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COPERTINE LIBRI ORIGINALI
Tommaso Landolfi La biere du pecheur
A cura di Idolina Landolfi
Biblioteca Adelphi
Forse mai come in questo libro del 1953 Landolfi si è azzardato a parlare di se stesso. E naturalmente non poteva farlo che nel modo più paradossale, alternando e mescolando la confessione da romanzo russo, la provocazione e la mistificazione. Il risultato è il magistrale ritratto di un personaggio pronto a tutto «pur di non vivere», e disposto a trovare fugaci compromessi per attraversare le lande della noia solo se aiutato dalle complici potenze delle donne e del gioco. Potenze soccorrevoli che presto si riveleranno persecutorie e riattizzeranno il desiderio di una perenne fuga. Al tempo stesso lacerante e furiosamente comico, LA BIERE DU PECHEUR ci mostra Landolfi direttamente alle prese con quella cosa «preoccupante, faticosa, minacciosa» che viene chiamata «realtà».
LANDOLFI TOMMASOLA BIÈRE DU PÉCHEURfranchiChe succede a Landolfi dopo “Racconto d’autunno” e “Cancroregina”?
È il 1953 quando per i tipi di Vallecchi viene pubblicato “La bière du pécheur”: prepotente narrazione in prima persona – alternata a una poco credibile e presto e più volte smascherata terza, con tanto di reiterata irruzione sulla scena del narratore ad assumersi la paternità del protagonista – d’un malessere esistenziale complesso e completo. Non manca niente: si indaga sulla solitudine, sull’isolamento, sui contrastati rapporti con il gentil sesso, perfino sulla tendenza a voler descrivere tutto con eccessivo puntiglio. Landolfi si guarda dentro e cerca di trovare un senso alla sua epica passione per il gioco, sbandierando dolorose sconfitte nei casinò e ammettendo di non essere in grado di resistere alla tentazione di rischiare ancora. Trova qualcosa di sessuale, nel gioco.
Dimenticate quindi il magnifico Landolfi “romantico”, quello che lasciava andare a briglia sciolta l’immaginazione, la fantasia e le reminiscenze letterarie; fate finta che non sia mai esistito lo stravagante artista che trasfigurava il suo vissuto integrando metamorfosi, creature mannare, piattole parlanti e vermi seducenti, perché si sgretola qui, proponendo una narrativa urgente e necessaria, scrivendo per quel bisogno di consolazione che più volte da queste parti abbiamo indagato. Ridicolizzandosi per le pessime vendite dei suoi ultimi libri, aggrappandosi nell’introduzione alle parole d’un critico letterario, Carlo Bo, che l’aveva fatto sentire miracolosamente inteso e compreso, ribadendo infine più volte la sua percezione di dissociazione e estraniazione dalla realtà.
Verrebbe da dire – leggendo questo romanzo dal titolo calembour (significa sia “la bara del peccatore” che “la birra del pescatore”, divertissement autoreferenziale dell’artista fondato sul ricordo d’una triste passeggiata per Parigi, dove il diletto massimo era invertire le parole delle insegne) – che Landolfi abbia, a 45 anni, trovato la forza di mettere a fuoco “la realtà”; senza nessuna letterarietà diversa dalla lingua adottata, senza trame e senza personaggi che non siano funzionali; sono diventati persone, hanno perduto quel folle smalto che sino a questo punto li avevano caratterizzati.
Landolfi sente di vivere in uno “stato di insufficienza”: “non ho più forza né ali, e così scrivo questa specie di diario”. Scrivendo si finge lettore – è più forte di lui – e cerca di agevolarci la lettura di questo suo diario, integrando informazioni altrimenti ellittiche nei diari veri. Combatte, con aristocratico sdegno, lo “schifoso mostro detto borghesia”: ammette, al contempo, tutti i propri, tanti fallimenti. D’uno di questi in particolare – quello sentimentale – s’affanna a trovare rimedio e stabilità; se vogliamo trovare un nesso, una chiave di volta di questo romanzo, allora possiamo riconoscerla nelle tre figurette femminili che vengono descritte. Quella che appariva, sin dalle prime battute, più debole e priva di personalità è proprio la prescelta – e sembra prescelta senza una ragione apparente, al termine d’un viaggio che ha visto protagoniste altre due donne, irritate regolarmente dal distacco, dalle pretese e dall’insensibilità d’un uomo che – ripetono – non ha altro che intelligenza. L’unica ragione per cui viene chiamata, al termine del libro, futura moglie è che (verità o menzogna, l’autore se ne balocca un po’) le altre due avrebbero cercato di ucciderlo nei giorni precedenti.
“La biere du pecheur” s’apre e si chiude con un’invocazione a Dio. Non episodicamente si ritrovano richiami a quella che un tempo ci piaceva chiamare Arcadia, patria perduta e sognata, origine e meta della minoranza assoluta degli artisti – quell’eden di comprensione e armonia che tutti i letterati si trovano a invocare quando s’accorgono che l’integrazione nella società è impossibile, e che la loro permanenza in vita – in condizioni decorose – si fonda su compromessi improbabili e su elementi troppo aleatori per poter essere dominati e controllati. E intanto le nevrosi e le sofferenze crescono a dismisura, e così anche prendere un pullman per viaggiare diventa un’impresa eroica; la solitudine ammazza e il distacco dalla realtà aumenta, insostenibile, e tutto quel che rimane è provare a nominarlo e a cercarne le ragioni, le cause, il senso.
