare, a tratti mesta che è poi la tonalità dominante del racconto se si eccettuano il primo e l’ultimo capitolo. La traduzione dell’Enrico di Ofterdingen novalisiano e di sette fiabe raccolte dai Grimm (Fiordirovo, I talleri di stelle, Giandiferro, Cappuccetto rosso, La ragazza senza mani, Pidocchietto e Pulcetta, La luna) precedono di qualche mese la pubblicazione del Principe infelice e comunicano a Rami e al suo sposo tutto il languore di un romanticismo estenuato.
Del resto, il valore di un’opera come il Principe infelice non va cercato nei rari e comunque forzosi tentativi moraleggianti; si vedano i seguenti giocati sull’edificante binomio amore / cuore:
basta dire che non possedevano l’amore [Vanina e Ossala] senza di cui non si porta a compimento un’impresa di quel genere(38)
Non dovete però disperarvi, né disperar di ridar un giorno alla vostra sposa il cuore di prima. Con molto amore senza dubbio vi riuscirete: quale incrinatura non si rinsalda e quale cuore non si risana se si è in due?(39)
ma piuttosto nel doppio livello di lettura che l’autore governa con mano sapiente, facendo in modo che la complicità col lettore adulto non danneggi la centralità del destinatario ‘minore’.
Da questo punto di vista, un’analisi del lessico può servire da esemplificazione. Ai regionalismi (costì, leticare) che rimandano al periodo fiorentino nonché ad un gusto cruschevole caratteristico dell’intera produzione, si aggiungono arcaismi (ratta, affigurarla), voci desuete (il come causale, epperò in luogo di perciò, il plurale farmachi) e un lessico settoriale (aristocratico) capace di distinguere le gerarchie della servitù (guatteri, famigli). Un simile impasto linguistico, non solo non impedisce la fruizione infantile, ma giova alla connotazione favolosa del racconto e aggiunge alla suggestione narrativa quella fonetica, derivante dallo scollamento significante - significato, presto ricomposto dall'adulto che gestisce o supporta la lettura. Quanto più ricco, infatti, l’elenco delle gioie di Vanina ad un orecchio per il quale “bùccole” e “perle schiccate” risuonino per la prima volta?
Quelle linguistiche non sono poi le uniche libertà che lo scrittore si prende in occasione del suo esordio di favolatore. Tanto più che il dover corrispondere ad uno schema consolidato di narrazione, lungi dal frustrarne l’autonomia creativa, fornisce allo scrittore un solido impianto sul quale esercitare la propria inventiva letteraria. L’annotazione del 4/4/1959 in Rien va recita:
rifantastico di preziosi amici capaci di fornirmi quel minimo pretesto narrativo, quell’intriguccio intorno al quale dovrei fabbricare la mia perla
questo tipo di fantasia si produce in Landolfi, letteralmente, “per mancanza di favola”(40) sicché è facile intuirne l'agio mentre fabbrica, al riparo del guscio fiabesco, quella perla di ironia e disincanto che è il Principe infelice.
La dinamica libertà-convenzione, che ogni autore cólto conosce misurandosi con i numerevoli actantes o personaggi (siano essi sei o sette) e funzioni (siano esse venti o trentadue, a seconda che si guardi al modello di Greimas o di Propp), può riuscire infatti gradita a chi - come molti dei narratori contemporanei - ricerchi un grado zero dell’invenzione dal quale ripartire.
La favola è piena di leggi, di limiti e di costrizioni e - nella tradizione più pura - non permette tanta libertà; eppure io nella fiaba ho più libertà che nel romanzo
La dichiarazione rilasciata in occasione di un’intervista RAI dell’82 da Moravia, chiarisce i termini letterari della questione. La stessa “libertà negativa” si carica in Landolfi di più profonde motivazioni esistenziali.
La sera che in carcere, levando quasi materialmente le braccia alla due volte inferriata finestra, esclamai: Dio, ti ringrazio per la libertà che m’hai dato, non intendevo affatto quello che si può pensare, ma anzi il contrario. Io non intendevo ringraziare Dio del fatto che, sebbene fosse in ceppi il mio corpo, l’anima si serbasse libera e franca, e che quei ceppi non valessero a mortificare la mia umana dignità, eccetera eccetera. No, io semplicemente lo ringraziavo per ciò che ero in ceppi, per avermi tolto, come sopra, ogni pensiero e ogni possibilità d’azione e decisione, donde una gran calma era sgorgata.(41)
L’ossequio al genere non si esaurisce nell'attribuzione ai personaggi delle funzioni canoniche (vedi il nanerottolo aiutante) né con l'assunzione del lieto fine, in parte mitigato dal landolfiano umor nero, o con la vaga ambientazione medievale, ma si estende alle formule retoriche. Se l’incipit “C’era una volta” è rimandato solo di qualche anno - aprirà infatti la Raganella d'oro - non manca l’explicit “vissero felici e contenti”; è sorprendente che un autore come Landolfi, noto per aver messo in crisi e destrutturato la forma della narrativa tradizionale contaminando racconto e teatro, romanzo e saggio, accetti di buon grado di ricorrere ai più vieti espedienti, ormai fossili della tradizione orale: l’iterazione (“cammina, cammina, cammina”, “ma lontano, lontano, lontanissimo”), il richiamo fàtico al pubblico degli ascoltatori (“Immaginatevi il re e la regina!”), lo stereotipo (“scorse un lumicino”). Tutto ciò lascia credere che l’autore trovi compensazione a tanta supina acquiescenza in un livello meno esplicito del testo, a quel secondo livello che - come detto - permette ai “duegenquaranta” lettori fidati di riconoscerne la voce e di decodificare i messaggi “criptati”. Così lo sberleffo del falso rinvenimento di Rami al bacio del reuccio rimanda alla ‘poetica dell’insufficienza’ spesso dichiarata; così il finale caustico – “là dunque vissero felici e contenti per lungo volgere d’anni, e là, se nel frattempo non sono morti, vivono certo tuttora” - svela l’umor nero dell'autore e riscrive a ritroso l’intera favola, che può sopportare catalessi e risurrezioni ma non il nudo dato della morte naturale.
Per concludere, non si tacerà l’impressione che l’instabile equilibrio tra convenzione e libertà, sapientemente raggiunto e mantenuto fin quasi alla metà del libro, si fa precario col procedere dei capitoli. (42) È come se Landolfi perdesse progressivamente interesse alle regole del gioco, tendenza che si estenderà alla composizione della Raganella d'oro e non gli permetterà di bissare il successo (artistico) della favola d'esordio.
15/5/47
ti spedisco col medesimo corriere il libretto per bambini che non mi par malvagio, a parte il difetto che ti accennai a voce. Volevi circa 30 cartelle: eccone 26 fitte. Il titolo ti verrà trasmesso in seguito (che ne diresti di: La raganella d'oro ? A me sembra un po’ troppo squacquerato). Rammenta bene e avverti che il dattiloscritto è, al solito, in COPIA UNICA. E ora a te: guarda di pubblicare il più presto possibile, al massimo per settembre od ottobre (43).
NOTE
1) “A Carlo Bo restino dunque dedicate queste pagine, nelle quali forse soltanto lui capirà qualcosa. E sarà ventura; poiché tra i non intendenti si vuol porre me stesso”, Tommaso Landolfi, LA BIERE DU PECHEUR, in Opere, vol. I, Milano, Rizzoli, 1991, p.571
2) Enrico Ghidetti, Leonardo Lattarulo, La bottega dello stregone, Roma, Editori Riuniti, 1985, pag. VII
3) Pino Boero, Carmine De Luca, La letteratura per l’infanzia, Bari, Laterza, 1995, pag. VIII
4) Tommaso Landolfi, Rien va, Milano, Rizzoli, 1984, p.163
5) Da: Idolina Landolfi, Nota ai testi, in Tommaso Landolfi, Opere, cit., vol. I. p. 1004
6) Idolina Landolfi, Nota ai testi – Il principe infelice, in Tommaso Landolfi, Opere 1937- 1959, Milano, Rizzoli, 1991,vol. I, pag. 1003
7) “La ristampa del ‘54 non è comunque in alcun modo seguita da Landolfi, che il 6 dicembre, da Pico, si limita ad accusare ricevuta dei volumi. Essa è infatti in sé piuttosto sciatta, con numerosi refusi ed alcuni omissioni di intere frasi. I capoversi sono distribuiti arbitrariamente, col chiaro scopo di aumentare il numero delle pagine; inoltre scompare l’indicazione dei capitoli”. Ibid.
8) Ibid.
9) Dalla lettera di Tommaso Landolfi ad Enrico Vallecchi, datata 3 luglio 1950 pubblicata dalla figlia Idolina nello studio: Tommaso Landolfi e i suoi editori: un caso emblematico, in Fonti e studi di storia dell’editoria, Bologna, Baiesi, 1995, pag.199 Le due favole gli valsero allo scrittore di Pico il Premio Marzotto 1955
10) Landolfi a Vallecchi il 16 ottobre 1953. Idolina Landolfi, Nota ai testi, in Tommaso Landolfi, Opere 1937- 1959, cit. pag. 1003
11) Nell’antologia però compare La raganella d’oro, forse per non replicare la pubblicazione di Giunti.
12) Enrico Ghidetti, Leonardo Lattarulo, Prefazione, in AA.VV. La bottega dello stregone, Roma, Editori Riuniti, 1985, p.VIII
13) “la penna che laggiù [Pico] correva, qui [SANREMO] s’impunta e per avviarla ‘ci vuol la mano di Dio’ ”, Tommaso Landolfi, Rien va, cit., p.117.
14) Tommaso Landolfi, Il Tradimento, Milano, Rizzoli, 1977, p.89
15) Tommaso Landolfi, Rien va, cit., p.164
16) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere1937-1959, cit. pag. 384
17) Ivi, pag. 388
18) “gli interpreti devono lavorare intertestualmente in proprio. Ma questo lavoro è indispensabile, se si vuole finalmente comprendere che, a scrivere le opere di Landolfi […] non era impegnato soltanto Tommasino”, Edoardo Sanguineti, Le rivelazioni di Onisammot Iflodnal, in “Gradiva”, IV (1989), 3
19) Tommaso Landolfi, LA BIERE DU PECHEUR, in Opere, cit., vol. I, p. 667.
20) Ecco come viene immortalata l’adolescente di Settimana di sole: “ Se capita su una soglia, la luce di fuori trapassa la sua vestina leggera e la fa apparire quasi nuda, allungandole smisuratamente le gambe e scavandone l’incavalcatura senza pietà”, in Opere 1937-1959, cit. pag. 89
21) Ivi, pag. 743
22) Ivi, pag. 385
23) Ivi, pag. 363
24) Tommaso Landolfi, La morte del Re di Francia, in Opere 1937-1959,, cit. pag. 23
25) Tommaso Landolfi, Il Mar delle blatte, in Opere, cit., vol. I, pag.207
26) Ivi, pag. 209
27) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere 1937-1959,, cit., vol. I, p.385
28) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere 1937-1959,, cit. pag. 387
29) Ivi, pag. 367
30) Ivi, pag.371
31) Ivi, pag. 372
32) Ivi, pag.359
33) Ibid.
34) Tommaso Campanella, La città del Sole, Milano, Feltrinelli, 1962, pagg. 6-8
35) Ivi, pag. 386
36) Oreste. Macrì, Tommaso Landolfi. Firenze, Le lettere, 1990, pag.121
37) Ibid.
38) Tommaso Landolfi, Il principe infelice, in Opere 1937-1959,, cit. pag.383
39) Ivi, pag.387
40) Ancora in Rien va all’8/6/58: “Ma l’intrigo è sempre stato la mia difficoltà insormontabile, e ho sempre invidiato Gogol’ che (incerto moralmente quanto me) fu soccorso da Puškin, si dice: datemi un intrigo e vi solleverò il mondo, e mi basta una storia qualunque giacché poi non è la storia che conta, benché necessaria”
41) Il riferimento è al mese di detenzione politica alle Murate di Firenze (23 giugno - 26 luglio 1943) Il brano è tratto da LA BIERE DU PECHEUR, cit., p. 638.
42) Si veda il personaggio dell'Imperatore del Paese dei Sogni, nel dettato del quale si affaccia il tipico falsetto landolfiano, ad esempio, nel ricorrente stilema degli eccetera: “Ma ora son tutto a te, e io solo godrò l’onore della tua preziosa compagnia , eccetera eccetera”; oppure: “ma proverò lo stesso ad aiutarti, per i tuoi begli occhi”. D’altra parte, è proprio nell'episodio del Paese dei Sogni che si affaccia il tema del gioco d’azzardo, caro all’autore e per legge proibito ai minori, quando l’Imperatore tenta di organizzare un sogno di vincita: “No, e poi no! Vi dico che così non va bene. Riproviamo. Io dunque, facciamo conto, sono il giocatore che sogna; ora, voi dovete farmi vincere, avete capito, si o no? Avanti, riproviamo”. I capitoli XV - XIX sono interamente all'insegna del Landolfi ‘maggiore’, a partire dal sogno del Principe infelice, giocato su un déreglement cromatico allucinatorio, alla trovata finale del sole caduto e ruzzolato “come una forma di cacio”, che ricorda da vicino la luna catturata nel Racconto del Lupo mannaro. Infine, tra gli esemplari più riusciti dell’imagerielandolfiana occorrerà, d’ora in poi, annoverare la descrizione fisica degli incubi: “Ma senza dubbio le creature più bizzarre di quello strano mondo, buffe e orribili al tempo stesso, erano certi esseri a forma di palloni più o meno afflosciati, che però conservavano vagamente forma umana. Enormi erano questi esseri e grigi, avevano occhi spaventosamente tristi che non si potevano guardare senza terrore e senza lagrime; la loro testa si perdeva fra i tetti delle case, e quasi non toccavano il suolo camminando, anzi sembravano oscillare portati lentamente alla deriva dal vento.”
43) Brano riportato in, Idolina Landolfi, Tommaso Landolfi e i suoi editori: un caso emblematico, in Fonti e studi di storia dell’editoria, Bologna, Baiesi, 1995, pag.192
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IL BABBO DI KAFKA
di Tommaso Landolfi
Arrendendomi alle insistenze di molti amici, racconterò brevemente l'episodio che tanta influenza doveva avere sulla vita del Maestro (ed anche sulla mia).
« E se ora fra i battenti di quella porta (che era appena accostata) s'insinuassero due, anzi alcune, zampe, lunghissime sottili e pelose; e, la porta stessa cedendo alla pressione ed aprendosi pian piano, comparisse un enorme ragno, grosso quanto un cesto da bucato?... »
« Ebbene? ».
« Aspetta, non t'ho detto tutto. Se questo ragno avesse al posto del corpo una testa d'uomo che ti guardasse fissamente da terra? Tu che faresti? T'ammazzeresti, no?».
« Io? Io non ci penserei neppure. Perché diamine dovrei ammazzarmi! Piuttosto ammazzerei lui».
« Io sì, io m'ammazzerei. Perbacco, vivere in un mondo dove sono possibili cose di questo genere! ».
« E io ti so dire che tutto farei, tranne che ammazzarmi; neanche per sogno».
Non aveva finito Kafka di pronunciare queste parole e guardava ancora in aria di sfida la porta accostata, quando il battente girò lentamente sui cardini e si produsse punto per punto la scena da me immaginata. Nella sala remota dove stavamo cenando, balzammo in piedi esterrefatti. Il ragno, o la testa d'uomo, molleggiando sulle sue lunghe zampe, avanzava verso la tavola e ci guardava con una certa espressione cattiva.
« Ebbene» gridavo io, lo confesso, quasi piangendo « ebbene, perché ora non l'ammazzi?».
Ma Kafka guardava l'animale, o uomo, cogli occhi sbarrati e non muoveva un dito; se non che andava arretrando insensibilmente verso un angolo della stanza. Gli è chè quella testa (come seppi poi) era appunto la testa di suo padre, morto tanto tempo prima. Questi, guardando Kafka, aveva la sua espressione peggiore, gli occhi iniettati di sangue e quasi torti, il labbro superiore marcato da una parte in segno di rabbia; come quando faceva le sue tediose scenate, di cui ora Kafka si ricordava benissimo, alzando la voce nella maniera più sgradevole. Ora non parlava, perché forse non poteva, ma quasi scoppiava, era evidente, dalla voglia di gridare. La testa, colla faccia rivolta all'insù, stava un poco inclinata, nella posizione d'un rospo.
« Che diamine ho fatto ancora?» si chiedeva Kafka ripreso dall'angoscioso senso di quando, bambino, era fatto segno a quelle scenate senza saperne esattamente il perché. «Papà... » mormorò.
Io, lo confesso, mi posi a battere le palme e a urlare scompostamente: via, via bestiaccia! senza però avere altro coraggio che questo. Allora il padre di Kafka, che tuttora avanzava circospetto verso di noi, parve ripensarci e far forza a se stesso (dominarsi davanti agli «estranei» era sempre stato il suo vanto, se nonché tutti indovinavano i suoi sentimenti solo a guardarlo in viso, se anche non avesse mormorato fra sé, in casi simili, «corno, corno!»); rimandando la scenata, o l'aggressione, si volse e barcollando e arrancando se ne usci in silenzio donde era venuto. Io, lo confesso, fuggii strappandomi i capelli e singhiozzando da qualche parte; Kafka dopo un istante si precipitò dietro a suo padre nel grande salone buio.
Inutile dire che né quella notte né i giorni seguenti gli riuscì di ritrovarlo, sebbene lo cercasse per tutte le stanze a tutte le ore. « Ma guarda,» si diceva « c'era a casa mia un simile animale e chi l'aveva mai visto! Chissà poi quanti altri ce ne sono dello stesso genere. Se non lo acchiappo non potrò più vivere qui». Sulle prime pensava di chiuderlo in una gabbia o nella camera che era stata la sua. Infine lo vide un giorno, al crepuscolo, che attraversava velocemente uno sgombero pieno d'oggetti polverosi, e comprese anche che passava con facilità attraverso le porte chiuse e forse attraverso i muri. Da allora si disse che l'avrebbe ammazzato senza pietà, non c'era altro da fare; s'intende che anche in tale occasione gli sfuggì.
Un giorno, quando disperava ormai di ritrovarlo e già si proponeva d'andarsene e abbandonargli tutto il vecchio maniero a discrezione, esso gli venne innanzi all'improvviso e in piena luce. Il futuro grande scrittore era nella sua camera da letto, per la cui finestra il sole le penetrava largamente. Al sole parve più bigio e polveroso; il volto cinereo guardava stavolta al figliuolo con un'espressione stanca e quasi implorante e con grande affetto, colle lacrime agli occhi (come quando, prima, si sentiva male). Ciò malgrado Kafka, dato di piglio a una seggiola, lo stordì sul momento ben bene; poi corse in cantina a prendere un maglio da botte e con quello lo schiacciò del tutto. Dalla testa frantumata sgorgò, come di ragione, una specie di midollo più o meno liquido.
Con ciò Kafka credeva d'essersene liberato per sempre, anche se a duro prezzo. Ma quanti ragni, grossi o piccini, non alberga un vecchio maniero!
di Tommaso Landolfi
Arrendendomi alle insistenze di molti amici, racconterò brevemente l'episodio che tanta influenza doveva avere sulla vita del Maestro (ed anche sulla mia).
« E se ora fra i battenti di quella porta (che era appena accostata) s'insinuassero due, anzi alcune, zampe, lunghissime sottili e pelose; e, la porta stessa cedendo alla pressione ed aprendosi pian piano, comparisse un enorme ragno, grosso quanto un cesto da bucato?... »
« Ebbene? ».
« Aspetta, non t'ho detto tutto. Se questo ragno avesse al posto del corpo una testa d'uomo che ti guardasse fissamente da terra? Tu che faresti? T'ammazzeresti, no?».
« Io? Io non ci penserei neppure. Perché diamine dovrei ammazzarmi! Piuttosto ammazzerei lui».
« Io sì, io m'ammazzerei. Perbacco, vivere in un mondo dove sono possibili cose di questo genere! ».
« E io ti so dire che tutto farei, tranne che ammazzarmi; neanche per sogno».