Montale – già sappiamo fosse amico e ammiratore di Landolfi – scrisse che questo libro “segue il massimo della partecipazione umana raggiunta da Landolfi nella sua arte”; probabile, e il prezzo pagato sembra essere stato carissimo. Domandarsi perché si soffre, e cercare soluzione e rimedio – trovando un’oasi di pace in una donna che neppure si ama, negli intervalli bruciando fortune al gioco, senza più nessuna fiducia nella propria scrittura. Questo è quanto.
Landolfi cerca, scrivendo, di “sbirciare il fondo di sé”: sbirciare almeno, a questo s’arriva; e intanto si guardano le donne che vogliono guarirti, con la freddezza d’un antropologo impegnato in una osservazione partecipante. Sono “oggetti necessari e non eletti”, e dovrebbero rinunciare a tutto pur di essere sue, consegnandosi come schiave ai suoi desideri e alla sua volubilità: notevole in questo senso la dichiarazione di Ginevra (p. 65 dell’edizione Longanesi, 1971). Sono “ignoranti” come tutte le “laureate in Lettere”: quanto fosse vero e sentito questo sdegnoso distacco e questa livida acredine non si riesce a percepire. Tuttavia Landolfi aiuta a capire questo suo “stato di insufficienza” quando scrive: “Dico che sempre io mi son voltolato e rivoltolato nella vita come un ammalato smanioso nel suo letto; anche mi somiglio a quelle farfalle notturne sorprese dalla luce o dall’agonia che rimangono a sbattere disperatamente le ali sui nostri pavimenti. Donde dunque, se questo è il mio stato naturale, la particolare e totale mancanza di forze, il vigile spavento?”
E così avanti, a scavare nella propria sofferenza, giudici spietati della propria inattività e della propria miseria, vagabondando per un’antica casa della piccola aristocrazia che da un momento all’altro troveranno fatiscente – come la vita dell’ultimo rampollo, il letterato, che confonde l’emozione di perdere un patrimonio alla roulette con la gioia d’amare e d’essere amato da una donna.
Landolfi non trova consolazione, ma crede in un Dio che lo attenderà al termine di tutto; nel mezzo del cammin della sua vita ha compreso che niente ha senso, e niente sconfigge la solitudine e la miseria dell’esistenza di chi vive di parole.
A latere, segnalo che qui viene nominata direttamente un'opera letteraria d'un contemporaneo che Landolfi apprezzava: Malaparte, autore de "La pelle". Sino a questo momento, nella sua narrativa, non apparivano saluti e omaggi ai contemporanei diversi dal sorriso amicale.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “La bière du pécheur”, Longanesi, Milano, 1971.
Prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1953. Quindi, l’edizione esaminata, Longanesi, Milano, 1971; Rizzoli, Milano, 1989; Adelphi, Milano, 1999.
Biblioteca Adelphi
Forse mai come in questo libro del 1953 Landolfi si è azzardato a parlare di se stesso. E naturalmente non poteva farlo che nel modo più paradossale, alternando e mescolando la confessione da romanzo russo, la provocazione e la mistificazione. Il risultato è il magistrale ritratto di un personaggio pronto a tutto «pur di non vivere», e disposto a trovare fugaci compromessi per attraversare le lande della noia solo se aiutato dalle complici potenze delle donne e del gioco. Potenze soccorrevoli che presto si riveleranno persecutorie e riattizzeranno il desiderio di una perenne fuga. Al tempo stesso lacerante e furiosamente comico, LA BIERE DU PECHEUR ci mostra Landolfi direttamente alle prese con quella cosa «preoccupante, faticosa, minacciosa» che viene chiamata «realtà».
LANDOLFI TOMMASOLA BIÈRE DU PÉCHEURfranchiChe succede a Landolfi dopo “Racconto d’autunno” e “Cancroregina”?
È il 1953 quando per i tipi di Vallecchi viene pubblicato “La bière du pécheur”: prepotente narrazione in prima persona – alternata a una poco credibile e presto e più volte smascherata terza, con tanto di reiterata irruzione sulla scena del narratore ad assumersi la paternità del protagonista – d’un malessere esistenziale complesso e completo. Non manca niente: si indaga sulla solitudine, sull’isolamento, sui contrastati rapporti con il gentil sesso, perfino sulla tendenza a voler descrivere tutto con eccessivo puntiglio. Landolfi si guarda dentro e cerca di trovare un senso alla sua epica passione per il gioco, sbandierando dolorose sconfitte nei casinò e ammettendo di non essere in grado di resistere alla tentazione di rischiare ancora. Trova qualcosa di sessuale, nel gioco.