Non aveva finito Kafka di pronunciare queste parole e guardava ancora in aria di sfida la porta accostata, quando il battente girò lentamente sui cardini e si produsse punto per punto la scena da me immaginata. Nella sala remota dove stavamo cenando, balzammo in piedi esterrefatti. Il ragno, o la testa d'uomo, molleggiando sulle sue lunghe zampe, avanzava verso la tavola e ci guardava con una certa espressione cattiva.
« Ebbene» gridavo io, lo confesso, quasi piangendo « ebbene, perché ora non l'ammazzi?».
Ma Kafka guardava l'animale, o uomo, cogli occhi sbarrati e non muoveva un dito; se non che andava arretrando insensibilmente verso un angolo della stanza. Gli è chè quella testa (come seppi poi) era appunto la testa di suo padre, morto tanto tempo prima. Questi, guardando Kafka, aveva la sua espressione peggiore, gli occhi iniettati di sangue e quasi torti, il labbro superiore marcato da una parte in segno di rabbia; come quando faceva le sue tediose scenate, di cui ora Kafka si ricordava benissimo, alzando la voce nella maniera più sgradevole. Ora non parlava, perché forse non poteva, ma quasi scoppiava, era evidente, dalla voglia di gridare. La testa, colla faccia rivolta all'insù, stava un poco inclinata, nella posizione d'un rospo.
« Che diamine ho fatto ancora?» si chiedeva Kafka ripreso dall'angoscioso senso di quando, bambino, era fatto segno a quelle scenate senza saperne esattamente il perché. «Papà... » mormorò.
Io, lo confesso, mi posi a battere le palme e a urlare scompostamente: via, via bestiaccia! senza però avere altro coraggio che questo. Allora il padre di Kafka, che tuttora avanzava circospetto verso di noi, parve ripensarci e far forza a se stesso (dominarsi davanti agli «estranei» era sempre stato il suo vanto, se nonché tutti indovinavano i suoi sentimenti solo a guardarlo in viso, se anche non avesse mormorato fra sé, in casi simili, «corno, corno!»); rimandando la scenata, o l'aggressione, si volse e barcollando e arrancando se ne usci in silenzio donde era venuto. Io, lo confesso, fuggii strappandomi i capelli e singhiozzando da qualche parte; Kafka dopo un istante si precipitò dietro a suo padre nel grande salone buio.
Inutile dire che né quella notte né i giorni seguenti gli riuscì di ritrovarlo, sebbene lo cercasse per tutte le stanze a tutte le ore. « Ma guarda,» si diceva « c'era a casa mia un simile animale e chi l'aveva mai visto! Chissà poi quanti altri ce ne sono dello stesso genere. Se non lo acchiappo non potrò più vivere qui». Sulle prime pensava di chiuderlo in una gabbia o nella camera che era stata la sua. Infine lo vide un giorno, al crepuscolo, che attraversava velocemente uno sgombero pieno d'oggetti polverosi, e comprese anche che passava con facilità attraverso le porte chiuse e forse attraverso i muri. Da allora si disse che l'avrebbe ammazzato senza pietà, non c'era altro da fare; s'intende che anche in tale occasione gli sfuggì.
Un giorno, quando disperava ormai di ritrovarlo e già si proponeva d'andarsene e abbandonargli tutto il vecchio maniero a discrezione, esso gli venne innanzi all'improvviso e in piena luce. Il futuro grande scrittore era nella sua camera da letto, per la cui finestra il sole le penetrava largamente. Al sole parve più bigio e polveroso; il volto cinereo guardava stavolta al figliuolo con un'espressione stanca e quasi implorante e con grande affetto, colle lacrime agli occhi (come quando, prima, si sentiva male). Ciò malgrado Kafka, dato di piglio a una seggiola, lo stordì sul momento ben bene; poi corse in cantina a prendere un maglio da botte e con quello lo schiacciò del tutto. Dalla testa frantumata sgorgò, come di ragione, una specie di midollo più o meno liquido.
Con ciò Kafka credeva d'essersene liberato per sempre, anche se a duro prezzo. Ma quanti ragni, grossi o piccini, non alberga un vecchio maniero!
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Chroniques italiennes n. 81-82 (2-3/2008)
L’ARME INFECONDA
a Tommaso Ottonieri
Una notte Renato di Pescogianturco-Longino, rovistando tra il
retaggio degli avi… Occorre però dire brevemente in che consistesse
questo retaggio.
Così inizia il racconto LA SPADA, che dà il titolo al libro omonimo
pubblicato da Tommaso Landolfi nel 1942. A far problema, si capisce, è
proprio detto retaggio. Che consiste ormai più, data la catastrofica gestione
del « padre di Renato, buon’anima » – « fantastico capriccioso
estremamente sensibile, e soprattutto pigro oltremisura : un malinconico
scialacquatore » – nel « vario e preclaro ciarpame sparso per le soffitte del
maniero, all’infuori del maniero stesso. Dove, per tagliar corto ai preamboli,
ormai s’era ridotto a vivere in penuria di mezzi ». Di questo retaggio l’erede
sente di essere in procinto d’impossessarsi : « un bizzarro eccitamento lo
pervadeva spesso, paragonabile a quello del cercatore di tesori quando si
sente, per virtù divinatoria, prossimo a scoprirne uno. ».
Secondo termine-chiave, il maniero. Sigla metaforica questa, e anzi
allegorica senz’altro, d’una mitobiografia – quella del personaggio Landolfi,
ombroso aristocratico prigioniero di se stesso – che a pochissimi anni
dall’esordio editoriale1 s’è imposta agli happy few per tempo affrettatisi a
1 I racconti di Dialogo dei massimi sistemi, opera d’esordio, erano usciti presso Parenti nel
marzo del ’37 ; il racconto La spada esce in rivista – sull’elegante « Prospettive » diretta da
Curzio Malaparte – nel marzo del ’40, prima di dare il titolo al quarto libro di Landolfi, La
spada appunto, secondo uscito da Vallecchi – nel marzo del ’42 – dopo il racconto lungo
2
incoronare il poco più che trentenne scrittore. Sin dalla prima “presa di
voce”, il perfetto Maria Giuseppa pubblicato a vent’anni, la voce narrante si
presenta, infatti, da se stessa reclusa in una « grande casa ormai senza
abitatori2 » nella quale è facile riconoscere la casa avita di Pico Farnese :
dove davvero Landolfi, com’è noto, continuerà a ritirarsi dal commercio
umano, soprattutto per scrivere, sino ai primi anni Settanta. Ancora nel
Dialogo dei massimi sistemi i protagonisti della Morte del re di Francia e di
Mani, l’aracnòfobo Tale e lo sterminatore di topi Federico, ci vengono
mostrati rispettivamente il primo mentre « perlustra la sua grande casa di
notte », in particolare dalle parti del solaio3, il secondo « completamente
solo nella sua grande casa abbandonata4 ». Sempre nella raccolta d’esordio,
poi, nello splendido Settimana di sole non solo l’io narrante ci si presenta
« in una vecchia casa di trentaquattro stanze, con cortile e giardino », ma si
dice convinto che in quella casa, da qualche parte, sia « nascosto un
tesoro » : il quale consisterebbe precisamente in un residuo di retaggio
famigliare salvato dal progenitore che, « a differenza degli altri antenati,
tutte persone intente a dar lustro e prosperità alla casata », si guadagnò
l’appellativo di « Dissipatore » : avendo « dato fondo a una gran parte delle
sue sostanze e lasciati i figli in condizioni difficili5 ».
Il motivo (o, diciamo senz’altro con Ernst Bernhard, il
« mitologema6 ») della solitudine sprezzantemente inflitta all’immeritevole
prossimo, e quello della decadenza famigliare rivendicata con fierezza da
chi fa vanto sia dell’aristocratico lignaggio che della sua snobistica
noncuranza, si saldano – nella maschera che Landolfi s’è disegnata sul volto
La pietra lunare del ’39. La raccolta che prende il titolo dal nostro racconto è preceduta da
una ristampa della seconda e assai esile silloge, Il Mar delle Blatte e altre storie, la cui
princeps era uscita presso le romane Edizioni della Cometa, dirette da Libero de Libero,
nell’estate del ’39 (accompagnata da un disegno di Giorgio de Chirico). In questo binomio i
racconti di Landolfi vengono riediti anche nel ’44 prima di confluire nel ’61 nella silloge
riassuntiva, sempre vallecchiana, sulla quale si fonda l’edizione dalla quale cito : quella a
cura di Idolina Landolfi alle pp. 283-8 di Tommaso Landolfi, Opere I. 1937-1959,
prefazione di Carlo Bo, Milano, Rizzoli, 1991. Le citazioni dal racconto La spada, data
l’esigua sua estensione, saranno date direttamente a testo senza ulteriori rimandi puntuali.
2 Tommaso Landolfi, Maria Giuseppa [1929], in Id., Dialogo dei massimi sistemi, cit. ; ora
in Id., Opere I, cit., p. 5.
3 Id., La morte del re di Francia [1935], ivi, p. 20.
4 Id., Mani, ivi, p. 56.
5 Id., Settimana di sole [1937], ivi, p. 88.
6 Cfr. Ernst Bernhard, Tentativo di una mitobiografia [12 agosto 1963], in Id.,
Mitobiografia, a cura di Hélène Erba-Tissot, Milano, Adelphi, 1969, p. 189.
3
sin dal suo esordio letterario – proprio col ricorso al set, all’ambientazione
ossessiva del luogo isolato, della grande casa in rovina (la cui
interpretazione definitiva e “canonica”, diciamo, sarà data nel ’47 con
Racconto d’autunno) le cui penombre ospitano presenze minacciose o,
comunque, “rimosse”; e, in quanto tali, almeno ambivalenti. Senza voler,
infatti, seguire troppo da vicino, e troppo alla lettera, l’« albero semantico »
nel quale Francesco Orlando ha suddiviso in dodici categorie contrassegnate
da ancipiti etichette (dal monitorio-solenne al pretenzioso-fittizio) il proprio
celebre e discusso repertorio degli Oggetti desueti nelle immagini della
letteratura7, non si può negare come proprio questo studio ci mostri da un
lato la pervasiva topicità dell’ambientazione in oggetto (proprio nel
repertorio ottocentesco com’è noto prediletto da Landolfi), dall’altro come
essa veicoli – nei termini freudiani di Orlando, appunto – « un ritorno del
represso antifunzionale » collegato, ma non coincidente, col « represso
immorale » e con quello « irrazionale ». Se lo « spazio immaginario » della
letteratura moderna si presenta gremito da « immagini di corporeità nonfunzionale
» è perché il suo tempo è dominato, sul piano invece
dell’« ordinamento reale », dal « principio di prestazione » in cui la
razionalità occidentale ha finito per specializzare il freudiano « principio di
realtà8 ».
Se di questo teorema è – forse – dato proporre un’applicabilità
generale, esso appare tanto più appropriato a un autore che col principio di
realtà ha sempre avuto rapporti quanto meno dialettici, quale appunto il
nostro. L’attaccamento nevrotico al luogo dell’origine, del quale pure egli
stesso si compiace di raffigurare con insistenza l’inamena condizione
d’abbandono e derelizione, in Landolfi si spiega probabilmente proprio così.
Ambivalente la natura degli oggetti coi quali si rapporta perché ambivalente,
in effetti, il suo sentimento nei loro confronti. Di tale ambivalenza si fa
funzione narrativa la doppia natura degli oggetti : che s’incontrano morti,
spenti, impolverati come da topica appunto ; ma che nello sviluppo della
diegesi hanno la facoltà di scuotersi dal loro torpore, ravvivarsi di nuova
luce, tornare insomma in funzione (persuasivo qui Orlando, che definisce
« primaria la non-funzionalità » cui sono ridotti gli oggetti, e « secondaria
la loro funzionalità di recupero, per quanto possa esser vistosa9 ».
7 Cfr. Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine,
reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993.
8 Ivi, p. 10.
9 Ivi, p. 13.
4
« Desueta » è intanto la cornice del racconto, la sua sede archetipica,
il maniero insomma : come proprio a partire dalla Spada si sigla infatti
lessicalmente, in guisa d’epigrafe diciamo, il cronotopo d’elezione. Proprio
il riferimento al maniero, già nelle prime battute del racconto, provvede a
iscriverlo sotto l’etichetta, piuttosto, dell’apologo. Sotto il lieve velo
d’invenzione, infatti, esibitamente autobiografico : ove si resti avvertiti di
come al solito – in questo “primo” Landolfi, prima della “svolta” diaristica
degli anni Cinquanta – l’autobiografia necessiti proprio di quel velo : sia
consentita, cioè, solo in forma d’allegoria (o, s’è detto, di
« mitobiografia10 »).
Non sfugga, infatti, che nei manoscritti – nella descrizione di Idolina
Landolfi – il racconto porta, accanto al titolo poi definitivo La spada,
l’ipotesi alternativa (o sottotitolo poi cassato) di Allegoria11. Ma cosa
dunque allegorizza, il nostro apologo ? Altrove12 – senza azzardare griglie
troppo stringenti – non mi sono trattenuto dal proporre, per il “primo”
Landolfi, tre forme di metaracconto : che chiamano in causa la scrittura a
diversi livelli o, per così dire, su diverse “scale”. Da quella più specifica e
performativa, che parla direttamente del testo stesso mentre si dipana
(l’esempio analizzato è La piccola Apocalisse, nel Dialogo dei massimi
sistemi), passando per quella che problematizza un’idea di letteratura mentre
la si sta praticando (un esempio può essere Le due zittelle13), sino alla sfera
più vasta e comprensiva, che chiama in causa la letteratura in quanto tale ; o,
per la precisione, il ruolo che essa svolge nell’esistenza di chi scrive. È
appunto il caso della Spada.
Riprendiamo a leggere il racconto, allora. Come i suoi predecessori
del Dialogo dei massimi sistemi il figlio del « malinconico scialacquatore »
ci si presenta mentre, vagando « per le soffitte del maniero », fruga tra « il
vario e preclaro ciarpame » che le abita : oggetti desueti da manuale, come
si vede, se al lignaggio originariamente “alto” (preclaro) associano
10 Rinvio al mio Cætera desiderantur: l’autobiografismo “fluido” dei diari landolfiani, in
Le lunazioni del cuore. Saggi su Tommaso Landolfi, a cura di Idolina Landolfi, Firenze, La
Nuova Italia, 1996, pp. 77-106.
11 Cfr. Idolina Landolfi, Nota ai testi, in Tommaso Landolfi, Opere I, cit., p. 993. Qui anche
l’indicazione della data di stesura : « Pico, 24-25 ottobre 1939 ».
12 Cfr. Andrea Cortellessa, Piccole apocalissi. Metaracconti di Tommaso Landolfi, in « il
verri », LI, 30, gennaio 2006, pp. 53-66 : 60-3.
13 Rinvio stavolta alla mia relazione, Profanazioni : Le due zittelle, in corso di
pubblicazione negli Atti del Convegno Cento anni di Landolfi, Roma, 7-8 maggio 2008.
5
un’attuale condizione degradata (ciarpame) ; ma, come vedremo, uno di essi
conoscerà nuova vita : nella forma della funzionalità secondaria (e
traditrice) descritta da Orlando. Fra questa « roba d’altri tempi », Renato
trova finalmente, infatti, l’oggetto cruciale : sineddoche del retaggio
ereditato nonché nucleo simbolico che al racconto dà il titolo. La spada,
cioè. Inguainata in « nobili tessuti, quali velluti e bissi, tenuti insieme da
costole di pelli preziose e pinte dei più vivi colori » : involucro di prestigio
dal quale Renato a lungo esita a estrarla ; poi, sfoderata l’arma, essa rifulge
« abbagliante », a dispetto della penombra che la avvolge : « la lama sembra
splendere di propria luce » (più avanti le viene conferito l’epiteto di « lama
di sole »). Più che d’oro pare materiata di qualche pietra preziosa, forse
« topazio » o « inusitate pietre d’oriente ». Infatti (come a preannunciarne la
doppia, ancipite natura) la spada non solo splende ma altresì trasmette « una
qualche cupezza, raggiante, per così dire, dall’interno (che non ne ombrava
neppure un poco la splendente trasparenza) ». Proprio la trasparenza, dopo
la luminosità, è un altro suo attributo miracoloso : la spada è talmente sottile
da far tralucere attraverso di sé « le lingue del fuoco nel camino » ; e ciò
malgrado le è stata conferita « rigidezza e flessibilità quanto a ogni altra
lama di buon acciaio ». Renato prende a saggiarla; ma non appena ne
accosta il taglio al polpastrello del pollice si vede tagliar via un lembo di
dito ; altra qualità miracolosa : « parve che la lama fosse passata attraverso
l’unghia e il polpastrello come senza tagliare, certo senza suscitare
dolore » ; basta appoggiarla a un oggetto che essa lo fende senza il minimo
sforzo : « non sembrava conoscere ostacoli e s’apriva la sua via ; essa ogni
cosa trapassava, quasi spettro di lama ».
Prima entusiasta del suo onnipotente strumento, che non si stanca di
provare affettando « le teste dei due busti di pietra fra le tre porte, illustri
antenati » e un po’ tutto quanto capiti a sua portata, dopo qualche giorno
d’incantamento Renato comincia a interrogarsi, in misura via via più
pressante, sul « degno uso per la sua spada portentosa ». Infatti « si sa bene
che più egregia è un’arme, a più grand’uso ha da servire ». Sicché,
« aspettando d’ora in ora la maggiore impresa, e le minori sdegnando, anche
di queste alla fine si perde l’occasione e ci si ritrova da ultimo, sal mi sia,
con un pugno di mosche ». E poi « il non potersene, o sapersene, servire non
gli toglieva già la responsabilità del possederla ; tormentoso sentimento
invero ! ». Tanto che viene il momento in cui Renato si convince che « la
spada era quasi divenuta il suo nemico; e quasi avrebbe preferito non averla
in retaggio ».
6
Davvero spettro di lama, il magico oggetto : in quanto araldico
attributo di avi estinti rinvenuto nella sede, per antonomasia spettrale, della
soffitta del maniero. E che proprio nella spada consista il misterioso
retaggio che Renato da sempre sapeva oscuramente spettargli sta a
dimostrarlo che egli, a un certo punto, crede di leggere sulla sua superficie
« labili parole […], incise o forse contemprate, parole leggere nel cuore
della lama, non si sapeva dove tracciate, come quelle che la polvere del sole
può scrivere su un alito di vento […] : “Io Cavaliere Gastaldo Di
Pescogianturco-Longino Temprai questa spada Più tagliente di quella
d’Orlando Or tu non avrai più nemico”. Parevano versi e i caratteri erano
molto antichi ». Il passaggio in cui l’arma appare contemprata di parole, e
anzi di versi, non fa che confermare quanto era dato ormai sospettare da
tempo : il potere della spada è il potere della parola, il retaggio ereditato
dagli avi più remoti il talento letterario, la sempre più pungente incertezza di
Renato sul suo degno uso quella stessa di Tommaso su cosa fare della
propria portentosa abilità nella scrittura.
Anche l’onomastica contribuisce all’evocazione, puntualmente
siglando entrambi i piani dell’allegoria. Longino è infatti, secondo una ben
attestata tradizione medievale (i cosiddetti Atti di Pilato, accorpati al
vangelo apocrifo di Nicodemo), il nome del soldato romano che trafigge in
punta di lancia il costato di Gesù crocifisso per accertarsi della sua morte.
Secondo la tradizione, il sangue del Cristo, schizzatogli sugli occhi, lo guarì
dal male che lo affliggeva ; convertitosi al cristianesimo, Longino raccolse il
sangue di Gesù e lo portò in Italia, dove venne martirizzato a Mantova (il
suo sepolcro è nella basilica di Sant’Andrea) ; dopo di che, la reliquia della
Sacra Lancia entrò nel tesoro imperiale (ancor oggi è custodita all’Hofburg,
a Vienna). Ma il nome rinvia altresì, ovviamente, al grammatico
neoplatonico Cassio Longino, per secoli supposto autore del trattato
ellenistico Del Sublime (ΠΕΡΙ ΥΨΟΥΣ, primo secolo d.C.) la cui celebre
traduzione, nel 1674 per opera di Boileau, ne fece assoluto testo di
riferimento per l’estetica sette e ottocentesca : secondo Harold Bloom
periodo che « potrebbe a ragione essere definito “l’Età del Sublime14” »
(non a caso Burke e Kant, i maggiori teorici del tempo, com’è noto
tratteranno estesamente proprio questa categoria).