Dimenticate quindi il magnifico Landolfi “romantico”, quello che lasciava andare a briglia sciolta l’immaginazione, la fantasia e le reminiscenze letterarie; fate finta che non sia mai esistito lo stravagante artista che trasfigurava il suo vissuto integrando metamorfosi, creature mannare, piattole parlanti e vermi seducenti, perché si sgretola qui, proponendo una narrativa urgente e necessaria, scrivendo per quel bisogno di consolazione che più volte da queste parti abbiamo indagato. Ridicolizzandosi per le pessime vendite dei suoi ultimi libri, aggrappandosi nell’introduzione alle parole d’un critico letterario, Carlo Bo, che l’aveva fatto sentire miracolosamente inteso e compreso, ribadendo infine più volte la sua percezione di dissociazione e estraniazione dalla realtà.
Verrebbe da dire – leggendo questo romanzo dal titolo calembour (significa sia “la bara del peccatore” che “la birra del pescatore”, divertissement autoreferenziale dell’artista fondato sul ricordo d’una triste passeggiata per Parigi, dove il diletto massimo era invertire le parole delle insegne) – che Landolfi abbia, a 45 anni, trovato la forza di mettere a fuoco “la realtà”; senza nessuna letterarietà diversa dalla lingua adottata, senza trame e senza personaggi che non siano funzionali; sono diventati persone, hanno perduto quel folle smalto che sino a questo punto li avevano caratterizzati.
Landolfi sente di vivere in uno “stato di insufficienza”: “non ho più forza né ali, e così scrivo questa specie di diario”. Scrivendo si finge lettore – è più forte di lui – e cerca di agevolarci la lettura di questo suo diario, integrando informazioni altrimenti ellittiche nei diari veri. Combatte, con aristocratico sdegno, lo “schifoso mostro detto borghesia”: ammette, al contempo, tutti i propri, tanti fallimenti. D’uno di questi in particolare – quello sentimentale – s’affanna a trovare rimedio e stabilità; se vogliamo trovare un nesso, una chiave di volta di questo romanzo, allora possiamo riconoscerla nelle tre figurette femminili che vengono descritte. Quella che appariva, sin dalle prime battute, più debole e priva di personalità è proprio la prescelta – e sembra prescelta senza una ragione apparente, al termine d’un viaggio che ha visto protagoniste altre due donne, irritate regolarmente dal distacco, dalle pretese e dall’insensibilità d’un uomo che – ripetono – non ha altro che intelligenza. L’unica ragione per cui viene chiamata, al termine del libro, futura moglie è che (verità o menzogna, l’autore se ne balocca un po’) le altre due avrebbero cercato di ucciderlo nei giorni precedenti.
“La biere du pecheur” s’apre e si chiude con un’invocazione a Dio. Non episodicamente si ritrovano richiami a quella che un tempo ci piaceva chiamare Arcadia, patria perduta e sognata, origine e meta della minoranza assoluta degli artisti – quell’eden di comprensione e armonia che tutti i letterati si trovano a invocare quando s’accorgono che l’integrazione nella società è impossibile, e che la loro permanenza in vita – in condizioni decorose – si fonda su compromessi improbabili e su elementi troppo aleatori per poter essere dominati e controllati. E intanto le nevrosi e le sofferenze crescono a dismisura, e così anche prendere un pullman per viaggiare diventa un’impresa eroica; la solitudine ammazza e il distacco dalla realtà aumenta, insostenibile, e tutto quel che rimane è provare a nominarlo e a cercarne le ragioni, le cause, il senso.
Montale – già sappiamo fosse amico e ammiratore di Landolfi – scrisse che questo libro “segue il massimo della partecipazione umana raggiunta da Landolfi nella sua arte”; probabile, e il prezzo pagato sembra essere stato carissimo. Domandarsi perché si soffre, e cercare soluzione e rimedio – trovando un’oasi di pace in una donna che neppure si ama, negli intervalli bruciando fortune al gioco, senza più nessuna fiducia nella propria scrittura. Questo è quanto.
Landolfi cerca, scrivendo, di “sbirciare il fondo di sé”: sbirciare almeno, a questo s’arriva; e intanto si guardano le donne che vogliono guarirti, con la freddezza d’un antropologo impegnato in una osservazione partecipante. Sono “oggetti necessari e non eletti”, e dovrebbero rinunciare a tutto pur di essere sue, consegnandosi come schiave ai suoi desideri e alla sua volubilità: notevole in questo senso la dichiarazione di Ginevra (p. 65 dell’edizione Longanesi, 1971). Sono “ignoranti” come tutte le “laureate in Lettere”: quanto fosse vero e sentito questo sdegnoso distacco e questa livida acredine non si riesce a percepire. Tuttavia Landolfi aiuta a capire questo suo “stato di insufficienza” quando scrive: “Dico che sempre io mi son voltolato e rivoltolato nella vita come un ammalato smanioso nel suo letto; anche mi somiglio a quelle farfalle notturne sorprese dalla luce o dall’agonia che rimangono a sbattere disperatamente le ali sui nostri pavimenti. Donde dunque, se questo è il mio stato naturale, la particolare e totale mancanza di forze, il vigile spavento?”
E così avanti, a scavare nella propria sofferenza, giudici spietati della propria inattività e della propria miseria, vagabondando per un’antica casa della piccola aristocrazia che da un momento all’altro troveranno fatiscente – come la vita dell’ultimo rampollo, il letterato, che confonde l’emozione di perdere un patrimonio alla roulette con la gioia d’amare e d’essere amato da una donna.
Landolfi non trova consolazione, ma crede in un Dio che lo attenderà al termine di tutto; nel mezzo del cammin della sua vita ha compreso che niente ha senso, e niente sconfigge la solitudine e la miseria dell’esistenza di chi vive di parole.
A latere, segnalo che qui viene nominata direttamente un'opera letteraria d'un contemporaneo che Landolfi apprezzava: Malaparte, autore de "La pelle". Sino a questo momento, nella sua narrativa, non apparivano saluti e omaggi ai contemporanei diversi dal sorriso amicale.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “La bière du pécheur”, Longanesi, Milano, 1971.
Prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1953. Quindi, l’edizione esaminata, Longanesi, Milano, 1971; Rizzoli, Milano, 1989; Adelphi, Milano, 1999.
Tommaso Landolfi Il Mar delle Blatte
Piccola Biblioteca Adelphi
Mille libri di avventure ci hanno narrato del giovane eroe che arditamente parte, forte soltanto della propria fede in un alto destino, alla conquista di terre e amori impervi e lontani. Ma immaginiamo che l’eroe sia un qualunque ragazzo turbato da vendicative insicurezze, guardiamolo trascinare verso un mare nero perché interamente coperto di blatte un padre reso imbelle e una fanciulla sadicamente abbandonata a un fantasioso quanto riprovevole oltraggio – ed eccoci penetrati, attraverso il racconto che dà titolo al volume, nell’universo surreale e letterariamente blasfemo di cui Landolfi regge con accanita destrezza le fila, sino a quel memorabile tour de force che è la descrizione dettagliata degli amori fra un minuscolo verme e l’eroina Lucrezia. È un gioco lieve e perverso, che si rinnova, ogni volta inventando nuovi percorsi e nuovi bersagli, in tutti i testi di questa raccolta di racconti, specialmente celebrata fra quelle del primo Landolfi. Vi incontriamo molte delle vene tipiche dell’autore: dalla vocazione parodica che si esercita, non senza divertimento, sul terreno dell’orrore alla lettura in chiave paradossale dell’ottusa frenesia di chi vive in situazioni soffocanti e chiuse; e, ancora, il gusto dell’intelligenza pura che si scatena in ironiche acrobazie concettuali e stilistiche. Il Mar delle Blatte apparve per la prima volta nel 1939.
LANDOLFI TOMMASO
IL MAR DELLE BLATTE
franchi
Lupi mannari rapiscono la luna. Una cagna si congeda dai suoi eredi rivendicando d’aver bagnato del suo dorato liquido una statua bianchissima, e d’averne sempre avuto nostalgia. Un verme parlante sfida un ragazzo e conquista l’amore della donna contesa, nel bel mezzo del Mar delle Blatte. Un astronomo dichiara che dio è un metodo. Si direbbe un delirio: ma in ambito letterario, quando il delirio s’accompagna a una suggestiva lingua letteraria, si preferisce virare sulla più tenue categoria del divertissement o della stravaganza. Ecco, “Il mar delle blatte e altre storie”, raccolta di racconti originariamente edita nel 1939, racconta storie come queste, che tendenzialmente strappano un sorriso e sembrano rifiutare in toto – gradevole scelta, ma non ne riesco a valutare la “consapevolezza estetica” – stilemi e dettami del realismo.
Se non avessimo letto, in Carlo Dossi, di come innamorarsi d’una regina di cuori o di un albero, e se non avessimo affrontato le fumose invenzioni di Palazzeschi, potremmo giudicare queste trame – queste “deviazioni dalla logica” – come del tutto inedite tra Ottocento e primo Novecento italiano; salutando magari certi spunti come viatico alla lettura del Calvino più ispirato, quello fantastico; tuttavia la responsabilità – e le influenze – di certa Scapigliatura non mancano di richiamarci all’ordine; assieme alla ovvia reminiscenza della plurisecolare tradizione degli animali parlanti, cara in primis alle favole, a partire, naturalmente, dalla classicità (Esopo, Fedro; ma anche, in vicenda metamorfica e quindi ragionevolmente cara a Landolfi, Luciano di Samosata. Vado a memoria e per grandi linee e qualcosa mi sfugge). Stabilito quindi che di delirante divertissement si tratta, non estraneo a grandi tradizioni letterarie lontane o quasi coeve al testo – sicuramente con ironia e aggressività caustiche, e tutte contemporanee – passiamo a dire che è un gran bel delirio; che Landolfi sembra divertirsi molto davvero, da erudito e da letterato puro, a smontare e rimontare la linearità e la logica; gioca per paradossi, per eccessi, per allucinazioni; non di rado non è nemmeno possibile ricostruire la realtà originaria, il “nucleo realistico” della storia, quell’argilla plasmata sino a diventare traduzione e invenzione letteraria. Questo discorso non vale, naturalmente, per la satira della scienza, il riuscitissimo “L’astronomia esposta al popolo”: erosione del dogmatismo e dell’assolutismo di certi uomini di scienza, ridicolizzati con perfetta adesione a certo entusiastico e megalomane codice linguistico divulgativo (encomiabile la clausola); nemmeno vale per “Il sogno dell’impiegato”, peraltro piuttosto fiacco; vale per buona parte dei racconti (7+1, composto da 5 dialoghi), dall’allucinato “Racconto del Lupo Mannaro” (i mannari apparivano già nel precedente “La pietra lunare”) – dove la luna finisce, rapita, in un camino, sfugge piena di fuliggine e per tre mesi cessa di brillare – all’eponimo “Mar delle Blatte”. In questo testo, discretamente simile all’ispirata logorrea d’un compagno di bevute in gran forma, il figlio perdigiorno d’un avvocato esce dal barbiere e va incontro al padre, gridando “guarda che taglio”; allude ovviamente al taglio che ha sul braccio, da cui fuoriescono pallini da caccia, chicchi di riso e un verme parlante, subito maledetto dal giovane. Questo verme è il suo rivale: ce ne accorgiamo una volta che padre e figlio – assieme a Lucrezia, “vergine lattante” nuda come una polena, oggetto della contesa – si ritrovano su una nave, diretti al Mar delle Blatte.