14 Harold Bloom, Postfazione, in Pseudo Longino, Il Sublime, a cura di Giovanni
Lombardo, Palermo, Aesthetica, 1987, pp. 151-9 : 152.
7
Dunque un’arma letteralmente miracolosa; nonché, al contempo, una
reliquia che rinvia alla koinè letteraria di riferimento, per Landolfi. Uno dei
massimi capisaldi teorici del romanticismo, la Difesa della poesia di Shelley
(1821), nell’essere addirittura imbevuta di succhi longiniani presenta la
medesima metafora che ritroveremo usata, a più d’un secolo di distanza, nel
nostro racconto : « la poesia è una spada di folgore, sempre sguainata, che
consuma il fodero che vorrebbe contenerla15 ». Proprio perché è « la luce
della vita16 » (la Difesa torna a più riprese sul campo metaforico della
luminosità, dello scintillio ecc.), proprio perché « è davvero qualcosa di
divino17 » nello « strappare dal mondo il velo della consuetudine, e rivelare
la nuda bellezza addormentata che è lo spirito delle sue forme18 », Shelley
può concludere, memorabilmente, che « i poeti sono i non riconosciuti
legislatori del mondo19 ».
Ed è proprio di questo potere assoluto della parola, è di questo
retaggio che Landolfi ha creduto, almeno per un momento, di poter essere
erede. È quanto narra nell’ultimo racconto del Dialogo dei massimi sistemi,
« Night must fall » : chi dice io si dice perseguitato, di notte, dal verso
insistente dell’assiuolo. Voce assidua, instancabile, assoluta; inconsapevole
e dunque assoluta : nel rinviare spietatamente, per contro, alla finitudine, al
pallore della consapevolezza che indeboliscono, infine, anche la più
cristallina, la più felice delle voci umane : « l’uomo, se ripetesse tante volte
una parola, anche l’uomo più fidente, non saprebbe serbare quel timbro
gioioso e sereno e alla fine la ripeterebbe con tristezza20 ». Ed è proprio
questo confronto a ricordare ogni notte, a chi narra, la precoce, amara
scoperta che ha fatto, della sua esistenza residua, uno svagato sopravvivere:
Da piccino, assai prima di ricevere quelle visite notturne, si davano
spesso tramonti e notti che mi rifiutavo di stare a sentire […] : avevo paura
di me stesso. Avevo paura che a lasciarmi andare, ne sarebbe venuto fuori
qualcosa di troppo bello, di insostenibilmente bello, una poesia, che so, o
15 Percy Bysshe Shelley, Difesa della poesia. Considerazioni suggerite dal saggio intitolato
« Le quattro età della poesia » [1821], in Id., Opere, a cura di Francesco Rognoni, Torino,
Einaudi-Gallimard, 1995, pp. 1014-45 : 1027.
16 Ivi, p. 1029.
17 Ivi, p. 1040.
18 Ivi, p. 1042.
19 Ivi, p. 1045.
20 Tommaso Landolfi, « Night must fall », in Id., Dialogo dei massimi sistemi, cit. ; ora in
Id., Opere I, cit., pp. 102-15 : 104.
8
anche soltanto un’idea che avrebbe spiegato tutto – e allora tutto sarebbe
finito e riprecipitato in una voragine senza fondo. […] « Quello che è
troppo è troppo » forse borbottavo : succhiarsi l’universo come un uovo mi
pareva un’azione da screanzati. E anche suppongo che mi vergognassi,
essendo così piccino, di passare già (come alle brutte alle brutte sarebbe
avvenuto) da grande poeta. Ora il fatto è che quando una volta, per
amor della vertigine, consentii ad abbandonarmi alla processione del
Venerdì Santo (che è una cosa come le notti e i tramonti) ne venne fuori
una brutta poesia, sebbene debitamente scritta in uno stato di quasi totale
incoscienza. Questo fatto però non mi messo affatto in guardia : continuai
ad esimermi dal diventare un grand’uomo. E, in quanto a me, credo tuttora
che oggi potrei esserne uno, sol che non si fosse inaridita, per non averla
esercitata, quella divina facoltà. Perché è proprio così : quando mi stimai
finalmente in età da poter essere grande poeta senza dar nell’occhio, allora
intesi che, sia pure colle debite cautele, avrei dovuto mantenermi in
esercizio e che non c’era ormai più nulla da fare. Ebbene, quello che avrei
dovuto fare il canto dell’assiuolo che lo insegna : continuare a inghiottire le
notti o almeno prendermi l’impegno di parlare per loro21.
La divina facoltà che i poeti, i grand’uomini del tempo di Shelley si
autorizzavano ad esercitare, succhiandosi l’universo come un uovo e
risultandone dunque i non riconosciuti ma perfettamente legittimati
legislatori, l’erede tardivo di quel retaggio sa di non potersela permettere.
Ove pure se ne sospetti in possesso, stante che più egregia è un’arme, a più
grand’uso ha da servire, come abbiamo visto non trova mai l’oggetto ad
essa adeguato ; e a forza di attendere il momento adeguato per finalmente
esercitarla, perde l’occasione e si ritrova da ultimo con un pugno di mosche.
Ma gli ulteriori sviluppi dell’apologo sono ancora più spietati,
incomparabilmente più ultimativi e schiaccianti che nella delicata
Nachtmusik del Dialogo dei massimi sistemi, intarsiata d’echi dal
Nachtingall di Ludwig Hölty (e Franz Schubert). Ecco affacciarsi al
proscenio, infatti, la terza dramatis persona : « E venne, una sera, la
fanciulla bianca ». L’apparizione ci si presenta sovraccarica di emblemi di
incontaminata purezza e “assiuolesca” serenità :
Bionda era, d’inclita bellezza, flessuosa come un giunco e schietta
come un argenteo pioppo. Vestita fino ai piedi di seta bianca e spessa,
un’alta cintura ne stringeva l’esile vita. Guardava timida e dolce.
21 Ivi, pp. 106-7.
9
La fanciulla bianca, senz’altro, si offre a Renato ; e, ancorché
villanamente cacciata, non pensa nemmeno a desistere. Il giovane confuso si
schermisce, letteralmente si ripara dietro la spada (attraverso la quale però
l’immagine della donna traspare, « lievemente appannata e torta, come in
un’acqua appena turbata ») ; dopo di che il racconto, sino a quel momento
lento ed esitante, come nel finale di Maria Giuseppa e di altri testi
landolfiani dal finale traumatico, improvvisamente e immotivatamente
accelera, precipitando d’un sùbito verso la conclusione :
“Ma io non voglio ! non voglio essere amato” riprese Renato
pestando i piedi e roteando la spada. E, in una, pensava : non sarebbe forse
questa la grande impresa ? […] “Bada a te, fanciulla !” gridò Renato e, in
preda a una strana ebbrezza, pensava : questa è la grande impresa.
Infine la catastrofe :
[…] : levando l’arme all’improvviso, Renato appoggiò sulla
fanciulla un gran fendente. La lama attraversò per lungo l’esile corpo senza
incontrare resistenza ; pure la fanciulla non cadde e, immobile,
guardava il suo assassino coi dolci occhi, sorridendo tuttavia a fior di
labbra […] ; né dell’orrenda ferita si scorgeva traccia.
Tutto di nuovo pare immobilizzato, candito in un lampo di magnesio
come nelle scene sovrailluminate e perfettamente irreali della Piccola
Apocalisse. Renato si rende conto di cosa ha fatto solo abbassando gli occhi
sul suo strumento di morte : « la spada che Renato ancora reggeva sembrava
aver abbandonato in quel corpo di giglio ogni fulgore : l’arme egregia s’era
fatta di botto smorta come cenere, cupa come un tizzo spento, una
malinconica e trista arme in verità ». Talché l’incauto suo possessore,
« caduta d’un subito l’ebbrezza, contemplava allibito la fanciulla immobile
e non osava credere a se stesso. Gettando lontano l’arme infeconda, “Dio!”
gridò “che cosa ho fatto”». Alla fanciulla bianca riesce ancora un postremo
sorriso, dopo il quale si attua la catastrofe :
Il suo volto accennò a fendersi e lentamente prese a scomporsi.
Una tenue, dapprima quasi invisibile riga rossa apparve, su dai capelli
d’oro fino al collo, e giù giù per il seno e per la bianca seta; e questa
fenditura ad allargarsi e il sangue a pullularne, gorgogliando appena specie
10
fra i capelli. Il sorriso era ormai un’orribile smorfia, un ghigno
ambiguo e spaventoso ; la crepa del fragile corpo rapidamente s’apriva ; la
fanciulla crollava, partita dall’implacabile spada.
Per atroce ironia, al momento della fine il biancore virgineo della
fanciulla sembra acquisire, per un istante, un di più di diafanità, si fa
trasparente come trasparente era, prima dell’orribile suo uso, l’arma, anzi
l’arme che ha posto fine alla sua esistenza : « Traverso la fessura già
ridevano le lontane stelle della notte ». Poi la fine :
[…] ; in men che non si dica la fragile fanciulla, inusitata vista, si
scommise al suolo sotto gli occhi del suo uccisore. E quelle sparse membra
soltanto il placido sangue riuniva.
Questo disgregarsi dell’immagine femminile au ralenti, ma in fine
velocior, non può non ricordare quello che conclude La piccola Apocalisse,
dopo lo spettacolo di luci e di colori alla quale l’apparizione muliebre s’è
accompagnata :
Non so perché, rimasi qualche tempo in silenzio e senza far nulla,
come se assistessi al compiersi di un rito, guardando la donna che
gradatamente affondava nella pozzanghera come in una sabbia mobile. Per
un attimo vidi biancheggiare, tra l’orlo della calza e una frangia tenue, lo
splendore abbagliante della pelle ; poi la balza della gonna s’imbevve essa
medesima di fanghiglia e si appesantì, stirandosi attorno al corpo e
mortificando l’impeto del seno : ne parve, la donna, abbigliata d’una tunica
sacrificale.22
Non solo ritroviamo nella Spada la medesima attonita passività
dell’uomo di fronte alla fine della donna ; anche a un improvviso luccicar di
stelle al termine del rito sacrificale s’era assistito alla fine della Piccola
Apocalisse : « Alzai gli occhi al cielo. Di tra uno straccio di nebbia riuscii
persino a vedere due o tre stelle. ». E come qui la conclusione consegna
l’uomo a un eclissarsi malinconico :
Ritornai a passo lento in città ; un’alba fangosa mi sorprese infatti
sulla sterminata via che avevamo percorso insieme prima. […] Infine un
22 Id., La piccola Apocalisse, ivi, pp. 63-86 : 84.
11
lento sole parve sorgere al di là della nebbia e il Bene e il Male il Vizio e la
Virtù svanirono come strascichi di fantasmi23.
Così nella Spada i toni dell’explicit s’innalzeranno al tenore di una
vera e propria (tutt’altro che ironica, per una volta) maledizione.
Fu così che l’arme inclita e portentosa, che Renato avrebbe potuto
impugnare in difesa del bene, o almeno per la sua felicità, gli servì invece a
distruggere quello che aveva di più caro sulla terra :
Essa poi, così spenta, e sebbene tagliente come prima, chi più
l’avrebbe voluta ? L’uomo che la raccolse, buttandola nella più profonda
voragine della terra volle salvare il mondo dal suo funesto potere. Ma altri
uomini, o dei, ne la trassero, ad altri senza loro colpa fu data in sorte. E
questi se la trascinarono dietro pel loro cammino terreste come una croce, e
così ancora sarà per la disgrazia di tutti.
Il miglior interprete del nostro racconto, Stefano Guidi, ha
richiamato l’attenzione sul simbolismo antropologico della spada come
attributo, per antonomasia virile, che dalla tentazione femminile separa
l’eroe24 : Renato, infatti, prima che appaia la fanciulla bianca « dormì colla
lama nuda accosto, nell’antico letto a baldacchino ». O meglio tentò di farlo,
turbato dalla presenza radiante della spada al suo fianco :
Con questa spada menerò grandi imprese; quali non so ancora, ma
grandi di certo. E voleva addormentarsi, ma a lungo non poté :
l’angosciava oscuramente la presenza di quella viva spada, che anche al
buio gli splendeva accanto.
Ma lo stesso critico non manca di notare come il medesimo simbolo,
per esempio entro l’enciclopedia cabalistica, rinvii altresì alla « divina
parola a doppio taglio25 ». Ecco il punto : « al di là di una possibile lettura
simbolica del medium di separazione, il racconto della Spada inaugura una
23 Ivi, p. 85.
24 Nei canti dell’Edda, per esempio, « Sigurdh e Brunhilde osservano il loro tirocinium
castitatis dormendo divisi dal medesimo strumento » : Stefano Guidi, Gli infortuni della
retorica, Landolfi e il linguaggio « en abîme », in « Studi novecenteschi », XIV, 33, giugno
1987, pp. 99-126 : 101.
25 Ivi, p. 104.
12
[…] equazione donna / realtà26 » : « una dimensione mitica che si
costituisce in opposizione alla sfera intellettuale in cui generalmente si
muovono invece i personaggi maschili27. »
Questa la catastrofica ambivalenza dell’allegoria di Landolfi: il
potere magico della scrittura promette, a chi lo possiede, l’incantesimo di
penetrare la realtà, di incidere il suo opaco tegumento per denudarne
l’intima e splendente essenza. Come diceva Shelley (con metafora che
anticipa nitidamente, fra l’altro, lo straniamento šklovskiano a sua volta caro
a Landolfi28), essa « strappa dal mondo il velo della consuetudine, e rivela la
nuda bellezza addormentata che è lo spirito delle sue forme29. » La spada
magica, questa sonda acuminatissima della scrittura, pare in grado di
penetrare (come appunto i romantici vollero fare, da Novalis a Senancour)
sotto la superficie della terra, in cerca della « più violenta e abbondevole
vita » che « s’agita nelle sue viscere », come si legge nell’ouverture
lampeggiante del libro del ’42. La scrittura è La tenia mistica (questo il
titolo dell’introibo) che si fa strada scavando nel vivo, nel cuore profondo
della materia : altra metafora dall’inevitabile sottinteso sessuale « nel cui
nome » Landolfi dichiara di voler « dare principio a questa serie di
notazioni30 » (la tenia riporta in scena, fra l’altro, la sfera animale che nel
libro precedente si era resa protagonista di un altro fantasmagorico viaggio
al centro della terra, o del corpo che è lo stesso : il Mar delle Blatte
ovviamente31).
26 Ivi, p. 102.
27 Ivi, p. 103.
28 Rinvio a Beatrice Stasi, Landolfi e i formalisti russi : un’ipotesi di lettura, in
« Intersezioni », XII [1992], 2, pp. 291-310 ; e, per un prosieguo di discussione, al mio
Landolfi 1929-1937. Sistema della parodia e dialettica del luogo comune, in « Moderna »,
VI, 2004, 1 [ma 2006], pp. 41-64.
29 Percy Bysshe Shelley, Difesa della poesia, cit., p. 1042.
30 Tommaso Landolfi, La tenia mistica [1940], in Id., La spada, cit. ; ora in Id., Opere I,
cit., pp. 281-2 : 282.
31 Nel quale, come si ricorderà, l’attempato avvocato Roberto Coracaglina assiste
affascinato al fuoriuscire, da una ferita all’avambraccio procuratosi dal figlio, di una serie
di oggetti incongrui e ripugnanti fra i quali un «vermiciattolo azzurro e diafano». Nella
rutilante fantasmagoria onirica che segue, tramutatosi nella figura eroica dell’Alto Variago
e davanti alla bianca nudità della giovane Lucrezia, Roberto si vede sconfitto in una gara di
seduzione proprio da quel verme, ora senziente e opinante (cfr. Id., Il Mar delle Blatte
[1938], in Id., Il Mar delle Blatte e altre storie, cit.; ora in Id., Opere I, cit., pp. 205-25; la
citazione a p. 205).
13
Ma tali splendide premesse vengono “apocalitticamente” smentite
dal concreto operare, della medesima magia. Non per sua insufficienza ma
al contrario, si potrebbe dire, per eccesso. Tanto è potente, l’arme, che non
la si riesce a impiegare : non ci sono oggetti alla sua altezza. E infatti, una
volta che si tenti per suo tramite la grande impresa, essa viene appunto
mancata per eccesso. La coazione alla “minorità”, ben prima che venga
rimproverata al Landolfi maturo da alcuni dei suoi critici più consentanei,
da Contini a Baldacci, è egli stesso il primo a pronosticarsela. Per questo
l’arme della sua scrittura è infeconda : perché il suo potere, in effetti, non si
applica, non si coniuga ad alcun oggetto reale, continuando a splendere
inutilizzato nella sua fulgida e incorrotta sostanza. Non si dimentichi che
Renato esita a lungo a estrarre la luce magica della spada dalla guaina opaca
che la avvolge. I suoi caratteri di splendente trasparenza e acuminatezza, le
sue doti ineffabili sono esse stesse il retaggio che l’erede presagiva di
godere, non le ipotetiche imprese che esso consentirebbe : per questo la
spada è in verità, allora, allegoria tanto dello strumento col quale strappare
il velo del mondo che di quella stessa nuda bellezza addormentata che si
vorrebbe risvegliare. E, in ultima analisi, allegoria proprio di questo
rapporto coatto all’intransitività, di questo commercio impedito, e dunque
infecondo, tra scrittura e realtà. Come dirà, in sede consuntiva, il Nessuno di
Faust 67 (dove esplicita è ormai l’equazione tra la realtà e il coniugio) :
Io, dicevo, son vissuto finora senza riconoscermi in alcuna realtà,
senza in alcuna o su alcuna mordere o calarmi. Vedevo gli altri ipotizzarne
una purchessia, poi accettarla, infine abbracciarla o addirittura impalmarla,
o forse appropriarsela per davvero ; e mi chiedevo32…
E in fondo alla mitologia faustiana, importantissima per Landolfi che
la rivisita com’è noto nella Pietra lunare, può pure essere ricondotto
quest’apologo sul potere annichilente di una sapienza alienata (il Regista
della tarda riscrittura landolfiana usa proprio questo lessico prosaicamente
aggiornato per interrompere le fantasticherie di Nessuno : « In parole
povere, un perfetto alienato33. »)
32 Id., Faust 67, Firenze, Vallecchi, 1969 ; ora in Id., Opere II. 1960-1971, a cura di Idolina
Landolfi, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 1019-152 : 1038.
33 Ibidem. Proprio l’incipit della tragedia di Goethe (dopo Dedica, Prologo in Teatro e
Prologo in Cielo), fra l’altro, appare adeguato a candidarsi ad archetipo del set d’elezione
di questa coatta drammaturgia landolfiana : è « in una stanza gotica a volta, stretta e alta » –
14
Non diverse le risultanze dell’altra allegoria che, nel volume della
Spada, fa simmetrico riscontro al nostro racconto (in penultima sede, cioè,
seguito dall’esplicitario Racconto della piattola che svolge la medesima
funzione, all’altro capo della silloge, della Tenia mistica : riportandone in
scena, fra l’altro, l’animalità perturbante che di Landolfi è ormai sphraghìs),
Il fuoco. È la notte di Natale; ancora una volta, a confronto, l’io narrante e la
donna candida, innamorata e confidente ; ancora una volta, tra loro, una
fonte luminosa, uno spirito benigno che può rivelarsi, tuttavia, agente di
distruzione e morte. Se la spada di Renato ha su di sé parole incise, stavolta
il fuoco nel camino prende direttamente voce, rivolgendosi alla donna :
Accanto a me non v’è pace, e folle speranza è la tua. Su me grava
un’oscura condanna, e su chi m’avvicini ; funesto è il mio potere.
Compagno degli uomini, loro strumento anche ; ma loro tormento,
infine :
Io storno i loro cuori […] da ogni inclita cura e a oscure imprese li
intendo, storno la loro mente da ogni alto pensiero e a sorde angosce la
piego. E soprattutto io scateno dai loro petti una vana tempesta di parole
[…], con cui essi si tormentano senza tregua, se stessi e l’un l’altro.