Le Blatte altro non sono che gli scarafaggi che circondano, poco prima d’una bellissima isola, la nave e tutto il suo equipaggio. Scopriamo che Lucrezia preferiva il verme al ragazzo; che propone una sfida ai due, nel corso della quale dovranno sedurla come meglio credono. Vince il verme (la descrizione è superbamente grottesca, questo sì), schiacciato poi in accesso d’ira dal ragazzo. La fine della storia possiamo risparmiarcela – diciamo che è una sorta di happy ending – ma nel complesso è tutto stupendamente senza né capo né coda. Se è questo che cercate in Letteratura, precipitatevi in libreria.
Il racconto eponimo è emblematico dello stile e dello spirito dell’intero volume; è probabilmente chiaro a tutti che un testo come questo può valere come oretta e mezza di consolazione e svago per un lettore medio-forte, magari brizzolato; in alternativa, può servire agli sceneggiatori contemporanei per dare vita – penso soprattutto al Racconto del Lupo Mannaro – a una pellicola finalmente anomala e francamente folle. Divagando, mi domando che lavoro facesse Landolfi nel 1939 per ritrovarsi a evadere dalla realtà con storie come queste; probabilmente – se stava già traducendo dal russo – fuggiva dall’iperrealismo di certe narrazioni svagandosi con queste prosette. Senza dubbio qui si registra un passo indietro, dal punto di vista della tenuta dell’opera, rispetto all’ottimo libro precedente; al contempo, si ha la percezione netta che Landolfi abbia lasciato galoppare a dovere l’immaginazione e l’estro creativo. Sprigionando qualcosa di felicemente sregolato, questo sì.
La speranza di chi legge, avanzando in ordine cronologico, è di incontrare superbi bestiari nei successivi testi dell’autore. È involontariamente comico il contrasto tra la limpida e raffinata lingua letteraria dell’artista e gli argomenti delle sue narrazioni, in questo frangente; si ha l’impressione di ascoltare le boutade irriverenti d’un professore di mezza età, molto ben educato.
Landolfi de “Il mar delle blatte” è un narratore snob e divertito; spesso divertente, altrove discretamente fine a se stesso; oppure, come dire, “involontariamente autoreferenziale”. Libro riservato ai cultori dell’opera di Landolfi.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “Il mar delle blatte e altre storie”, Rizzoli, Milano, 1975.
Prima edizione: Edizioni della Cometa, Roma, 1939.
La prima edizione venne tirata in 555 esemplari, così suddivisi: 5 fuori commercio, contrassegnati dalle 5 vocali; 50 numerati in romano, da I a L; 500 numerati da 1 a 500. Quindi, venne ristampato assieme a “La spada” (Vallecchi, Firenze, 1942, con cambiamenti dei titoli) e nei “Racconti” (Vallecchi, Firenze, 1961). Quindi, Rizzoli, Milano, 1975, edizione qui esaminata; infine, Adelphi, Milano 1997.
Mille libri di avventure ci hanno narrato del giovane eroe che arditamente parte, forte soltanto della propria fede in un alto destino, alla conquista di terre e amori impervi e lontani. Ma immaginiamo che l’eroe sia un qualunque ragazzo turbato da vendicative insicurezze, guardiamolo trascinare verso un mare nero perché interamente coperto di blatte un padre reso imbelle e una fanciulla sadicamente abbandonata a un fantasioso quanto riprovevole oltraggio – ed eccoci penetrati, attraverso il racconto che dà titolo al volume, nell’universo surreale e letterariamente blasfemo di cui Landolfi regge con accanita destrezza le fila, sino a quel memorabile tour de force che è la descrizione dettagliata degli amori fra un minuscolo verme e l’eroina Lucrezia. È un gioco lieve e perverso, che si rinnova, ogni volta inventando nuovi percorsi e nuovi bersagli, in tutti i testi di questa raccolta di racconti, specialmente celebrata fra quelle del primo Landolfi. Vi incontriamo molte delle vene tipiche dell’autore: dalla vocazione parodica che si esercita, non senza divertimento, sul terreno dell’orrore alla lettura in chiave paradossale dell’ottusa frenesia di chi vive in situazioni soffocanti e chiuse; e, ancora, il gusto dell’intelligenza pura che si scatena in ironiche acrobazie concettuali e stilistiche. Il Mar delle Blatte apparve per la prima volta nel 1939.