È precisamente nelle parole infatti il male, lo spreco infecondo :
Esse battono dentro come sangue guasto, la mente può smarrirsi
nel loro giro infecondo, esse possono dare la disperazione, o un’angoscia
simile alla follia : […]
come recita la didascalia d’esordio – che Faust compiange la propria inutile dottrina ; ed è
qui che prendono connotati famigliari, nella loro sordida desuetudine appunto, gli emblemi
e gli strumenti di un sapere accumulato per generazioni e del quale si riconosce ormai la
vanità : « Come ? Ancora io qui carcerato ? / Tana maledetta tetra / dov’anche la luce cara
del giorno / fila torbida dai vetri di colore ! / Cerchiato da questo cumulo di libri / che ti
rodono i tarli, la polvere copre, / che carte annerite circondano / fino alla vòlta, lassù, / e
tutto fitto di vasi, di teche, / di strumenti accatastati, zeppo / di ammennicoli d’antenati… /
Questo è il tuo mondo ! Questo si dice un mondo ! / E ancora ti chiedi perché l’angoscia /
in petto il cuore ti stringe, / perché un dolore incomprensibile ti reprime ogni moto di vita ?
/ Invece di quella natura vivente / dove Iddio ha disposto gli uomini, / tra fumo e muffa hai
d’intorno soltanto / scheletri di bestie, ossa di morti. / Va’ via ! Su, verso liberi spazi !»
(Johann Wolfgang Goethe, Faust [1808-1832], vv. 398-418, traduzione di Franco Fortini
nell’edizione a sua cura, Milano, Mondadori, 1970, pp. 35-7).
15
Il fuoco, come il lògos di Eraclito, è appunto la parola; ma anziché
liberare gli uomini li rende schiavi, « prigioni di quest’aria ronzante di
parole ». E dunque :
[…] :il tuo amato non sarà mai tuo, come vorresti, giacché egli
m’appartiene. Qui vissero i suoi avi e morirono, qui egli vivrà e morrà ;
com’io sono qui dannato, così egli, fra il turbine delle parole, alle piccole
cure di questa venerabile casa ; né la sua anima potrà mai di qui levarsi a
volo o seguire le orme d’una compiuta bellezza34.
Dopo questo vaticinio atroce – esattamente come la spada, si
ricorderà, s’era fatta di botto smorta come cenere, cupa come un tizzo
spento dopo aver esercitato per un’unica, catastrofica volta il proprio potere
– la fiamma viva tace, s’illanguidisce, declina : « Sempre più si disfaceva e
spegneva il volto dell’immane creatura » ; come il corpo dell’apparizione
fantastica nella Piccola Apocalisse lo vediamo decrescere, assottigliare,
annullarsi : « livida cartapecora, la sua materia era prossima a sciogliersi in
polvere ». Resta solo un deposito di cenere, nel quale un gatto dispettoso
intinge la punta della coda – ennesimo, ormai irridente veicolo della
scrittura – per tracciare sull’alare « un molle rabesco ». Ancora più disperata
l’ultima clausola :
Né io sapevo allora che cosa questa morte del fuoco volesse
figurare. Meglio lo so, ora che il volto della mia compagna è divenuto
anch’esso un labile volto affocato, un riverbero, in quest’incubo sordo che
il fuoco genera. E, secondo la sua profezia, ella è morta, come noi tutti
faremo, senza aver vissuto35.
Con La spada – racconto e raccolta – si spegne insomma il sogno
d’onnipotenza cullato dal Landolfi giovane e nel pieno delle forze. Il fuoco
implacabile della sua scrittura rutilante – si pensi solo a exploits come La
pietra lunare e Il Mar delle Blatte – ha bruciato i repertori della letteratura
più alta, ha percorso in escursioni rapinose l’intero campo d’elezione. Ma
solo per lasciare a cose fatte, al suo malinconico scialacquatore, un
34 Tommaso Landolfi, Il fuoco [1941], in Id., La spada, cit. ; ora in Id., Opere I, cit.,
pp. 352-5 : 353-4.
35 Ivi, p. 355.
16
paesaggio in cenere : quella stessa « impalpabile polverina grigia » che,
proprio all’inizio del racconto successivo (e ormai amaramente, di tale
scacco, consapevole), il pure allegoricamente metalinguistico Le due zittelle,
pareva « su ogni cosa si fosse deposta36. »
Dopo molti anni, a sentenza ormai abbondantemente passata in
giudicato, Landolfi la rivisita a distanza e in forma ironicamente
desublimata (un po’ alla maniera in cui il Montale successivo a Satura fa il
verso al se stesso d’antan ; o come esplicitamente aveva fatto lui stesso, in
Ombre, facendo le mosse di demistificare La vera storia di Maria
Giuseppa37). Il raccontino, raccolto in Un paniere di chiocciole, s’intitola La
penna. Ancora una volta lo strumento della pretesa o sognata magia si
anima (quasi in una rivisitazione del celebre sonetto di Cavalcanti, Noi siàn
le tristi penne isbigotite…), si ribella al suo possessore, lo tiene in scacco.
Come in tanti altri episodi metalinguistici del Landolfi che ha doppiato il
capo del diario – da La mattinata dello scrittore a La dea cieca o veggente,
nel volume del ’62 In società; da Rotta e disfacimento dell’esercito in
Racconti impossibili del ’66 sino a Parole in agitazione nello stesso Paniere
di chiocciole – il protagonista, un poeta, ci viene presentato alle prese con
una scrittura che, nonché magica e titanica sfida ai Superni, è ormai sempre
più accidioso e fastidito ufficio quotidiano. Debitamente s’esercita sulla
composizione di un sonetto, il nostro poeta, ma dopo poche parole la penna,
proprio come la spada e il fuoco di un tempo, « a un certo punto
s’illanguidiva, lasciando sul foglio una traccia sempre più pallida, fino a
divenir muta, o cieca38. »
Dopo vani tentativi di averla vinta con nuovi strumenti di scrittura, il
poeta si convince che la penna in persona giudichi i suoi incerti effati; si
chiede se oggetto di censura sia « il suo stile troppo pomposo o al contrario
troppo dimesso », oppure la « sincerità dei suoi sentimenti » ; conclude
infine, come ormai è lecito attendersi, che il problema consista nella « scelta
medesima dei suoi soggetti ». Per superare la resistenza dello strumento,
dunque, si orienta su un soggetto che ha motivo di ritenere inattaccabile :
« È o non è l’amore il sentimento più nobile e universale ? ». Sul suo amore,
36 Id., Le due zittelle, Milano, Bompiani, 1946 ; ora in Id., Opere I, cit., pp. 389-433 : 392.
Il testo era compiuto nel 1943 (cfr. Idolina Landolfi, Nota ai testi, ivi, p. 1007).
37 Cfr. Id., La vera storia di Maria Giuseppa, in Id., Ombre, Firenze, Vallecchi, 1954 ; ora
in Id., Opere I, cit., pp. 750-4.
38 Id., La penna [1964], in Id., Un paniere di chiocciole, Firenze, Vallecchi, 1968 ; ora in
Id., Opere II, cit., pp. 922-5 : 922.
17
opina il poeta, « questa ciammengola della mia penna non troverà nulla da
eccepire ». Così comincia intitolando la nuova composizione, senz’altro, Il
mio amore : ed ecco che la penna, stavolta, « segue docilmente il moto della
sua mano, soccorrendolo con una perfetta erogazione d’inchiostro (come la
chiamano) ». Scrive e scrive, senza fatica e senza inceppi, « risoffrendo e
insieme esultando » come nei suoi momenti migliori, il nostro poeta ; impila
sul foglio una « bruna, ordinata falange di righi » e conclude, alato : «Non
d’altri ormai che di me vorrai tu essere suddita e regina ». Soddisfatto,
reclina la testa sullo schienale della sedia. Ma una volta rimesso « il capo
sulle sudate carte », onde « correggere, ritoccare, migliorare il dettato »,
inorridito sul proprio foglio, in luogo delle nobili ed elevate sue profferte,
vede scritto invece :
Vorrei celebrare il mio amore. Ma, gran Dio, che posso dirne ? Se
esso è sincero, esclude le parole o le rende comunque inutili ; se non lo è,
davanti a chi e per utile di chi lo fingerei ?
Lo spettro tentante della « gloria » è parimenti fugato :
Ah, e come godrei di ciò di cui non posso godere ora e non potrò,
insensibile spoglia, godere mai ?
Il problema, in ultimo, è sempre il medesimo :
Nere parole, e buie. Invano io mi sforzo di suscitare in esse
unaluce; invano cerco di penetrarle e di stabilirne una corrispondenza con
una realtà di qualsiasi ordine ; esse non rispondono se non al nulla ; bei
tempi, quando immaginavo per esse rivelata una patria celeste… Talvolta,
in certe annate, le buone nocciole che vengono dai monti son tutte vuote
per via d’un loro tonchio segreto : avido ragazzo, io mi trovavo le mani
piene di gusci, nient’altro che gusci.
Meglio dismettere, in una, il sogno d’amore e quello di gloria
letteraria:
Non so: mio padre mi ha lasciato un po’ di quattrini, la drogheria
qui all’angolo è in vendita… […] Devo farmi coraggio e provvedere
18
subito : o sarà troppo tardi e seguiterò per tutta la vita a baloccarmi con
gusci vuoti39.
Da tempo è svanito il sogno di raggiungere per mezzo delle parole il
cuore segreto delle cose, il nucleo pulsante della vita oltre il suo guscio
sordo ; venuto meno anche, poi, l’auspicato risultato collaterale di
conseguire, per questa via, niente meno che la gloria. Non resta che
accontentarsi del vuoto guscio : di quella vita vera che nelle more di queste
ambasce, come usa, è fuggita. Non resta che inabissarsi nella prosa
dell’esistere40. E alla fine, come aveva profetizzato Il fuoco, uno alla volta e
ordinatamente, come tutti, morremo : beninteso senza aver vissuto.
Proprio l’anno prima che quest’apologo terminale vedesse la luce sul
« Corriere della Sera », il più acuto interprete storico di Landolfi così aveva
sintetizzato l’aporia a suo tempo allegorizzata dallo scrittore, e poi lo iato
che separava quelle prove da quelle, più recenti, in cui l’assunta
consapevolezza dell’impraticabilità di quella strada ne aveva aperta un’altra,
sorprendente. All’altezza precisamente della Spada:
[…] il pericolo di Landolfi […] è ormai un troppo di virtuosismo,
una terribile sicurezza di plasticità stilistica, un gusto, già tutto
autosufficiente, di mimesi verbale41.
Di fronte a questa strada senza uscita, il clown admirable ha trovato
una via di fuga laterale, inopinata, nella modalità della « confessione »
inaugurata nel ’53 dalla BIERE DU PECHEUR (testo col quale non
Landolfi solo ma con lui « un’intiera stagione della nostra civiltà delle
lettere pare acquistare di sé […] una funebre consapevolezza ; e questa
39 A questa metafora di sapore gnostico aveva fatto riferimento anche Il fuoco : « invano
tento, a ogni guizzo a ogni balzo, di raggiungere la mia patria celeste. In metro alterno, la
mia voce dovrebbe promettere agli uomini un paese migliore. Ma così non è, fanciulla, e
simile, infine, alla mia sorte, è quella di chiunque fra voi che viva con me in
dimestichezza. » (Id., Il fuoco, cit., p. 353).
40 L’alternativa secca gloria letteraria / vita ordinaria trova curiosamente lo stesso
emblema in un altro raccontino coevo, La gloria appunto ([1965], in Un paniere di
chiocciole, cit. ; ora in Id., Opere II, cit., pp. 949-52 : 951) : di fronte al monumento di un
« illustre sconosciuto » la donna si chiede chi sia, se un romanziere o un poeta ;
all’obiezione dell’uomo che potrebbe anche essere stato « un critico, un saggista », la donna
replica stizzita « perché non un droghiere ? ».
41 Edoardo Sanguineti, Tommaso Landolfi, in Letteratura italiana. I contemporanei,
Milano, Marzorati, 1963, vol. II, pp. 1527-39 : 1534.
19
consapevolezza è il suo merito, il merito del più recente Landolfi42 ») ; e
cita, Edoardo Sanguineti, i versi del Landolfo VI, al cui inizio peraltro
troviamo sùbito l’attributo decisivo :
In parole infeconde, torve e fosche
Ho sperduto, consunto il corto nervo.
Dove l’atto che incide e che è proficuo
A sé se non ad altri, dove, ancora,
La parola che illumina e che guida ?
No : confuse parole, a quegli stesso,
A quel me stesso che le pronunciava…
[…]
Trarmi alla luce forse non volevo ? –
[…] Lo volevo certo,
Eppure nella luce non credevo !
Ché in ogni mia parola, in ogni gesto
Non compiuto, represso, differito,
Ogni attimo offendevo il Creatore,
[…]
Ho amato veramente qualche cosa ?
Mi sono a qualche cosa almeno appreso ?
Mio Fattore, quale ti vengo innanzi !
[…]
Sì, che non avevo
Speranza, è questo il mio nero peccato ;
Non sapevo sperare, ed ora muoio
Disperato43.
Per commentare : se « una critica affettuosa, di fronte all’ultimo
Landolfi », lo incita a restaurare la vecchia maniera del “prestigioso”
racconto fantastico-surreale (come talora si vede esemplata in un libro,
infatti, alterno quale Ombre, uscito l’anno successivo alla BIERE DU
PECHEUR), « si tratterà, proprio all’opposto, di difendere, nella BIERE, la
forza di confessione con cui Landolfi affronta, fuori di ogni mediazione, il
42 Ivi, p. 1538.
43 Tommaso Landolfi, Landolfo VI di Benevento, Firenze, Vallecchi, 1959 ; poi in Id.,
Opere I, cit., pp. 889-967 : 964-6 (corsivo mio).
20
vero suo motivo estremo, la fine di una letteratura come vita, rivelatesi,
crudamente, una letteratura come morte44. »
Sanguineti ha buon gioco nel capovolgere dialetticamente l’arcinoto
titolo del critico di riferimento del primo tempo di Landolfi, Carlo Bo (al
quale peraltro proprio LA BIERE è dedicata), Letteratura come vita45. In una
col successivo e ancor più radicale intervento L’assenza, la poesia,
pubblicato lo stesso anno e proprio su « Prospettive », la stessa rivista,
dunque, sulla quale qualche numero prima aveva visto la luce La spada46, e
al di là della Verneinung relegata in nota (« Non vorrei che queste parole
fossero intese nella suggestione di un manifesto47 ») il proclamato divorzio
fra poesia ed esistenza sublunare (« Ci votiamo a un deserto di ragioni
fisiche, a diminuire questa parte dimessa e decaduta di noi stessi48 ») in
favore di una sancita sostituzione, in luogo di quest’ultima, della “vita”
autonoma e irriducibile della poesia (romanticamente, certo : « Poesia è
ontologia49 ») era senz’altro il retroterra teorico, se così si può dire, della
generazione cui Landolfi apparteneva (e del resto, nel come detto più
esplicito L’assenza, la poesia Bo non si periterà di proclamare che quella
“vita” davvero assomigliava, intimidatoriamente, al proprio contrario : « La
poesia invece chiede la morte stessa del nostro spirito50 »).
Quello che Sanguineti non poteva sapere era che lo stesso Landolfi,
nel frattempo, era giunto alle sue medesime conclusioni ; e proprio sulle
pagine – editorialmente ancora a venire, ancorché già da anni vergate – del
nuovo “diario” nel quale definitivamente si concretizzava l’opzione per il
polo rappresentato dalla BIERE DU PECHEUR : Rien va. Qui Landolfi
44 Edoardo Sanguineti, Tommaso Landolfi, cit., p. 1538.
45 Cfr. Carlo Bo, Letteratura come vita [1938], in Id., Otto studi, Firenze, Vallecchi, 1939
(e ora, con prefazione di Sergio Pautasso, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2000) ;
infine in Id., Letteratura come vita. Antologia critica, a cura di Sergio Pautasso, prefazione
di Jean Starobinski, con una testimonianza di Giancarlo Vigorelli, Milano, Rizzoli, 1994,
pp. 5-16.
46 Cfr. Id., L’assenza, la poesia [1940], in Id., L’assenza, la poesia, Milano, Edizioni di
Uomo, 1945 (e ora Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002) ; infine in Id., Letteratura
come vita, cit., pp. 29-34.
47 Id., La letteratura come vita, cit., p. 16.
48 Ivi, p. 14.
49 Ivi, p. 13.
50 Id., L’assenza, la poesia, cit., p. 30.
21
decreta infatti, in tono ultimativo ormai : « La letteratura non è vita
(semplice constatazione, del resto, senza giudizio51) ».
Andrea CORTELLESSA
Université Roma Tre
51 Tommaso Landolfi, Rien va, Firenze, Vallecchi, 1963 ; ora in Id., Opere II, cit., pp. 243-
364 : 307 (in data « 1 agosto » [1958]).
L’ARME INFECONDA
a Tommaso Ottonieri
Una notte Renato di Pescogianturco-Longino, rovistando tra il
retaggio degli avi… Occorre però dire brevemente in che consistesse
questo retaggio.
Così inizia il racconto LA SPADA, che dà il titolo al libro omonimo
pubblicato da Tommaso Landolfi nel 1942. A far problema, si capisce, è
proprio detto retaggio. Che consiste ormai più, data la catastrofica gestione
del « padre di Renato, buon’anima » – « fantastico capriccioso
estremamente sensibile, e soprattutto pigro oltremisura : un malinconico
scialacquatore » – nel « vario e preclaro ciarpame sparso per le soffitte del
maniero, all’infuori del maniero stesso. Dove, per tagliar corto ai preamboli,
ormai s’era ridotto a vivere in penuria di mezzi ». Di questo retaggio l’erede
sente di essere in procinto d’impossessarsi : « un bizzarro eccitamento lo
pervadeva spesso, paragonabile a quello del cercatore di tesori quando si
sente, per virtù divinatoria, prossimo a scoprirne uno. ».
Secondo termine-chiave, il maniero. Sigla metaforica questa, e anzi
allegorica senz’altro, d’una mitobiografia – quella del personaggio Landolfi,
ombroso aristocratico prigioniero di se stesso – che a pochissimi anni
dall’esordio editoriale1 s’è imposta agli happy few per tempo affrettatisi a
1 I racconti di Dialogo dei massimi sistemi, opera d’esordio, erano usciti presso Parenti nel
marzo del ’37 ; il racconto La spada esce in rivista – sull’elegante « Prospettive » diretta da
Curzio Malaparte – nel marzo del ’40, prima di dare il titolo al quarto libro di Landolfi, La
spada appunto, secondo uscito da Vallecchi – nel marzo del ’42 – dopo il racconto lungo
2
incoronare il poco più che trentenne scrittore. Sin dalla prima “presa di
voce”, il perfetto Maria Giuseppa pubblicato a vent’anni, la voce narrante si
presenta, infatti, da se stessa reclusa in una « grande casa ormai senza
abitatori2 » nella quale è facile riconoscere la casa avita di Pico Farnese :
dove davvero Landolfi, com’è noto, continuerà a ritirarsi dal commercio
umano, soprattutto per scrivere, sino ai primi anni Settanta. Ancora nel
Dialogo dei massimi sistemi i protagonisti della Morte del re di Francia e di
Mani, l’aracnòfobo Tale e lo sterminatore di topi Federico, ci vengono
mostrati rispettivamente il primo mentre « perlustra la sua grande casa di
notte », in particolare dalle parti del solaio3, il secondo « completamente
solo nella sua grande casa abbandonata4 ». Sempre nella raccolta d’esordio,
poi, nello splendido Settimana di sole non solo l’io narrante ci si presenta
« in una vecchia casa di trentaquattro stanze, con cortile e giardino », ma si
dice convinto che in quella casa, da qualche parte, sia « nascosto un
tesoro » : il quale consisterebbe precisamente in un residuo di retaggio
famigliare salvato dal progenitore che, « a differenza degli altri antenati,
tutte persone intente a dar lustro e prosperità alla casata », si guadagnò
l’appellativo di « Dissipatore » : avendo « dato fondo a una gran parte delle
sue sostanze e lasciati i figli in condizioni difficili5 ».
Il motivo (o, diciamo senz’altro con Ernst Bernhard, il
« mitologema6 ») della solitudine sprezzantemente inflitta all’immeritevole
prossimo, e quello della decadenza famigliare rivendicata con fierezza da
chi fa vanto sia dell’aristocratico lignaggio che della sua snobistica
noncuranza, si saldano – nella maschera che Landolfi s’è disegnata sul volto
La pietra lunare del ’39. La raccolta che prende il titolo dal nostro racconto è preceduta da
una ristampa della seconda e assai esile silloge, Il Mar delle Blatte e altre storie, la cui
princeps era uscita presso le romane Edizioni della Cometa, dirette da Libero de Libero,
nell’estate del ’39 (accompagnata da un disegno di Giorgio de Chirico). In questo binomio i
racconti di Landolfi vengono riediti anche nel ’44 prima di confluire nel ’61 nella silloge
riassuntiva, sempre vallecchiana, sulla quale si fonda l’edizione dalla quale cito : quella a
cura di Idolina Landolfi alle pp. 283-8 di Tommaso Landolfi, Opere I. 1937-1959,
prefazione di Carlo Bo, Milano, Rizzoli, 1991. Le citazioni dal racconto La spada, data
l’esigua sua estensione, saranno date direttamente a testo senza ulteriori rimandi puntuali.
2 Tommaso Landolfi, Maria Giuseppa [1929], in Id., Dialogo dei massimi sistemi, cit. ; ora
in Id., Opere I, cit., p. 5.
3 Id., La morte del re di Francia [1935], ivi, p. 20.
4 Id., Mani, ivi, p. 56.
5 Id., Settimana di sole [1937], ivi, p. 88.
6 Cfr. Ernst Bernhard, Tentativo di una mitobiografia [12 agosto 1963], in Id.,
Mitobiografia, a cura di Hélène Erba-Tissot, Milano, Adelphi, 1969, p. 189.
3
sin dal suo esordio letterario – proprio col ricorso al set, all’ambientazione
ossessiva del luogo isolato, della grande casa in rovina (la cui
interpretazione definitiva e “canonica”, diciamo, sarà data nel ’47 con
Racconto d’autunno) le cui penombre ospitano presenze minacciose o,
comunque, “rimosse”; e, in quanto tali, almeno ambivalenti. Senza voler,
infatti, seguire troppo da vicino, e troppo alla lettera, l’« albero semantico »
nel quale Francesco Orlando ha suddiviso in dodici categorie contrassegnate
da ancipiti etichette (dal monitorio-solenne al pretenzioso-fittizio) il proprio
celebre e discusso repertorio degli Oggetti desueti nelle immagini della
letteratura7, non si può negare come proprio questo studio ci mostri da un
lato la pervasiva topicità dell’ambientazione in oggetto (proprio nel
repertorio ottocentesco com’è noto prediletto da Landolfi), dall’altro come
essa veicoli – nei termini freudiani di Orlando, appunto – « un ritorno del
represso antifunzionale » collegato, ma non coincidente, col « represso
immorale » e con quello « irrazionale ». Se lo « spazio immaginario » della
letteratura moderna si presenta gremito da « immagini di corporeità nonfunzionale
» è perché il suo tempo è dominato, sul piano invece
dell’« ordinamento reale », dal « principio di prestazione » in cui la
razionalità occidentale ha finito per specializzare il freudiano « principio di
realtà8 ».
Se di questo teorema è – forse – dato proporre un’applicabilità
generale, esso appare tanto più appropriato a un autore che col principio di
realtà ha sempre avuto rapporti quanto meno dialettici, quale appunto il
nostro. L’attaccamento nevrotico al luogo dell’origine, del quale pure egli
stesso si compiace di raffigurare con insistenza l’inamena condizione
d’abbandono e derelizione, in Landolfi si spiega probabilmente proprio così.
Ambivalente la natura degli oggetti coi quali si rapporta perché ambivalente,
in effetti, il suo sentimento nei loro confronti. Di tale ambivalenza si fa
funzione narrativa la doppia natura degli oggetti : che s’incontrano morti,
spenti, impolverati come da topica appunto ; ma che nello sviluppo della
diegesi hanno la facoltà di scuotersi dal loro torpore, ravvivarsi di nuova
luce, tornare insomma in funzione (persuasivo qui Orlando, che definisce
« primaria la non-funzionalità » cui sono ridotti gli oggetti, e « secondaria
la loro funzionalità di recupero, per quanto possa esser vistosa9 ».
7 Cfr. Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine,
reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993.
8 Ivi, p. 10.
9 Ivi, p. 13.
4
« Desueta » è intanto la cornice del racconto, la sua sede archetipica,
il maniero insomma : come proprio a partire dalla Spada si sigla infatti
lessicalmente, in guisa d’epigrafe diciamo, il cronotopo d’elezione. Proprio
il riferimento al maniero, già nelle prime battute del racconto, provvede a
iscriverlo sotto l’etichetta, piuttosto, dell’apologo. Sotto il lieve velo
d’invenzione, infatti, esibitamente autobiografico : ove si resti avvertiti di
come al solito – in questo “primo” Landolfi, prima della “svolta” diaristica
degli anni Cinquanta – l’autobiografia necessiti proprio di quel velo : sia
consentita, cioè, solo in forma d’allegoria (o, s’è detto, di
« mitobiografia10 »).
Non sfugga, infatti, che nei manoscritti – nella descrizione di Idolina
Landolfi – il racconto porta, accanto al titolo poi definitivo La spada,
l’ipotesi alternativa (o sottotitolo poi cassato) di Allegoria11. Ma cosa
dunque allegorizza, il nostro apologo ? Altrove12 – senza azzardare griglie
troppo stringenti – non mi sono trattenuto dal proporre, per il “primo”
Landolfi, tre forme di metaracconto : che chiamano in causa la scrittura a
diversi livelli o, per così dire, su diverse “scale”. Da quella più specifica e
performativa, che parla direttamente del testo stesso mentre si dipana
(l’esempio analizzato è La piccola Apocalisse, nel Dialogo dei massimi
sistemi), passando per quella che problematizza un’idea di letteratura mentre
la si sta praticando (un esempio può essere Le due zittelle13), sino alla sfera
più vasta e comprensiva, che chiama in causa la letteratura in quanto tale ; o,
per la precisione, il ruolo che essa svolge nell’esistenza di chi scrive. È
appunto il caso della Spada.
Riprendiamo a leggere il racconto, allora. Come i suoi predecessori
del Dialogo dei massimi sistemi il figlio del « malinconico scialacquatore »
ci si presenta mentre, vagando « per le soffitte del maniero », fruga tra « il
vario e preclaro ciarpame » che le abita : oggetti desueti da manuale, come
si vede, se al lignaggio originariamente “alto” (preclaro) associano
10 Rinvio al mio Cætera desiderantur: l’autobiografismo “fluido” dei diari landolfiani, in
Le lunazioni del cuore. Saggi su Tommaso Landolfi, a cura di Idolina Landolfi, Firenze, La
Nuova Italia, 1996, pp. 77-106.
11 Cfr. Idolina Landolfi, Nota ai testi, in Tommaso Landolfi, Opere I, cit., p. 993. Qui anche
l’indicazione della data di stesura : « Pico, 24-25 ottobre 1939 ».
12 Cfr. Andrea Cortellessa, Piccole apocalissi. Metaracconti di Tommaso Landolfi, in « il
verri », LI, 30, gennaio 2006, pp. 53-66 : 60-3.
13 Rinvio stavolta alla mia relazione, Profanazioni : Le due zittelle, in corso di
pubblicazione negli Atti del Convegno Cento anni di Landolfi, Roma, 7-8 maggio 2008.
5
un’attuale condizione degradata (ciarpame) ; ma, come vedremo, uno di essi
conoscerà nuova vita : nella forma della funzionalità secondaria (e
traditrice) descritta da Orlando. Fra questa « roba d’altri tempi », Renato
trova finalmente, infatti, l’oggetto cruciale : sineddoche del retaggio
ereditato nonché nucleo simbolico che al racconto dà il titolo. La spada,
cioè. Inguainata in « nobili tessuti, quali velluti e bissi, tenuti insieme da
costole di pelli preziose e pinte dei più vivi colori » : involucro di prestigio
dal quale Renato a lungo esita a estrarla ; poi, sfoderata l’arma, essa rifulge
« abbagliante », a dispetto della penombra che la avvolge : « la lama sembra
splendere di propria luce » (più avanti le viene conferito l’epiteto di « lama
di sole »). Più che d’oro pare materiata di qualche pietra preziosa, forse
« topazio » o « inusitate pietre d’oriente ». Infatti (come a preannunciarne la
doppia, ancipite natura) la spada non solo splende ma altresì trasmette « una
qualche cupezza, raggiante, per così dire, dall’interno (che non ne ombrava
neppure un poco la splendente trasparenza) ». Proprio la trasparenza, dopo
la luminosità, è un altro suo attributo miracoloso : la spada è talmente sottile
da far tralucere attraverso di sé « le lingue del fuoco nel camino » ; e ciò
malgrado le è stata conferita « rigidezza e flessibilità quanto a ogni altra
lama di buon acciaio ». Renato prende a saggiarla; ma non appena ne
accosta il taglio al polpastrello del pollice si vede tagliar via un lembo di
dito ; altra qualità miracolosa : « parve che la lama fosse passata attraverso
l’unghia e il polpastrello come senza tagliare, certo senza suscitare
dolore » ; basta appoggiarla a un oggetto che essa lo fende senza il minimo
sforzo : « non sembrava conoscere ostacoli e s’apriva la sua via ; essa ogni
cosa trapassava, quasi spettro di lama ».
Prima entusiasta del suo onnipotente strumento, che non si stanca di
provare affettando « le teste dei due busti di pietra fra le tre porte, illustri
antenati » e un po’ tutto quanto capiti a sua portata, dopo qualche giorno
d’incantamento Renato comincia a interrogarsi, in misura via via più
pressante, sul « degno uso per la sua spada portentosa ». Infatti « si sa bene
che più egregia è un’arme, a più grand’uso ha da servire ». Sicché,
« aspettando d’ora in ora la maggiore impresa, e le minori sdegnando, anche
di queste alla fine si perde l’occasione e ci si ritrova da ultimo, sal mi sia,
con un pugno di mosche ». E poi « il non potersene, o sapersene, servire non
gli toglieva già la responsabilità del possederla ; tormentoso sentimento
invero ! ». Tanto che viene il momento in cui Renato si convince che « la
spada era quasi divenuta il suo nemico; e quasi avrebbe preferito non averla
in retaggio ».
6
Davvero spettro di lama, il magico oggetto : in quanto araldico
attributo di avi estinti rinvenuto nella sede, per antonomasia spettrale, della
soffitta del maniero. E che proprio nella spada consista il misterioso
retaggio che Renato da sempre sapeva oscuramente spettargli sta a
dimostrarlo che egli, a un certo punto, crede di leggere sulla sua superficie
« labili parole […], incise o forse contemprate, parole leggere nel cuore
della lama, non si sapeva dove tracciate, come quelle che la polvere del sole
può scrivere su un alito di vento […] : “Io Cavaliere Gastaldo Di
Pescogianturco-Longino Temprai questa spada Più tagliente di quella
d’Orlando Or tu non avrai più nemico”. Parevano versi e i caratteri erano
molto antichi ». Il passaggio in cui l’arma appare contemprata di parole, e
anzi di versi, non fa che confermare quanto era dato ormai sospettare da
tempo : il potere della spada è il potere della parola, il retaggio ereditato
dagli avi più remoti il talento letterario, la sempre più pungente incertezza di
Renato sul suo degno uso quella stessa di Tommaso su cosa fare della
propria portentosa abilità nella scrittura.
Anche l’onomastica contribuisce all’evocazione, puntualmente
siglando entrambi i piani dell’allegoria. Longino è infatti, secondo una ben
attestata tradizione medievale (i cosiddetti Atti di Pilato, accorpati al
vangelo apocrifo di Nicodemo), il nome del soldato romano che trafigge in
punta di lancia il costato di Gesù crocifisso per accertarsi della sua morte.
Secondo la tradizione, il sangue del Cristo, schizzatogli sugli occhi, lo guarì
dal male che lo affliggeva ; convertitosi al cristianesimo, Longino raccolse il
sangue di Gesù e lo portò in Italia, dove venne martirizzato a Mantova (il
suo sepolcro è nella basilica di Sant’Andrea) ; dopo di che, la reliquia della
Sacra Lancia entrò nel tesoro imperiale (ancor oggi è custodita all’Hofburg,
a Vienna). Ma il nome rinvia altresì, ovviamente, al grammatico
neoplatonico Cassio Longino, per secoli supposto autore del trattato
ellenistico Del Sublime (ΠΕΡΙ ΥΨΟΥΣ, primo secolo d.C.) la cui celebre
traduzione, nel 1674 per opera di Boileau, ne fece assoluto testo di
riferimento per l’estetica sette e ottocentesca : secondo Harold Bloom
periodo che « potrebbe a ragione essere definito “l’Età del Sublime14” »
(non a caso Burke e Kant, i maggiori teorici del tempo, com’è noto
tratteranno estesamente proprio questa categoria).
14 Harold Bloom, Postfazione, in Pseudo Longino, Il Sublime, a cura di Giovanni
Lombardo, Palermo, Aesthetica, 1987, pp. 151-9 : 152.
7
Dunque un’arma letteralmente miracolosa; nonché, al contempo, una
reliquia che rinvia alla koinè letteraria di riferimento, per Landolfi. Uno dei
massimi capisaldi teorici del romanticismo, la Difesa della poesia di Shelley
(1821), nell’essere addirittura imbevuta di succhi longiniani presenta la
medesima metafora che ritroveremo usata, a più d’un secolo di distanza, nel
nostro racconto : « la poesia è una spada di folgore, sempre sguainata, che
consuma il fodero che vorrebbe contenerla15 ». Proprio perché è « la luce
della vita16 » (la Difesa torna a più riprese sul campo metaforico della
luminosità, dello scintillio ecc.), proprio perché « è davvero qualcosa di
divino17 » nello « strappare dal mondo il velo della consuetudine, e rivelare
la nuda bellezza addormentata che è lo spirito delle sue forme18 », Shelley
può concludere, memorabilmente, che « i poeti sono i non riconosciuti
legislatori del mondo19 ».
Ed è proprio di questo potere assoluto della parola, è di questo
retaggio che Landolfi ha creduto, almeno per un momento, di poter essere
erede. È quanto narra nell’ultimo racconto del Dialogo dei massimi sistemi,
« Night must fall » : chi dice io si dice perseguitato, di notte, dal verso
insistente dell’assiuolo. Voce assidua, instancabile, assoluta; inconsapevole
e dunque assoluta : nel rinviare spietatamente, per contro, alla finitudine, al
pallore della consapevolezza che indeboliscono, infine, anche la più
cristallina, la più felice delle voci umane : « l’uomo, se ripetesse tante volte
una parola, anche l’uomo più fidente, non saprebbe serbare quel timbro
gioioso e sereno e alla fine la ripeterebbe con tristezza20 ». Ed è proprio
questo confronto a ricordare ogni notte, a chi narra, la precoce, amara
scoperta che ha fatto, della sua esistenza residua, uno svagato sopravvivere:
Da piccino, assai prima di ricevere quelle visite notturne, si davano
spesso tramonti e notti che mi rifiutavo di stare a sentire […] : avevo paura
di me stesso. Avevo paura che a lasciarmi andare, ne sarebbe venuto fuori
qualcosa di troppo bello, di insostenibilmente bello, una poesia, che so, o
15 Percy Bysshe Shelley, Difesa della poesia. Considerazioni suggerite dal saggio intitolato
« Le quattro età della poesia » [1821], in Id., Opere, a cura di Francesco Rognoni, Torino,
Einaudi-Gallimard, 1995, pp. 1014-45 : 1027.
16 Ivi, p. 1029.
17 Ivi, p. 1040.
18 Ivi, p. 1042.
19 Ivi, p. 1045.
20 Tommaso Landolfi, « Night must fall », in Id., Dialogo dei massimi sistemi, cit. ; ora in
Id., Opere I, cit., pp. 102-15 : 104.
8
anche soltanto un’idea che avrebbe spiegato tutto – e allora tutto sarebbe
finito e riprecipitato in una voragine senza fondo. […] « Quello che è
troppo è troppo » forse borbottavo : succhiarsi l’universo come un uovo mi
pareva un’azione da screanzati. E anche suppongo che mi vergognassi,
essendo così piccino, di passare già (come alle brutte alle brutte sarebbe
avvenuto) da grande poeta. Ora il fatto è che quando una volta, per
amor della vertigine, consentii ad abbandonarmi alla processione del
Venerdì Santo (che è una cosa come le notti e i tramonti) ne venne fuori
una brutta poesia, sebbene debitamente scritta in uno stato di quasi totale
incoscienza. Questo fatto però non mi messo affatto in guardia : continuai
ad esimermi dal diventare un grand’uomo. E, in quanto a me, credo tuttora
che oggi potrei esserne uno, sol che non si fosse inaridita, per non averla
esercitata, quella divina facoltà. Perché è proprio così : quando mi stimai
finalmente in età da poter essere grande poeta senza dar nell’occhio, allora
intesi che, sia pure colle debite cautele, avrei dovuto mantenermi in
esercizio e che non c’era ormai più nulla da fare. Ebbene, quello che avrei
dovuto fare il canto dell’assiuolo che lo insegna : continuare a inghiottire le
notti o almeno prendermi l’impegno di parlare per loro21.
La divina facoltà che i poeti, i grand’uomini del tempo di Shelley si
autorizzavano ad esercitare, succhiandosi l’universo come un uovo e
risultandone dunque i non riconosciuti ma perfettamente legittimati
legislatori, l’erede tardivo di quel retaggio sa di non potersela permettere.
Ove pure se ne sospetti in possesso, stante che più egregia è un’arme, a più
grand’uso ha da servire, come abbiamo visto non trova mai l’oggetto ad
essa adeguato ; e a forza di attendere il momento adeguato per finalmente
esercitarla, perde l’occasione e si ritrova da ultimo con un pugno di mosche.
Ma gli ulteriori sviluppi dell’apologo sono ancora più spietati,
incomparabilmente più ultimativi e schiaccianti che nella delicata
Nachtmusik del Dialogo dei massimi sistemi, intarsiata d’echi dal
Nachtingall di Ludwig Hölty (e Franz Schubert). Ecco affacciarsi al
proscenio, infatti, la terza dramatis persona : « E venne, una sera, la
fanciulla bianca ». L’apparizione ci si presenta sovraccarica di emblemi di
incontaminata purezza e “assiuolesca” serenità :
Bionda era, d’inclita bellezza, flessuosa come un giunco e schietta
come un argenteo pioppo. Vestita fino ai piedi di seta bianca e spessa,
un’alta cintura ne stringeva l’esile vita. Guardava timida e dolce.
21 Ivi, pp. 106-7.
9
La fanciulla bianca, senz’altro, si offre a Renato ; e, ancorché
villanamente cacciata, non pensa nemmeno a desistere. Il giovane confuso si
schermisce, letteralmente si ripara dietro la spada (attraverso la quale però
l’immagine della donna traspare, « lievemente appannata e torta, come in
un’acqua appena turbata ») ; dopo di che il racconto, sino a quel momento
lento ed esitante, come nel finale di Maria Giuseppa e di altri testi
landolfiani dal finale traumatico, improvvisamente e immotivatamente
accelera, precipitando d’un sùbito verso la conclusione :
“Ma io non voglio ! non voglio essere amato” riprese Renato
pestando i piedi e roteando la spada. E, in una, pensava : non sarebbe forse
questa la grande impresa ? […] “Bada a te, fanciulla !” gridò Renato e, in
preda a una strana ebbrezza, pensava : questa è la grande impresa.
Infine la catastrofe :
[…] : levando l’arme all’improvviso, Renato appoggiò sulla
fanciulla un gran fendente. La lama attraversò per lungo l’esile corpo senza
incontrare resistenza ; pure la fanciulla non cadde e, immobile,
guardava il suo assassino coi dolci occhi, sorridendo tuttavia a fior di
labbra […] ; né dell’orrenda ferita si scorgeva traccia.