LANDOLFI TOMMASO
IL MAR DELLE BLATTE
franchi
Lupi mannari rapiscono la luna. Una cagna si congeda dai suoi eredi rivendicando d’aver bagnato del suo dorato liquido una statua bianchissima, e d’averne sempre avuto nostalgia. Un verme parlante sfida un ragazzo e conquista l’amore della donna contesa, nel bel mezzo del Mar delle Blatte. Un astronomo dichiara che dio è un metodo. Si direbbe un delirio: ma in ambito letterario, quando il delirio s’accompagna a una suggestiva lingua letteraria, si preferisce virare sulla più tenue categoria del divertissement o della stravaganza. Ecco, “Il mar delle blatte e altre storie”, raccolta di racconti originariamente edita nel 1939, racconta storie come queste, che tendenzialmente strappano un sorriso e sembrano rifiutare in toto – gradevole scelta, ma non ne riesco a valutare la “consapevolezza estetica” – stilemi e dettami del realismo.
Se non avessimo letto, in Carlo Dossi, di come innamorarsi d’una regina di cuori o di un albero, e se non avessimo affrontato le fumose invenzioni di Palazzeschi, potremmo giudicare queste trame – queste “deviazioni dalla logica” – come del tutto inedite tra Ottocento e primo Novecento italiano; salutando magari certi spunti come viatico alla lettura del Calvino più ispirato, quello fantastico; tuttavia la responsabilità – e le influenze – di certa Scapigliatura non mancano di richiamarci all’ordine; assieme alla ovvia reminiscenza della plurisecolare tradizione degli animali parlanti, cara in primis alle favole, a partire, naturalmente, dalla classicità (Esopo, Fedro; ma anche, in vicenda metamorfica e quindi ragionevolmente cara a Landolfi, Luciano di Samosata. Vado a memoria e per grandi linee e qualcosa mi sfugge). Stabilito quindi che di delirante divertissement si tratta, non estraneo a grandi tradizioni letterarie lontane o quasi coeve al testo – sicuramente con ironia e aggressività caustiche, e tutte contemporanee – passiamo a dire che è un gran bel delirio; che Landolfi sembra divertirsi molto davvero, da erudito e da letterato puro, a smontare e rimontare la linearità e la logica; gioca per paradossi, per eccessi, per allucinazioni; non di rado non è nemmeno possibile ricostruire la realtà originaria, il “nucleo realistico” della storia, quell’argilla plasmata sino a diventare traduzione e invenzione letteraria. Questo discorso non vale, naturalmente, per la satira della scienza, il riuscitissimo “L’astronomia esposta al popolo”: erosione del dogmatismo e dell’assolutismo di certi uomini di scienza, ridicolizzati con perfetta adesione a certo entusiastico e megalomane codice linguistico divulgativo (encomiabile la clausola); nemmeno vale per “Il sogno dell’impiegato”, peraltro piuttosto fiacco; vale per buona parte dei racconti (7+1, composto da 5 dialoghi), dall’allucinato “Racconto del Lupo Mannaro” (i mannari apparivano già nel precedente “La pietra lunare”) – dove la luna finisce, rapita, in un camino, sfugge piena di fuliggine e per tre mesi cessa di brillare – all’eponimo “Mar delle Blatte”. In questo testo, discretamente simile all’ispirata logorrea d’un compagno di bevute in gran forma, il figlio perdigiorno d’un avvocato esce dal barbiere e va incontro al padre, gridando “guarda che taglio”; allude ovviamente al taglio che ha sul braccio, da cui fuoriescono pallini da caccia, chicchi di riso e un verme parlante, subito maledetto dal giovane. Questo verme è il suo rivale: ce ne accorgiamo una volta che padre e figlio – assieme a Lucrezia, “vergine lattante” nuda come una polena, oggetto della contesa – si ritrovano su una nave, diretti al Mar delle Blatte.
Le Blatte altro non sono che gli scarafaggi che circondano, poco prima d’una bellissima isola, la nave e tutto il suo equipaggio. Scopriamo che Lucrezia preferiva il verme al ragazzo; che propone una sfida ai due, nel corso della quale dovranno sedurla come meglio credono. Vince il verme (la descrizione è superbamente grottesca, questo sì), schiacciato poi in accesso d’ira dal ragazzo. La fine della storia possiamo risparmiarcela – diciamo che è una sorta di happy ending – ma nel complesso è tutto stupendamente senza né capo né coda. Se è questo che cercate in Letteratura, precipitatevi in libreria.