Tutto di nuovo pare immobilizzato, candito in un lampo di magnesio
come nelle scene sovrailluminate e perfettamente irreali della Piccola
Apocalisse. Renato si rende conto di cosa ha fatto solo abbassando gli occhi
sul suo strumento di morte : « la spada che Renato ancora reggeva sembrava
aver abbandonato in quel corpo di giglio ogni fulgore : l’arme egregia s’era
fatta di botto smorta come cenere, cupa come un tizzo spento, una
malinconica e trista arme in verità ». Talché l’incauto suo possessore,
« caduta d’un subito l’ebbrezza, contemplava allibito la fanciulla immobile
e non osava credere a se stesso. Gettando lontano l’arme infeconda, “Dio!”
gridò “che cosa ho fatto”». Alla fanciulla bianca riesce ancora un postremo
sorriso, dopo il quale si attua la catastrofe :
Il suo volto accennò a fendersi e lentamente prese a scomporsi.
Una tenue, dapprima quasi invisibile riga rossa apparve, su dai capelli
d’oro fino al collo, e giù giù per il seno e per la bianca seta; e questa
fenditura ad allargarsi e il sangue a pullularne, gorgogliando appena specie
10
fra i capelli. Il sorriso era ormai un’orribile smorfia, un ghigno
ambiguo e spaventoso ; la crepa del fragile corpo rapidamente s’apriva ; la
fanciulla crollava, partita dall’implacabile spada.
Per atroce ironia, al momento della fine il biancore virgineo della
fanciulla sembra acquisire, per un istante, un di più di diafanità, si fa
trasparente come trasparente era, prima dell’orribile suo uso, l’arma, anzi
l’arme che ha posto fine alla sua esistenza : « Traverso la fessura già
ridevano le lontane stelle della notte ». Poi la fine :
[…] ; in men che non si dica la fragile fanciulla, inusitata vista, si
scommise al suolo sotto gli occhi del suo uccisore. E quelle sparse membra
soltanto il placido sangue riuniva.
Questo disgregarsi dell’immagine femminile au ralenti, ma in fine
velocior, non può non ricordare quello che conclude La piccola Apocalisse,
dopo lo spettacolo di luci e di colori alla quale l’apparizione muliebre s’è
accompagnata :
Non so perché, rimasi qualche tempo in silenzio e senza far nulla,
come se assistessi al compiersi di un rito, guardando la donna che
gradatamente affondava nella pozzanghera come in una sabbia mobile. Per
un attimo vidi biancheggiare, tra l’orlo della calza e una frangia tenue, lo
splendore abbagliante della pelle ; poi la balza della gonna s’imbevve essa
medesima di fanghiglia e si appesantì, stirandosi attorno al corpo e
mortificando l’impeto del seno : ne parve, la donna, abbigliata d’una tunica
sacrificale.22
Non solo ritroviamo nella Spada la medesima attonita passività
dell’uomo di fronte alla fine della donna ; anche a un improvviso luccicar di
stelle al termine del rito sacrificale s’era assistito alla fine della Piccola
Apocalisse : « Alzai gli occhi al cielo. Di tra uno straccio di nebbia riuscii
persino a vedere due o tre stelle. ». E come qui la conclusione consegna
l’uomo a un eclissarsi malinconico :
Ritornai a passo lento in città ; un’alba fangosa mi sorprese infatti
sulla sterminata via che avevamo percorso insieme prima. […] Infine un
22 Id., La piccola Apocalisse, ivi, pp. 63-86 : 84.
11
lento sole parve sorgere al di là della nebbia e il Bene e il Male il Vizio e la
Virtù svanirono come strascichi di fantasmi23.
Così nella Spada i toni dell’explicit s’innalzeranno al tenore di una
vera e propria (tutt’altro che ironica, per una volta) maledizione.
Fu così che l’arme inclita e portentosa, che Renato avrebbe potuto
impugnare in difesa del bene, o almeno per la sua felicità, gli servì invece a
distruggere quello che aveva di più caro sulla terra :
Essa poi, così spenta, e sebbene tagliente come prima, chi più
l’avrebbe voluta ? L’uomo che la raccolse, buttandola nella più profonda
voragine della terra volle salvare il mondo dal suo funesto potere. Ma altri
uomini, o dei, ne la trassero, ad altri senza loro colpa fu data in sorte. E
questi se la trascinarono dietro pel loro cammino terreste come una croce, e
così ancora sarà per la disgrazia di tutti.
Il miglior interprete del nostro racconto, Stefano Guidi, ha
richiamato l’attenzione sul simbolismo antropologico della spada come
attributo, per antonomasia virile, che dalla tentazione femminile separa
l’eroe24 : Renato, infatti, prima che appaia la fanciulla bianca « dormì colla
lama nuda accosto, nell’antico letto a baldacchino ». O meglio tentò di farlo,
turbato dalla presenza radiante della spada al suo fianco :
Con questa spada menerò grandi imprese; quali non so ancora, ma
grandi di certo. E voleva addormentarsi, ma a lungo non poté :
l’angosciava oscuramente la presenza di quella viva spada, che anche al
buio gli splendeva accanto.
Ma lo stesso critico non manca di notare come il medesimo simbolo,
per esempio entro l’enciclopedia cabalistica, rinvii altresì alla « divina
parola a doppio taglio25 ». Ecco il punto : « al di là di una possibile lettura
simbolica del medium di separazione, il racconto della Spada inaugura una
23 Ivi, p. 85.
24 Nei canti dell’Edda, per esempio, « Sigurdh e Brunhilde osservano il loro tirocinium
castitatis dormendo divisi dal medesimo strumento » : Stefano Guidi, Gli infortuni della
retorica, Landolfi e il linguaggio « en abîme », in « Studi novecenteschi », XIV, 33, giugno
1987, pp. 99-126 : 101.
25 Ivi, p. 104.
12
[…] equazione donna / realtà26 » : « una dimensione mitica che si
costituisce in opposizione alla sfera intellettuale in cui generalmente si
muovono invece i personaggi maschili27. »
Questa la catastrofica ambivalenza dell’allegoria di Landolfi: il
potere magico della scrittura promette, a chi lo possiede, l’incantesimo di
penetrare la realtà, di incidere il suo opaco tegumento per denudarne
l’intima e splendente essenza. Come diceva Shelley (con metafora che
anticipa nitidamente, fra l’altro, lo straniamento šklovskiano a sua volta caro
a Landolfi28), essa « strappa dal mondo il velo della consuetudine, e rivela la
nuda bellezza addormentata che è lo spirito delle sue forme29. » La spada
magica, questa sonda acuminatissima della scrittura, pare in grado di
penetrare (come appunto i romantici vollero fare, da Novalis a Senancour)
sotto la superficie della terra, in cerca della « più violenta e abbondevole
vita » che « s’agita nelle sue viscere », come si legge nell’ouverture
lampeggiante del libro del ’42. La scrittura è La tenia mistica (questo il
titolo dell’introibo) che si fa strada scavando nel vivo, nel cuore profondo
della materia : altra metafora dall’inevitabile sottinteso sessuale « nel cui
nome » Landolfi dichiara di voler « dare principio a questa serie di
notazioni30 » (la tenia riporta in scena, fra l’altro, la sfera animale che nel
libro precedente si era resa protagonista di un altro fantasmagorico viaggio
al centro della terra, o del corpo che è lo stesso : il Mar delle Blatte
ovviamente31).
26 Ivi, p. 102.
27 Ivi, p. 103.
28 Rinvio a Beatrice Stasi, Landolfi e i formalisti russi : un’ipotesi di lettura, in
« Intersezioni », XII [1992], 2, pp. 291-310 ; e, per un prosieguo di discussione, al mio
Landolfi 1929-1937. Sistema della parodia e dialettica del luogo comune, in « Moderna »,
VI, 2004, 1 [ma 2006], pp. 41-64.
29 Percy Bysshe Shelley, Difesa della poesia, cit., p. 1042.
30 Tommaso Landolfi, La tenia mistica [1940], in Id., La spada, cit. ; ora in Id., Opere I,
cit., pp. 281-2 : 282.
31 Nel quale, come si ricorderà, l’attempato avvocato Roberto Coracaglina assiste
affascinato al fuoriuscire, da una ferita all’avambraccio procuratosi dal figlio, di una serie
di oggetti incongrui e ripugnanti fra i quali un «vermiciattolo azzurro e diafano». Nella
rutilante fantasmagoria onirica che segue, tramutatosi nella figura eroica dell’Alto Variago
e davanti alla bianca nudità della giovane Lucrezia, Roberto si vede sconfitto in una gara di
seduzione proprio da quel verme, ora senziente e opinante (cfr. Id., Il Mar delle Blatte
[1938], in Id., Il Mar delle Blatte e altre storie, cit.; ora in Id., Opere I, cit., pp. 205-25; la
citazione a p. 205).
13
Ma tali splendide premesse vengono “apocalitticamente” smentite
dal concreto operare, della medesima magia. Non per sua insufficienza ma
al contrario, si potrebbe dire, per eccesso. Tanto è potente, l’arme, che non
la si riesce a impiegare : non ci sono oggetti alla sua altezza. E infatti, una
volta che si tenti per suo tramite la grande impresa, essa viene appunto
mancata per eccesso. La coazione alla “minorità”, ben prima che venga
rimproverata al Landolfi maturo da alcuni dei suoi critici più consentanei,
da Contini a Baldacci, è egli stesso il primo a pronosticarsela. Per questo
l’arme della sua scrittura è infeconda : perché il suo potere, in effetti, non si
applica, non si coniuga ad alcun oggetto reale, continuando a splendere
inutilizzato nella sua fulgida e incorrotta sostanza. Non si dimentichi che
Renato esita a lungo a estrarre la luce magica della spada dalla guaina opaca
che la avvolge. I suoi caratteri di splendente trasparenza e acuminatezza, le
sue doti ineffabili sono esse stesse il retaggio che l’erede presagiva di
godere, non le ipotetiche imprese che esso consentirebbe : per questo la
spada è in verità, allora, allegoria tanto dello strumento col quale strappare
il velo del mondo che di quella stessa nuda bellezza addormentata che si
vorrebbe risvegliare. E, in ultima analisi, allegoria proprio di questo
rapporto coatto all’intransitività, di questo commercio impedito, e dunque
infecondo, tra scrittura e realtà. Come dirà, in sede consuntiva, il Nessuno di
Faust 67 (dove esplicita è ormai l’equazione tra la realtà e il coniugio) :
Io, dicevo, son vissuto finora senza riconoscermi in alcuna realtà,
senza in alcuna o su alcuna mordere o calarmi. Vedevo gli altri ipotizzarne
una purchessia, poi accettarla, infine abbracciarla o addirittura impalmarla,
o forse appropriarsela per davvero ; e mi chiedevo32…
E in fondo alla mitologia faustiana, importantissima per Landolfi che
la rivisita com’è noto nella Pietra lunare, può pure essere ricondotto
quest’apologo sul potere annichilente di una sapienza alienata (il Regista
della tarda riscrittura landolfiana usa proprio questo lessico prosaicamente
aggiornato per interrompere le fantasticherie di Nessuno : « In parole
povere, un perfetto alienato33. »)
32 Id., Faust 67, Firenze, Vallecchi, 1969 ; ora in Id., Opere II. 1960-1971, a cura di Idolina
Landolfi, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 1019-152 : 1038.
33 Ibidem. Proprio l’incipit della tragedia di Goethe (dopo Dedica, Prologo in Teatro e
Prologo in Cielo), fra l’altro, appare adeguato a candidarsi ad archetipo del set d’elezione
di questa coatta drammaturgia landolfiana : è « in una stanza gotica a volta, stretta e alta » –
14
Non diverse le risultanze dell’altra allegoria che, nel volume della
Spada, fa simmetrico riscontro al nostro racconto (in penultima sede, cioè,
seguito dall’esplicitario Racconto della piattola che svolge la medesima
funzione, all’altro capo della silloge, della Tenia mistica : riportandone in
scena, fra l’altro, l’animalità perturbante che di Landolfi è ormai sphraghìs),
Il fuoco. È la notte di Natale; ancora una volta, a confronto, l’io narrante e la
donna candida, innamorata e confidente ; ancora una volta, tra loro, una
fonte luminosa, uno spirito benigno che può rivelarsi, tuttavia, agente di
distruzione e morte. Se la spada di Renato ha su di sé parole incise, stavolta
il fuoco nel camino prende direttamente voce, rivolgendosi alla donna :
Accanto a me non v’è pace, e folle speranza è la tua. Su me grava
un’oscura condanna, e su chi m’avvicini ; funesto è il mio potere.
Compagno degli uomini, loro strumento anche ; ma loro tormento,
infine :
Io storno i loro cuori […] da ogni inclita cura e a oscure imprese li
intendo, storno la loro mente da ogni alto pensiero e a sorde angosce la
piego. E soprattutto io scateno dai loro petti una vana tempesta di parole
[…], con cui essi si tormentano senza tregua, se stessi e l’un l’altro.
È precisamente nelle parole infatti il male, lo spreco infecondo :
Esse battono dentro come sangue guasto, la mente può smarrirsi
nel loro giro infecondo, esse possono dare la disperazione, o un’angoscia
simile alla follia : […]
come recita la didascalia d’esordio – che Faust compiange la propria inutile dottrina ; ed è
qui che prendono connotati famigliari, nella loro sordida desuetudine appunto, gli emblemi
e gli strumenti di un sapere accumulato per generazioni e del quale si riconosce ormai la
vanità : « Come ? Ancora io qui carcerato ? / Tana maledetta tetra / dov’anche la luce cara
del giorno / fila torbida dai vetri di colore ! / Cerchiato da questo cumulo di libri / che ti
rodono i tarli, la polvere copre, / che carte annerite circondano / fino alla vòlta, lassù, / e
tutto fitto di vasi, di teche, / di strumenti accatastati, zeppo / di ammennicoli d’antenati… /
Questo è il tuo mondo ! Questo si dice un mondo ! / E ancora ti chiedi perché l’angoscia /
in petto il cuore ti stringe, / perché un dolore incomprensibile ti reprime ogni moto di vita ?
/ Invece di quella natura vivente / dove Iddio ha disposto gli uomini, / tra fumo e muffa hai
d’intorno soltanto / scheletri di bestie, ossa di morti. / Va’ via ! Su, verso liberi spazi !»
(Johann Wolfgang Goethe, Faust [1808-1832], vv. 398-418, traduzione di Franco Fortini
nell’edizione a sua cura, Milano, Mondadori, 1970, pp. 35-7).
15
Il fuoco, come il lògos di Eraclito, è appunto la parola; ma anziché
liberare gli uomini li rende schiavi, « prigioni di quest’aria ronzante di
parole ». E dunque :
[…] :il tuo amato non sarà mai tuo, come vorresti, giacché egli
m’appartiene. Qui vissero i suoi avi e morirono, qui egli vivrà e morrà ;
com’io sono qui dannato, così egli, fra il turbine delle parole, alle piccole
cure di questa venerabile casa ; né la sua anima potrà mai di qui levarsi a
volo o seguire le orme d’una compiuta bellezza34.
Dopo questo vaticinio atroce – esattamente come la spada, si
ricorderà, s’era fatta di botto smorta come cenere, cupa come un tizzo
spento dopo aver esercitato per un’unica, catastrofica volta il proprio potere
– la fiamma viva tace, s’illanguidisce, declina : « Sempre più si disfaceva e
spegneva il volto dell’immane creatura » ; come il corpo dell’apparizione
fantastica nella Piccola Apocalisse lo vediamo decrescere, assottigliare,
annullarsi : « livida cartapecora, la sua materia era prossima a sciogliersi in
polvere ». Resta solo un deposito di cenere, nel quale un gatto dispettoso
intinge la punta della coda – ennesimo, ormai irridente veicolo della
scrittura – per tracciare sull’alare « un molle rabesco ». Ancora più disperata
l’ultima clausola :
Né io sapevo allora che cosa questa morte del fuoco volesse
figurare. Meglio lo so, ora che il volto della mia compagna è divenuto
anch’esso un labile volto affocato, un riverbero, in quest’incubo sordo che
il fuoco genera. E, secondo la sua profezia, ella è morta, come noi tutti
faremo, senza aver vissuto35.
Con La spada – racconto e raccolta – si spegne insomma il sogno
d’onnipotenza cullato dal Landolfi giovane e nel pieno delle forze. Il fuoco
implacabile della sua scrittura rutilante – si pensi solo a exploits come La
pietra lunare e Il Mar delle Blatte – ha bruciato i repertori della letteratura
più alta, ha percorso in escursioni rapinose l’intero campo d’elezione. Ma
solo per lasciare a cose fatte, al suo malinconico scialacquatore, un
34 Tommaso Landolfi, Il fuoco [1941], in Id., La spada, cit. ; ora in Id., Opere I, cit.,
pp. 352-5 : 353-4.
35 Ivi, p. 355.
16
paesaggio in cenere : quella stessa « impalpabile polverina grigia » che,
proprio all’inizio del racconto successivo (e ormai amaramente, di tale
scacco, consapevole), il pure allegoricamente metalinguistico Le due zittelle,
pareva « su ogni cosa si fosse deposta36. »
Dopo molti anni, a sentenza ormai abbondantemente passata in
giudicato, Landolfi la rivisita a distanza e in forma ironicamente
desublimata (un po’ alla maniera in cui il Montale successivo a Satura fa il
verso al se stesso d’antan ; o come esplicitamente aveva fatto lui stesso, in
Ombre, facendo le mosse di demistificare La vera storia di Maria
Giuseppa37). Il raccontino, raccolto in Un paniere di chiocciole, s’intitola La
penna. Ancora una volta lo strumento della pretesa o sognata magia si
anima (quasi in una rivisitazione del celebre sonetto di Cavalcanti, Noi siàn
le tristi penne isbigotite…), si ribella al suo possessore, lo tiene in scacco.
Come in tanti altri episodi metalinguistici del Landolfi che ha doppiato il
capo del diario – da La mattinata dello scrittore a La dea cieca o veggente,
nel volume del ’62 In società; da Rotta e disfacimento dell’esercito in
Racconti impossibili del ’66 sino a Parole in agitazione nello stesso Paniere
di chiocciole – il protagonista, un poeta, ci viene presentato alle prese con
una scrittura che, nonché magica e titanica sfida ai Superni, è ormai sempre
più accidioso e fastidito ufficio quotidiano. Debitamente s’esercita sulla
composizione di un sonetto, il nostro poeta, ma dopo poche parole la penna,
proprio come la spada e il fuoco di un tempo, « a un certo punto
s’illanguidiva, lasciando sul foglio una traccia sempre più pallida, fino a
divenir muta, o cieca38. »
Dopo vani tentativi di averla vinta con nuovi strumenti di scrittura, il
poeta si convince che la penna in persona giudichi i suoi incerti effati; si
chiede se oggetto di censura sia « il suo stile troppo pomposo o al contrario
troppo dimesso », oppure la « sincerità dei suoi sentimenti » ; conclude
infine, come ormai è lecito attendersi, che il problema consista nella « scelta
medesima dei suoi soggetti ». Per superare la resistenza dello strumento,
dunque, si orienta su un soggetto che ha motivo di ritenere inattaccabile :
« È o non è l’amore il sentimento più nobile e universale ? ». Sul suo amore,
36 Id., Le due zittelle, Milano, Bompiani, 1946 ; ora in Id., Opere I, cit., pp. 389-433 : 392.
Il testo era compiuto nel 1943 (cfr. Idolina Landolfi, Nota ai testi, ivi, p. 1007).
37 Cfr. Id., La vera storia di Maria Giuseppa, in Id., Ombre, Firenze, Vallecchi, 1954 ; ora
in Id., Opere I, cit., pp. 750-4.
38 Id., La penna [1964], in Id., Un paniere di chiocciole, Firenze, Vallecchi, 1968 ; ora in
Id., Opere II, cit., pp. 922-5 : 922.
17
opina il poeta, « questa ciammengola della mia penna non troverà nulla da
eccepire ». Così comincia intitolando la nuova composizione, senz’altro, Il
mio amore : ed ecco che la penna, stavolta, « segue docilmente il moto della
sua mano, soccorrendolo con una perfetta erogazione d’inchiostro (come la
chiamano) ». Scrive e scrive, senza fatica e senza inceppi, « risoffrendo e
insieme esultando » come nei suoi momenti migliori, il nostro poeta ; impila
sul foglio una « bruna, ordinata falange di righi » e conclude, alato : «Non
d’altri ormai che di me vorrai tu essere suddita e regina ». Soddisfatto,
reclina la testa sullo schienale della sedia. Ma una volta rimesso « il capo
sulle sudate carte », onde « correggere, ritoccare, migliorare il dettato »,
inorridito sul proprio foglio, in luogo delle nobili ed elevate sue profferte,
vede scritto invece :
Vorrei celebrare il mio amore. Ma, gran Dio, che posso dirne ? Se
esso è sincero, esclude le parole o le rende comunque inutili ; se non lo è,
davanti a chi e per utile di chi lo fingerei ?