Il racconto eponimo è emblematico dello stile e dello spirito dell’intero volume; è probabilmente chiaro a tutti che un testo come questo può valere come oretta e mezza di consolazione e svago per un lettore medio-forte, magari brizzolato; in alternativa, può servire agli sceneggiatori contemporanei per dare vita – penso soprattutto al Racconto del Lupo Mannaro – a una pellicola finalmente anomala e francamente folle. Divagando, mi domando che lavoro facesse Landolfi nel 1939 per ritrovarsi a evadere dalla realtà con storie come queste; probabilmente – se stava già traducendo dal russo – fuggiva dall’iperrealismo di certe narrazioni svagandosi con queste prosette. Senza dubbio qui si registra un passo indietro, dal punto di vista della tenuta dell’opera, rispetto all’ottimo libro precedente; al contempo, si ha la percezione netta che Landolfi abbia lasciato galoppare a dovere l’immaginazione e l’estro creativo. Sprigionando qualcosa di felicemente sregolato, questo sì.
La speranza di chi legge, avanzando in ordine cronologico, è di incontrare superbi bestiari nei successivi testi dell’autore. È involontariamente comico il contrasto tra la limpida e raffinata lingua letteraria dell’artista e gli argomenti delle sue narrazioni, in questo frangente; si ha l’impressione di ascoltare le boutade irriverenti d’un professore di mezza età, molto ben educato.
Landolfi de “Il mar delle blatte” è un narratore snob e divertito; spesso divertente, altrove discretamente fine a se stesso; oppure, come dire, “involontariamente autoreferenziale”. Libro riservato ai cultori dell’opera di Landolfi.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “Il mar delle blatte e altre storie”, Rizzoli, Milano, 1975.
Prima edizione: Edizioni della Cometa, Roma, 1939.
La prima edizione venne tirata in 555 esemplari, così suddivisi: 5 fuori commercio, contrassegnati dalle 5 vocali; 50 numerati in romano, da I a L; 500 numerati da 1 a 500. Quindi, venne ristampato assieme a “La spada” (Vallecchi, Firenze, 1942, con cambiamenti dei titoli) e nei “Racconti” (Vallecchi, Firenze, 1961). Quindi, Rizzoli, Milano, 1975, edizione qui esaminata; infine, Adelphi, Milano 1997.
Tommaso Landolfi Dialogo dei massimi sistemi
A cura di Idolina Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
Perché Maria Giuseppa, «una cosa liscia, senza fianchi e senza petto», è morta per Giacomo, giovane blasfemo? E che cosa nasconde il sogno di sangue di Rosalba, «fanciulletta di forse dodici forse tredici anni»? Misteri landolfiani, aberrazioni, sub- e surrealtà. E già affiorano, in questi racconti cui Landolfi affidò, nel 1937, il proprio esordio letterario, le ossessioni che ne costelleranno tutta l’opera. Opera unica fin dal suo sbocciare, se si pensa che il primo racconto letto dallo scrittore a un amico (e qui incluso) descrive «la straziante morte di un topo e il suo folle funerale». Con Landolfi siamo subito di fronte a testi giocati sul filo della realtà, che anzi hanno già valicato il crinale verso un mondo altro, dove l’autore palesa la sua lunare ironia, nonché l’inclinazione costante a esplorare la faccia velata e paradossale delle cose e dell’uomo. Non a caso Landolfi è discepolo dei grandi maestri dell’Ottocento: gli amatissimi Gogol’ e Dostoevskij, ma anche Edgar Allan Poe. E a quest’ultimo rimanda forse la tensione che percorre le pagine dei sette racconti qui riuniti.
LANDOLFI TOMMASO
DIALOGO DEI MASSIMI SISTEMI
franchi
Opera prima di Tommaso Landolfi, “Dialogo dei massimi sistemi” è una raccolta di racconti, composta prima dei trent’anni d’età. La categoria delle “opere prime” è croce e delizia dei lettori; tendenzialmente – primo paradosso – se ne parla con chiarezza solo a posteriori, quando l’autore è cenere o giù di lì, e ha comunque una produzione così vasta che c’è chi si diletta a pizzicare prodromi e embrioni e chi s’incarognisce a massacrare difetti e limiti, e così via.
Il secondo paradosso è che non sempre è possibile parlarne male, sic et simpliciter. C’è chi non s’accanisce sugli esordienti per un misto d’umanità e di pietà, chi cerca sempre qualcosa di buono nell’opera giudicata “mediocre” et similia. Il terzo paradosso è che, per qualche incomprensibile mistero delle patrie lettere, di solito l’opera prima (edita) racconta davvero molto di quel che accadrà a un autore, al suo stile, ai suoi topoi, alla sua scrittura in generale.
Allora vengo a parlarvi dell’opera prima d’un autore che – nel 1937, quando viene pubblicato questo suo libro in tiratura limitata, duecento copie – aveva esattamente la mia età oggi, 2007. Sono un lettore irrispettoso e non ho paura di confrontarmi con nessuno. Figuriamoci con un coetaneo. Magari è più onesto da parte mia concludere questa introduzione ribadendo che in memoria non avevo altro che il Landolfi critico; del Landolfi narratore, letto confusamente in periodo di studio furibondo e caotico, ricordavo francamente poco. Ciò detto: m’avventurerò nella sua produzione, poco a poco, rispettando un criterio cronologico; convinto di poter condividere una riscoperta che potrebbe essere, un domani, popolare e non solo scolastica.