Lo spettro tentante della « gloria » è parimenti fugato :
Ah, e come godrei di ciò di cui non posso godere ora e non potrò,
insensibile spoglia, godere mai ?
Il problema, in ultimo, è sempre il medesimo :
Nere parole, e buie. Invano io mi sforzo di suscitare in esse
unaluce; invano cerco di penetrarle e di stabilirne una corrispondenza con
una realtà di qualsiasi ordine ; esse non rispondono se non al nulla ; bei
tempi, quando immaginavo per esse rivelata una patria celeste… Talvolta,
in certe annate, le buone nocciole che vengono dai monti son tutte vuote
per via d’un loro tonchio segreto : avido ragazzo, io mi trovavo le mani
piene di gusci, nient’altro che gusci.
Meglio dismettere, in una, il sogno d’amore e quello di gloria
letteraria:
Non so: mio padre mi ha lasciato un po’ di quattrini, la drogheria
qui all’angolo è in vendita… […] Devo farmi coraggio e provvedere
18
subito : o sarà troppo tardi e seguiterò per tutta la vita a baloccarmi con
gusci vuoti39.
Da tempo è svanito il sogno di raggiungere per mezzo delle parole il
cuore segreto delle cose, il nucleo pulsante della vita oltre il suo guscio
sordo ; venuto meno anche, poi, l’auspicato risultato collaterale di
conseguire, per questa via, niente meno che la gloria. Non resta che
accontentarsi del vuoto guscio : di quella vita vera che nelle more di queste
ambasce, come usa, è fuggita. Non resta che inabissarsi nella prosa
dell’esistere40. E alla fine, come aveva profetizzato Il fuoco, uno alla volta e
ordinatamente, come tutti, morremo : beninteso senza aver vissuto.
Proprio l’anno prima che quest’apologo terminale vedesse la luce sul
« Corriere della Sera », il più acuto interprete storico di Landolfi così aveva
sintetizzato l’aporia a suo tempo allegorizzata dallo scrittore, e poi lo iato
che separava quelle prove da quelle, più recenti, in cui l’assunta
consapevolezza dell’impraticabilità di quella strada ne aveva aperta un’altra,
sorprendente. All’altezza precisamente della Spada:
[…] il pericolo di Landolfi […] è ormai un troppo di virtuosismo,
una terribile sicurezza di plasticità stilistica, un gusto, già tutto
autosufficiente, di mimesi verbale41.
Di fronte a questa strada senza uscita, il clown admirable ha trovato
una via di fuga laterale, inopinata, nella modalità della « confessione »
inaugurata nel ’53 dalla BIERE DU PECHEUR (testo col quale non
Landolfi solo ma con lui « un’intiera stagione della nostra civiltà delle
lettere pare acquistare di sé […] una funebre consapevolezza ; e questa
39 A questa metafora di sapore gnostico aveva fatto riferimento anche Il fuoco : « invano
tento, a ogni guizzo a ogni balzo, di raggiungere la mia patria celeste. In metro alterno, la
mia voce dovrebbe promettere agli uomini un paese migliore. Ma così non è, fanciulla, e
simile, infine, alla mia sorte, è quella di chiunque fra voi che viva con me in
dimestichezza. » (Id., Il fuoco, cit., p. 353).
40 L’alternativa secca gloria letteraria / vita ordinaria trova curiosamente lo stesso
emblema in un altro raccontino coevo, La gloria appunto ([1965], in Un paniere di
chiocciole, cit. ; ora in Id., Opere II, cit., pp. 949-52 : 951) : di fronte al monumento di un
« illustre sconosciuto » la donna si chiede chi sia, se un romanziere o un poeta ;
all’obiezione dell’uomo che potrebbe anche essere stato « un critico, un saggista », la donna
replica stizzita « perché non un droghiere ? ».
41 Edoardo Sanguineti, Tommaso Landolfi, in Letteratura italiana. I contemporanei,
Milano, Marzorati, 1963, vol. II, pp. 1527-39 : 1534.
19
consapevolezza è il suo merito, il merito del più recente Landolfi42 ») ; e
cita, Edoardo Sanguineti, i versi del Landolfo VI, al cui inizio peraltro
troviamo sùbito l’attributo decisivo :
In parole infeconde, torve e fosche
Ho sperduto, consunto il corto nervo.
Dove l’atto che incide e che è proficuo
A sé se non ad altri, dove, ancora,
La parola che illumina e che guida ?
No : confuse parole, a quegli stesso,
A quel me stesso che le pronunciava…
[…]
Trarmi alla luce forse non volevo ? –
[…] Lo volevo certo,
Eppure nella luce non credevo !
Ché in ogni mia parola, in ogni gesto
Non compiuto, represso, differito,
Ogni attimo offendevo il Creatore,
[…]
Ho amato veramente qualche cosa ?
Mi sono a qualche cosa almeno appreso ?
Mio Fattore, quale ti vengo innanzi !
[…]
Sì, che non avevo
Speranza, è questo il mio nero peccato ;
Non sapevo sperare, ed ora muoio
Disperato43.
Per commentare : se « una critica affettuosa, di fronte all’ultimo
Landolfi », lo incita a restaurare la vecchia maniera del “prestigioso”
racconto fantastico-surreale (come talora si vede esemplata in un libro,
infatti, alterno quale Ombre, uscito l’anno successivo alla BIERE DU
PECHEUR), « si tratterà, proprio all’opposto, di difendere, nella BIERE, la
forza di confessione con cui Landolfi affronta, fuori di ogni mediazione, il
42 Ivi, p. 1538.
43 Tommaso Landolfi, Landolfo VI di Benevento, Firenze, Vallecchi, 1959 ; poi in Id.,
Opere I, cit., pp. 889-967 : 964-6 (corsivo mio).
20
vero suo motivo estremo, la fine di una letteratura come vita, rivelatesi,
crudamente, una letteratura come morte44. »
Sanguineti ha buon gioco nel capovolgere dialetticamente l’arcinoto
titolo del critico di riferimento del primo tempo di Landolfi, Carlo Bo (al
quale peraltro proprio LA BIERE è dedicata), Letteratura come vita45. In una
col successivo e ancor più radicale intervento L’assenza, la poesia,
pubblicato lo stesso anno e proprio su « Prospettive », la stessa rivista,
dunque, sulla quale qualche numero prima aveva visto la luce La spada46, e
al di là della Verneinung relegata in nota (« Non vorrei che queste parole
fossero intese nella suggestione di un manifesto47 ») il proclamato divorzio
fra poesia ed esistenza sublunare (« Ci votiamo a un deserto di ragioni
fisiche, a diminuire questa parte dimessa e decaduta di noi stessi48 ») in
favore di una sancita sostituzione, in luogo di quest’ultima, della “vita”
autonoma e irriducibile della poesia (romanticamente, certo : « Poesia è
ontologia49 ») era senz’altro il retroterra teorico, se così si può dire, della
generazione cui Landolfi apparteneva (e del resto, nel come detto più
esplicito L’assenza, la poesia Bo non si periterà di proclamare che quella
“vita” davvero assomigliava, intimidatoriamente, al proprio contrario : « La
poesia invece chiede la morte stessa del nostro spirito50 »).
Quello che Sanguineti non poteva sapere era che lo stesso Landolfi,
nel frattempo, era giunto alle sue medesime conclusioni ; e proprio sulle
pagine – editorialmente ancora a venire, ancorché già da anni vergate – del
nuovo “diario” nel quale definitivamente si concretizzava l’opzione per il
polo rappresentato dalla BIERE DU PECHEUR : Rien va. Qui Landolfi
44 Edoardo Sanguineti, Tommaso Landolfi, cit., p. 1538.
45 Cfr. Carlo Bo, Letteratura come vita [1938], in Id., Otto studi, Firenze, Vallecchi, 1939
(e ora, con prefazione di Sergio Pautasso, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2000) ;
infine in Id., Letteratura come vita. Antologia critica, a cura di Sergio Pautasso, prefazione
di Jean Starobinski, con una testimonianza di Giancarlo Vigorelli, Milano, Rizzoli, 1994,
pp. 5-16.
46 Cfr. Id., L’assenza, la poesia [1940], in Id., L’assenza, la poesia, Milano, Edizioni di
Uomo, 1945 (e ora Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002) ; infine in Id., Letteratura
come vita, cit., pp. 29-34.
47 Id., La letteratura come vita, cit., p. 16.
48 Ivi, p. 14.
49 Ivi, p. 13.
50 Id., L’assenza, la poesia, cit., p. 30.
21
decreta infatti, in tono ultimativo ormai : « La letteratura non è vita
(semplice constatazione, del resto, senza giudizio51) ».
Andrea CORTELLESSA
Université Roma Tre
51 Tommaso Landolfi, Rien va, Firenze, Vallecchi, 1963 ; ora in Id., Opere II, cit., pp. 243-
364 : 307 (in data « 1 agosto » [1958]).
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Tommaso Landolfi, "Settimana di sole"Da "Dialogo dei massimi sistemi" (Adelphi, 1996)
(...)
Nel tardo pomeriggio sono sceso in giardino, c'era una luce dorata d'autunno, e qui ho potuto assistere alla lotta di un bruco e d'una fosforina, in mezzo a foglie d'un verde violento. Non proprio una lotta: la fosforina, dolce e delicata, andava per i fatti suoi e vidi benissimo che fu il bruco ad assalirla; come anche capii subito che avrebbe dovuto soccombere. Il bruco era giallastro, grosso come un pollice, molle e setoloso; la fosforina ombrava tremava e faceva per fuggire, e sempre il bruco le era sopra, guardandola in volto con quei suoi occhi senza luce, tanto che la sola sua presenza tolse alla fosforina ogni forza. Così appunto mio padre, ai bei tempi, mi guardava, e mi girava attorno, se distoglievo la testa, per guardarmi in volto di nuovo, e la sua faccia e i suoi occhi m'erano tanto antipatici, che faceva di me ciò che voleva. E così ha ottenuto sottomissione il bruco dalla fosforina di modo che ha potuto presto lasciarne la spoglia vuota di sangue e allontanarsi con un movimento d'esofago: l'esofago di uno che vomita. Son tornato di sopra disgustato, ho spalancata la finestra della mia camera, la finestra sul giardino, e ho sputato, poi ho orinato, sugli alberi, sulle foglie arrossate, contro il sole: il sole dorava lo zampillo d'orina sfrangiandolo di spruzzi prima che si posasse. "O sole", ho gridato, "sole che mi rimproveri e mi tormenti, sole facciamelensa, indora a tuo piacere, come cavolfiori, le cime delle montagne e i crisantemi dei morti: non uscirò e non farò nulla. Sole che non maturi la ragazzina, che spingi i bruchi ad assalire le fosforine, sole, possa tu per sempre affondare friggendo nel mare come un tizzo spento nella lavatura dei piatti!...". Cioè, avrei voluto, gridare. Stiamo zitti per paura di peggio. Infatti, al solo pensare questa tirata, ho visto il sole, che stava per tramontare, guardarmi un momento come mio padre e poi, essendomi io volto verso oriente inorridito, l'ho visto che si spostava da quella parte per guardarmi ancora. Infine, come Dio ha voluto, è tramontato. Ella era partita, il sole era tramontato: la sera era mia.
(...)
22 ott.
Le nuvole sono arrivate più presto di quanto non credessi: stamane svegliandomi ho visto che tutto il cielo era grigio; del sole neppur l'ombra e c'era un'aria densa e immobile, un silenzio ovattato e profondo. Di queste giornate in casa non si cammina, si nuota: nel mare di fuori chi si avventurerebbe? A proposito, son riuscito ad acchiappare due piccoli silenzi, due silenziotti: hanno una peluria soffice e sono un po' più scuri della madre. Dopo tutto non me la sento più col silenzio, li ho lasciati liberi e loro sono corsi in un angolo della cucina. In soffitta ho scavato, ho scavato e sempre niente. Mah!... ormai sono calmo e contento: "nuoto d'autunno cuore in pace" dice il proverbio che ho inventato in questa occasione.
(...)
Nel tardo pomeriggio sono sceso in giardino, c'era una luce dorata d'autunno, e qui ho potuto assistere alla lotta di un bruco e d'una fosforina, in mezzo a foglie d'un verde violento. Non proprio una lotta: la fosforina, dolce e delicata, andava per i fatti suoi e vidi benissimo che fu il bruco ad assalirla; come anche capii subito che avrebbe dovuto soccombere. Il bruco era giallastro, grosso come un pollice, molle e setoloso; la fosforina ombrava tremava e faceva per fuggire, e sempre il bruco le era sopra, guardandola in volto con quei suoi occhi senza luce, tanto che la sola sua presenza tolse alla fosforina ogni forza. Così appunto mio padre, ai bei tempi, mi guardava, e mi girava attorno, se distoglievo la testa, per guardarmi in volto di nuovo, e la sua faccia e i suoi occhi m'erano tanto antipatici, che faceva di me ciò che voleva. E così ha ottenuto sottomissione il bruco dalla fosforina di modo che ha potuto presto lasciarne la spoglia vuota di sangue e allontanarsi con un movimento d'esofago: l'esofago di uno che vomita. Son tornato di sopra disgustato, ho spalancata la finestra della mia camera, la finestra sul giardino, e ho sputato, poi ho orinato, sugli alberi, sulle foglie arrossate, contro il sole: il sole dorava lo zampillo d'orina sfrangiandolo di spruzzi prima che si posasse. "O sole", ho gridato, "sole che mi rimproveri e mi tormenti, sole facciamelensa, indora a tuo piacere, come cavolfiori, le cime delle montagne e i crisantemi dei morti: non uscirò e non farò nulla. Sole che non maturi la ragazzina, che spingi i bruchi ad assalire le fosforine, sole, possa tu per sempre affondare friggendo nel mare come un tizzo spento nella lavatura dei piatti!...". Cioè, avrei voluto, gridare. Stiamo zitti per paura di peggio. Infatti, al solo pensare questa tirata, ho visto il sole, che stava per tramontare, guardarmi un momento come mio padre e poi, essendomi io volto verso oriente inorridito, l'ho visto che si spostava da quella parte per guardarmi ancora. Infine, come Dio ha voluto, è tramontato. Ella era partita, il sole era tramontato: la sera era mia.
(...)
22 ott.
Le nuvole sono arrivate più presto di quanto non credessi: stamane svegliandomi ho visto che tutto il cielo era grigio; del sole neppur l'ombra e c'era un'aria densa e immobile, un silenzio ovattato e profondo. Di queste giornate in casa non si cammina, si nuota: nel mare di fuori chi si avventurerebbe? A proposito, son riuscito ad acchiappare due piccoli silenzi, due silenziotti: hanno una peluria soffice e sono un po' più scuri della madre. Dopo tutto non me la sento più col silenzio, li ho lasciati liberi e loro sono corsi in un angolo della cucina. In soffitta ho scavato, ho scavato e sempre niente. Mah!... ormai sono calmo e contento: "nuoto d'autunno cuore in pace" dice il proverbio che ho inventato in questa occasione.
Un amore del nostro tempo
di Tommaso Landolfi
Un amore del nostro tempo
di Tommaso Landolfi
a cura di Idolina Landolfi
Adelphi, Milano 1993
Conoscendo i precedenti di Landolfi, il lettore che gli sia affezionato saprà perdonargli questo pastiche? (Giacinto Spagnoletti)Un romanzo distante dall'ironia landolfiana, costruito su una trama esilissima e su un linguaggio così iperbolico e artificioso, senza il minimo cenno di divertimento. Anche per questo, forse, Un amore del nostro tempo è stato affossato nella dimenticanza: pubblicato per la prima volta nel 1964, ripreso solo nel 1992 nella raccolta delle opere per la casa editrice Rizzoli, e attualmente è disponibile per le cure amorevoli che Adelphi ha sempre dedicato alle opere di Landolfi. Scarso successo di pubblico, plateale insuccesso critico: anche i landolfiani per eccellenza, quali Spagnoletti, Gramigna, Pedullà e Bo parlano di un' "opera mancata", e non risparmiano giudizi anche molto negativi. Come nota Idolina Landolfi nell'efficace postfazione, un elemento in comune a tutte le recensioni è l'incertezza nel giudicare l'opera e nel collocarla nel panorama dell'autore e della letteratura coeva. Innanzitutto, il tema di base risale alla tragedia greca: trattasi di un amore incestuoso tra fratelli, Anna e Sigismondo. I due, dopo le prime ritrosie, cedono al sentimento e alla passione, conducendo una vita appartata nella casa borghese ereditata dai genitori. Davanti al seppur tiepido rischio di essere scoperti, i protagonisti scelgono di fuggire in un'isola lontana, dove credere il figlio nato dal loro amore, e qui, ormai vecchi, riconsiderano la loro scelta. Una trama scarna, appunto, priva dell'idillio ma anche di qualsivoglia punizione divina per aver oltraggiato le leggi della natura: niente a che fare con la tragedia didascalica greca; niente, d'altra parte, con il più leggero romanzo borghese. La scelta di narrare la vicenda in prima persona secondo il punto di vista di Anna, resetta ulteriormente le considerazioni precedenti: come si colloca l'opera? Quale messaggio ha nascosto Landolfi? Secondo alcuni, si potrebbe forse trattare di unagigantesca parodia del genere sentimentale-amoroso. In quest'ottica, i dialoghi artefatti e oltremodo gonfi denuncerebbero le modalità espressive della società agiata, impegnata a costruire periodi sintatticamente complessi, nascondendo il significato dietro ampollose perifrasi. Lo stesso Sigismondo, in un passo dell'opera, si lamenta della sua loquela e chiede perdono alla sorella più accomodante:"... E così, Anna, nulla mi era dato, compartito... 'Compartito': tolleri queste parole gonfie che per qualche condanna non so evitare?". "Sì le tollero; e perché d'altronde dovresti evitarle se son le tue?... Tollero quasi tutto, di te". (p. 62)Molto emerge da questa citazione: il carattere remissivo di Anna è una costante, sebbene la ragazza, del tutto ingenua all'inizio della vicenda, dimostri una buona capacità di resistere alla passione del fratello. Al tempo stesso, Sigismondo, più sicuro della passione della sorella, chiede continue conferme ad Anna. I dialoghi gonfi, che per qualche condanna non sanno evitare, contraddicono il titolo, unica spia che colloca la vicenda in tempi recenti. Un'atmosfera acronica, in cui la storia non fa nemmeno capolino e il luogo è uno sfocato locus amoenus, porta in "un certo splendido ozio parodistico" (Baldacci). Le molteplici perplessità che suscita l'opera - ne ho citate solo alcune, ma vi assicuro che è pieno di controsensi e di simboli ancora da svelare - richiedono una nuova attenzione critica, nonché un ripensamento da parte dello stesso lettore di Landolfi. Libro enigmatico, a tratti conturbante, a tratti irritante. Gloria M. Ghioni
di Tommaso Landolfi
a cura di Idolina Landolfi
Adelphi, Milano 1993
Conoscendo i precedenti di Landolfi, il lettore che gli sia affezionato saprà perdonargli questo pastiche? (Giacinto Spagnoletti)Un romanzo distante dall'ironia landolfiana, costruito su una trama esilissima e su un linguaggio così iperbolico e artificioso, senza il minimo cenno di divertimento. Anche per questo, forse, Un amore del nostro tempo è stato affossato nella dimenticanza: pubblicato per la prima volta nel 1964, ripreso solo nel 1992 nella raccolta delle opere per la casa editrice Rizzoli, e attualmente è disponibile per le cure amorevoli che Adelphi ha sempre dedicato alle opere di Landolfi. Scarso successo di pubblico, plateale insuccesso critico: anche i landolfiani per eccellenza, quali Spagnoletti, Gramigna, Pedullà e Bo parlano di un' "opera mancata", e non risparmiano giudizi anche molto negativi. Come nota Idolina Landolfi nell'efficace postfazione, un elemento in comune a tutte le recensioni è l'incertezza nel giudicare l'opera e nel collocarla nel panorama dell'autore e della letteratura coeva. Innanzitutto, il tema di base risale alla tragedia greca: trattasi di un amore incestuoso tra fratelli, Anna e Sigismondo. I due, dopo le prime ritrosie, cedono al sentimento e alla passione, conducendo una vita appartata nella casa borghese ereditata dai genitori. Davanti al seppur tiepido rischio di essere scoperti, i protagonisti scelgono di fuggire in un'isola lontana, dove credere il figlio nato dal loro amore, e qui, ormai vecchi, riconsiderano la loro scelta. Una trama scarna, appunto, priva dell'idillio ma anche di qualsivoglia punizione divina per aver oltraggiato le leggi della natura: niente a che fare con la tragedia didascalica greca; niente, d'altra parte, con il più leggero romanzo borghese. La scelta di narrare la vicenda in prima persona secondo il punto di vista di Anna, resetta ulteriormente le considerazioni precedenti: come si colloca l'opera? Quale messaggio ha nascosto Landolfi? Secondo alcuni, si potrebbe forse trattare di unagigantesca parodia del genere sentimentale-amoroso. In quest'ottica, i dialoghi artefatti e oltremodo gonfi denuncerebbero le modalità espressive della società agiata, impegnata a costruire periodi sintatticamente complessi, nascondendo il significato dietro ampollose perifrasi. Lo stesso Sigismondo, in un passo dell'opera, si lamenta della sua loquela e chiede perdono alla sorella più accomodante:"... E così, Anna, nulla mi era dato, compartito... 'Compartito': tolleri queste parole gonfie che per qualche condanna non so evitare?". "Sì le tollero; e perché d'altronde dovresti evitarle se son le tue?... Tollero quasi tutto, di te". (p. 62)Molto emerge da questa citazione: il carattere remissivo di Anna è una costante, sebbene la ragazza, del tutto ingenua all'inizio della vicenda, dimostri una buona capacità di resistere alla passione del fratello. Al tempo stesso, Sigismondo, più sicuro della passione della sorella, chiede continue conferme ad Anna. I dialoghi gonfi, che per qualche condanna non sanno evitare, contraddicono il titolo, unica spia che colloca la vicenda in tempi recenti. Un'atmosfera acronica, in cui la storia non fa nemmeno capolino e il luogo è uno sfocato locus amoenus, porta in "un certo splendido ozio parodistico" (Baldacci). Le molteplici perplessità che suscita l'opera - ne ho citate solo alcune, ma vi assicuro che è pieno di controsensi e di simboli ancora da svelare - richiedono una nuova attenzione critica, nonché un ripensamento da parte dello stesso lettore di Landolfi. Libro enigmatico, a tratti conturbante, a tratti irritante. Gloria M. Ghioni
Principi, filastrocche ed avventure linguistiche: la scrittura per l'infanzia di Tommaso Landolfi.
Il principe infelice e altre storie per bambini
di Tommaso Landolfi
Adelphi, 2004
C. S. Lewis soleva ripetere che non vale la pena di leggere un libro per bambini che non meriti di essere letto anche da adulti. Con questa affermazione cercava di sfatare il cliché di una letteratura per bambini come genere “facile”, il cui compito sia semplicemente quello di trasmettere ai piccoli lettori dei valori costruiti ad hoc per l'infanzia, e farlo nel linguaggio più semplice possibile.La letteratura per bambini e ragazzi è piuttosto un genere in cui si richiede all'autore una peculiare abilità: riuscire ad elaborare un contenuto così universale e limpido da poter essere assimilato anche da lettori senza molte esperienze e letture precedenti; scrivere un testo chiaro e dal facile approccio, ma che lasci intravedere nelle proprie pieghe dei problemi e delle complessità capaci di accompagnare il lettore lungo la propria formazione; in poche parole, si richiede allo scrittore di storie per bambini la capacità di unire ad un compito letterario un compito pedagogico. In questo senso, un paragone con i dialoghi platonici non sarebbe forse troppo azzardato.
Tommaso Landolfi (1908-1979) si è rivelato un maestro in questa difficile arte, coniugando alcuni temi portanti della sua produzione letteraria al gusto della fiaba in un meraviglioso connubio che Adelphi ripropone a circa sessant'anni dalla prima pubblicazione.Landolfi è uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento. Pur sconosciuto al grande pubblico, nonché ingiustamente svalorizzato nelle iniziative editoriali, questo prodigioso scrittore ha riscosso l'ammirazione di personaggi del calibro di Italo Calvino, il quale ha anche curato un'antologia dei suoi scritti, corredata di una introduzione encomiastica.
Il testo in oggetto racchiude due racconti, “Il principe infelice” e “La raganella d'oro”, uniti a tre piccoli dialoghi e tre filastrocche. Si tratta di un ottimo specchio della variegata produzione landolfiana, così attenta al recupero di generi letterari “poveri” come il racconto breve e lo scherzo in versi; inoltre i testi della raccolta, pur pensati per un pubblico di lettori giovanissimi, contengono senz'altro le caratteristiche fondamentali del modo di scrivere dell'autore. Mi riferisco principalmente al virtuosismo linguistico, tratto più celebre dello scrittore laziale, il quale usa servirsi di termini desueti o poco conosciuti della nostra lingua, in questo modo donando alla sua prosa uno stile unico ed allo stesso tempo stimolando nel lettore la ricerca linguistica e l'amore per l'Italiano.Ne “Il principe infelice” l'uso di termini antichi o poco conosciuti è ben bilanciato con la scorrevolezza e la leggibilità della storia: io stesso ho letto il racconto a mia nipote, ed ho notato con allegria che l'attenzione, oltre che sulla trama, tendeva a concentrarsi sulle bislaccherie linguistiche di Landolfi, che riesce ad incuriosire senza mai risultare pedante o inopportuno.I contenuti, ovviamente, non sono da meno: le due storie raccontano l'una dell'amore tra un principe colto ma spento ed una povera fanciulla dai sinceri sentimenti, l'altra dell'avventura del giovane palafreniere Teraponte, il quale per amore della figlia del Re decide di combattere un gigante che minaccia il reame. Le storie trasportano il lettore (o l'ascoltatore) in un fantastico mondo di sogni e di valori edificanti, oscuri pericoli ed avventure che rispondono pienamente alla tradizione fiabesca italiana ed europea. Non anticipo nulla delle vicende della giovane fanciulla, o del prode palafreniere, ma segnalo la perizia con cui Landolfi riesce a nascondere importanti questioni in dettagli che, letti senza attenzione o spirito critico, affascinano semplicemente il lettore per la loro creatività: sullo sfondo dei racconti si intravedono la questione del rapporto tra scienza, felicità e libertà, il problema della morale e della provvidenza, una critica non sempre velata alla superficialità degli uomini nel giudicare gli altri e se stessi, nonché un sottile ma continuo accenno all'imperfezione della realtà, anche quando immaginata e trasfusa su carta dalla penna di un genio come lo scrittore di Pico Farnese.
E' confermato così il detto di Lewis: i racconti contenuti in questa raccolta affascineranno i bambini come gli adulti, mostrando quanto grande sia la differenza tra “facile” e “semplice” e come sia possibile racchiudere grandi contenuti in piccoli temi.
Alessandro De Cesaris
LA PASSEGGIATA
La passeggiata (di Tommaso Landolfi).La passeggiata fa parte dei Racconti impossibili, che Tommaso Landolfi pubblicò nel 1965. Vi ho aggiunto il commento che ne fece Italo Calvino nella postfazione all'antologia di Landolfi che curò per la BUR nel 1989. Ma una sorta di autocommento ne aveva fatto landolfi stesso nella Conferenza personalfilologicodrammatica che inserì nella raccolta Le labrene. (S.L.L.)
-----La passeggiataLonchiteLa mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima ... Sono un murcido, veh, son perfino un po' gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l'effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina. In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d'esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi
magolati, non si va neppure a spasso!.
Basta. Uscii dunque, e m'imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la
loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene.
- Dove le porti?
- Agli aratori laggiù: vede, dov'è quell'essedo. C'è il crovello per loro.
- E il mivolo, o il gobbello?
- Bah, noialtri si fa senza.
E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai.
Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola.
Che dirvi? quando mi trovai tra quei miei piccoli amici senza parola, lo gnafalio, il telefio, il mezereo, e tutta quella gualda, mi si aprì il cuore. Procedetti, e principiarono i camepizi, le bugole, gli ilatri, i matalli, gli zizzifi anche, benché, a vero dire, guasti alquanto dall'exoasco o dall'oidio; e zighene e arginnidi (pafie o latonie) e le piccole depressarie passavano di luogo in luogo; e, accanto o sopra me, trochili e peppole, parizzole e castorchie, e l'aria era tutta uno zezzio, un zinzilulio. E c'era poi il popolo minore: le smicre, i lissi, l'empidi medesime, e chi potrebbe noverarlo tutto!
Alla fodina ormai l'acqua da tant'anni stagnava: rabeschi di gigartina, fumoso trasparire di carta, e zannichellia e scirpo; giungendo io, tre farciglioni fuggirono, e balenò un cimandorlo. Ma era destino che neppur qui fossi lasciato tranquillo. Sentii frusciar la frasca alle mie spalle; mi volsi: il gignore del ferrazzuolo che sbiluciava.
- O tu? Beh, che si fa di bello al distendino?
- Uhm, poco di bello: il padrone s'è dato piuttosto alla moatra.
Anche questo! Io non sono un lerniuccio, ma via.
- Già, - riprese, - da noi ora è troppo se si fa fernette; mancano perfin le
ingordine.
- Bravo davvero il tuo padrone!
- Mah, si sa bene, quando la s'infaona.
- E qui ora che ci fai?
- Per via dei leucischi. Ci si buttaron noi anni addietro.
- Ah, ecco; e come.
- Coi prostomi e colle molleche, - rispose pronto.
Non era un caramogio, come non era uno sbiobbo, s'ha a dire. Ma io lo lasciai lì e mi spinsi innanzi per la lonchite. Sapevo che da un certo punto si scopriva una bella vista.
Ed eccolo laggiù, il gran padre; e perfino si scorgevano brillare i froncoli quando prendevano il sole. E v'era una checchia venuta di lontano, con tanto di bonette all'ipartia. Quanti pensieri, quante fantasie m'invasero allora! Usava più il chenisco? Oh tempi d'una volta: "Inguala!", e via per iciche,
per mocaiardi, per cheripi, per lanfe. E qualcuno moriva in terra straniera, ma la chernite ne riportava intatte le spoglie al paese natale: o aveva anch'essa ormai perso la sua virtù?
Ah, s'era fatto tardi: sull'afaca e sulla ghingola compariva la trochilia, sull'atropa l'atropo, sull'agrostide l'agrostide; dove pur mò sfolgorio di sole, non era ormai che un ghimè; si diffondeva odor di nectria; s'udiva un ghiattire lontano. E così passo passo me ne tornai.
- Or mentre io fendo i sisimbri e finché sia giunto a casa, dimmi o amico lettore: son io poco un ghiargione? Tu non rispondi, e con ciò assenti; e non hai torto. Pure, non ne darei un ghieu di chi non sapesse empirsi gli occhi e l'anima come io feci quel giorno, o, sapendo, volesse tenersi ogni
cosa per sé solo.
Ma ecco giunsi: la mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava, se non quella stessa, una bozzima.
-----Il commento di Italo Calvino
Si prenda un testo emblematico come La passeggiata. Le frasi sono costruite a base di sostantivi e verbi incomprensibili, come uno di quegli esperimenti di finta significanza di un lessico inventato, tipo il Lewis Carroll delJabberwocky. Fosse così, sarebbe un divertimento non nuovo, e di poco sugo. Invece, basta che il lettore si prenda la briga di consultare un buon vecchio dizionario della lingua italiana (Landolfi usava lo Zingarelli) e scoprirà che le parole ci sono tutte. La passeggiata è un testo con un senso compiuto: solo che l’autore si è posto come regola d’usare il massimo possibile di vocaboli caduti in desuetudine. (Egli stesso, in un volume successivo, non seppe resistere alla tentazione di svelare il segreto, per sbeffeggiare quelli che non ci erano arrivati). Dove si vede che il “fumista” Landolfi è poi l’ “antifumista” per eccellenza. ridà significato (il significato) alle voci che l’avevano perduto (e invece di lasciare il volgo illetterato nell’errore, si prende la briga di spiegare pazientemente cos’ha fatto).
-----La passeggiataLonchiteLa mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima ... Sono un murcido, veh, son perfino un po' gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l'effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina. In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d'esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi
magolati, non si va neppure a spasso!.
Basta. Uscii dunque, e m'imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la
loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene.
- Dove le porti?
- Agli aratori laggiù: vede, dov'è quell'essedo. C'è il crovello per loro.
- E il mivolo, o il gobbello?
- Bah, noialtri si fa senza.
E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai.
Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola.
Che dirvi? quando mi trovai tra quei miei piccoli amici senza parola, lo gnafalio, il telefio, il mezereo, e tutta quella gualda, mi si aprì il cuore. Procedetti, e principiarono i camepizi, le bugole, gli ilatri, i matalli, gli zizzifi anche, benché, a vero dire, guasti alquanto dall'exoasco o dall'oidio; e zighene e arginnidi (pafie o latonie) e le piccole depressarie passavano di luogo in luogo; e, accanto o sopra me, trochili e peppole, parizzole e castorchie, e l'aria era tutta uno zezzio, un zinzilulio. E c'era poi il popolo minore: le smicre, i lissi, l'empidi medesime, e chi potrebbe noverarlo tutto!
Alla fodina ormai l'acqua da tant'anni stagnava: rabeschi di gigartina, fumoso trasparire di carta, e zannichellia e scirpo; giungendo io, tre farciglioni fuggirono, e balenò un cimandorlo. Ma era destino che neppur qui fossi lasciato tranquillo. Sentii frusciar la frasca alle mie spalle; mi volsi: il gignore del ferrazzuolo che sbiluciava.
- O tu? Beh, che si fa di bello al distendino?
- Uhm, poco di bello: il padrone s'è dato piuttosto alla moatra.
Anche questo! Io non sono un lerniuccio, ma via.
- Già, - riprese, - da noi ora è troppo se si fa fernette; mancano perfin le
ingordine.
- Bravo davvero il tuo padrone!
- Mah, si sa bene, quando la s'infaona.
- E qui ora che ci fai?
- Per via dei leucischi. Ci si buttaron noi anni addietro.
- Ah, ecco; e come.
- Coi prostomi e colle molleche, - rispose pronto.
Non era un caramogio, come non era uno sbiobbo, s'ha a dire. Ma io lo lasciai lì e mi spinsi innanzi per la lonchite. Sapevo che da un certo punto si scopriva una bella vista.
Ed eccolo laggiù, il gran padre; e perfino si scorgevano brillare i froncoli quando prendevano il sole. E v'era una checchia venuta di lontano, con tanto di bonette all'ipartia. Quanti pensieri, quante fantasie m'invasero allora! Usava più il chenisco? Oh tempi d'una volta: "Inguala!", e via per iciche,
per mocaiardi, per cheripi, per lanfe. E qualcuno moriva in terra straniera, ma la chernite ne riportava intatte le spoglie al paese natale: o aveva anch'essa ormai perso la sua virtù?
Ah, s'era fatto tardi: sull'afaca e sulla ghingola compariva la trochilia, sull'atropa l'atropo, sull'agrostide l'agrostide; dove pur mò sfolgorio di sole, non era ormai che un ghimè; si diffondeva odor di nectria; s'udiva un ghiattire lontano. E così passo passo me ne tornai.
- Or mentre io fendo i sisimbri e finché sia giunto a casa, dimmi o amico lettore: son io poco un ghiargione? Tu non rispondi, e con ciò assenti; e non hai torto. Pure, non ne darei un ghieu di chi non sapesse empirsi gli occhi e l'anima come io feci quel giorno, o, sapendo, volesse tenersi ogni
cosa per sé solo.
Ma ecco giunsi: la mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava, se non quella stessa, una bozzima.
-----Il commento di Italo Calvino
Si prenda un testo emblematico come La passeggiata. Le frasi sono costruite a base di sostantivi e verbi incomprensibili, come uno di quegli esperimenti di finta significanza di un lessico inventato, tipo il Lewis Carroll delJabberwocky. Fosse così, sarebbe un divertimento non nuovo, e di poco sugo. Invece, basta che il lettore si prenda la briga di consultare un buon vecchio dizionario della lingua italiana (Landolfi usava lo Zingarelli) e scoprirà che le parole ci sono tutte. La passeggiata è un testo con un senso compiuto: solo che l’autore si è posto come regola d’usare il massimo possibile di vocaboli caduti in desuetudine. (Egli stesso, in un volume successivo, non seppe resistere alla tentazione di svelare il segreto, per sbeffeggiare quelli che non ci erano arrivati). Dove si vede che il “fumista” Landolfi è poi l’ “antifumista” per eccellenza. ridà significato (il significato) alle voci che l’avevano perduto (e invece di lasciare il volgo illetterato nell’errore, si prende la briga di spiegare pazientemente cos’ha fatto).
(Tommaso Landolfi, Nitta, in Italia magica. Racconti surreali novecenteschi, Einaudi 1988)
«Ma non mi sentii felice. Era una notte avvizzita. Il nero che copriva confusamente il cielo era pieno di strappi ove tremava qualche stella piccola, da quel nero colava per l’aria un impuro grigiore. Andando, non sentivo dormire la terra, come nelle notti vere. Anche l’aria dei prati respirava a stento.»
Tommaso Landolfi Gogol’ a Roma
Biblioteca Adelphi
Basta leggere che i versi giovanili di Rimbaud sono minati da «negligenza e goffaggine»; che per penetrare la grandezza di Tolstoj bisogna procedere oltre «quella cocciutaggine nel voler salvare la propria anima e se ne avanza l’altrui»; che l’Innominabile di Beckett, se può sembrare eccezionale ai profani, rischia di far «sorridere familiarmente lo psichiatra»; bastano insomma queste poche sequenze di apparente irriverenza blasfema per capire che non siamo di fronte a un critico di routine o a un cauto professore. Ci troviamo, infatti, in quella particolare regione della geografia letteraria composta dagli articoli di Tommaso Landolfi: quella regione, cioè, in cui lo scrittore più elusivo e idiosincratico del nostro Novecento rivela l’altra faccia del proprio understatement – nella radicalità tipica di chi si ostina a credere, dietro la maschera dell’ironia, «che la letteratura sia una cosa seria».È in nome di una acuta tensione conoscitiva e non solo per puro spirito di provocazione che questi veri microsaggi procedono spesso contromano rispetto alle quiete certezze della vulgata. Ma Landolfi è illuminante anche laddove la sua analisi non produca ribaltamenti eversivi: come nei casi di Van Gogh, di Proust o del Gogol’ a Roma che dà il titolo alla raccolta, «perenne forestiero» la cui estraneità di viaggiatore allude a una più vasta estraneità esistenziale. O come quando si concede fulminei scarti dai massimi sistemi – regalandoci così riflessioni spregiudicate e antiaccademiche sulla filologia di un’edizione, sulla traduzione, sui limiti di ogni teoria della letteratura – e aperture a temi extraletterari quali la metafisica della roulette e il caos deterministico, la civiltà cibernetica e l’intelligenza degli animali.Non siamo del parere che tutto sia ammissibile in letteratura, e che questa possa essere il campo dei più capotici esperimenti; al contrario, ci sembra che alcune cose siano alla letteratura peculiari quanto necessarie, per non dir altro l’espressione, e non già appena (seppure) l’esigenza di essa. La letteratura, per esempio, non può avere la funzione di acquaio delle angosce, vere o false; le quali se mai (persin ci vergognamo di doversi riferire a una nozione tanto elementare) hanno da essere perfettamente dominate prima di passare sulla pagina. E, per dirla in breve, noi ci ostiniamo a credere, magari a ritroso degli anni e dei fati, che la letteratura sia una cosa seria».Gogol’ a Roma raduna testi usciti sul «Mondo» fra il novembre 1953 e il marzo 1958.