L’esordio di Tommaso Landolfi da Pico Farnese è una raccolta di racconti connotati fondamentalmente da una comune, talentuosa attitudine, caduta in disuso nella contemporaneità; Landolfi, questo voglio segnalarvi, è un genio delle descrizioni. È capace di non scrollarsi di dosso un colore o un ambiente o un pensiero senza aver investito periodi interi del compito di scolpirlo o di contornarlo con metodo e puntuale esibizione di padronanza della lingua (letteraria, va da sé). Inevitabilmente, come spesso accade, il talento nelle descrizioni non s’accompagna al talento nella rappresentazione o nella resa dei dialoghi; in questo libro, sono proprio letterari da cima a fondo; il che significa che non escludono d’essere ampollosi e barocconi; sono i dialoghi d’un innamorato della parola.
Ecco, gli innamorati della parola sono come quei calciatori, quando eravamo ragazzini, ai quali non dovevi per nessuna ragione al mondo passare il pallone. Avevano quattro o cinque numeri – che so, un tacco, un dribbling secco, cose del genere – e tendevano a sfoggiare quel loro repertorio in qualsiasi momento. Evitando, va da sé, di passare il pallone ai compagni (se non accidentalmente, per via di qualche rimpallo).
Per Tommaso Landolfi vale lo stesso principio. Non so come giocasse a pallone da ragazzo ma ho capito come scrive. Scrive come uno che schiuma di gioia al solo pensiero d’aver avuto un’idea, e si diverte ad arabescarla. Ne deriva che questi suoi racconti sono deboli di trama – ma questo non è un difetto – e sono deboli nelle calibrature dei personaggi – regolarmente di carta – e tuttavia costituiscono un campione piacevole di lingua letteraria italiana; esercizi di stile di uno scrittore che mostrava sin dal principio delle sue pubblicazioni attrazione nei confronti del gioco (cfr. “Night Must Fall”), una non nascosta passione per le donne (qui piuttosto voyeuristica; quando tende a realizzarsi subito s’offusca; il meglio Landolfi giovane sembra darlo da guardone), infine – e verrebbe da ribadire: fondamentalmente – una chiara dedizione alla parola, alla sua potenza e al suo mistero (cfr. racconto eponimo; al di là delle evidenti stilettate a certi poeti contemporanei innamorati del suono, ha valenza di riflessione sul linguaggio. Capita di rado). E questa dedizione è un innamoramento che regala prepotenti irruzioni dell’autore-narratore nei racconti; non di rado ci si rivolge ai lettori direttamente, bruciando o almeno frammentando la già fiacca trama, cancellando la credibilità della storia. E alla quarta o quinta irrichiesta epifania dell’io narrante (o scrivente, come s’autodefinisce) il divertimento ha termine.
Porto a esempio quanto Landolfi scrive a p. 58, in “La morte del re di Francia”:
“Si inizia qui quella fase della vicenda narrata che si potrebbe chiamare della camminata orizzontale, e lo scrivente, in mancanza di coscienza nel suo eroe, è costretto a far capolino col suo grossolano modo d’immaginare le cose” (segue descrizione di venti, trenta righe).
Forzando la mano si può riconoscere nella solitudine uno dei tratti comuni e fondanti dei personaggi volta per volta protagonisti; una solitudine irrimediabile, e quando mutata sempre mutata male, con esito rovinoso o autodistruttivo (cfr. “Maria Giuseppa” o “La morte del re di Francia”): una solitudine fertile di osservazioni micidiali della realtà. Tanto micidiali che stancano. Naturalmente questa attitudine alle descrizioni e alle osservazioni è figlia d’un’epoca estranea alla nostra “civiltà dell’immagine”; tuttavia ritengo anche allora bastasse qualche pennellata nervosa, viva e atipica per mutare una certa percezione di pallosità. Chiaramente, per i cultori di questa attitudine, le mie parole suoneranno come musica. Fate pure.
Vi porto ad esempio quanto leggo a p. 67, nel fondante “Dialogo dei massimi sistemi”:
“Parlando giocherellava, ora con un tagliacarte d’acciaio, ora con un libro rilegato che rotolava sul tavolo nel senso del taglio; spesso annusava la colla alla mandorla amara nel suo recipiente brunito, e più spesso ancora, colle lunghe e scintillanti forbici di redazione tracciava gran tagli per aria e si ravviava i baffetti all’ingiù. Sorrideva spesso contenutamente, come a se stesso, specie quando giudicava che il suo interlocutore ritenesse di averlo messo in imbarazzo. Quando si volgeva invece direttamente a qualcuno il suo sorriso era mondano e in tutto egli affettava una cortesia esagerata. Parlava piano, con gesti sobri e parole forbite, debitamente intramezzate da espressioni straniere”.
Ecco: al lettore tanto invocato rimane molto poco da immaginare, apparentemente. A me rimane da immaginare come stava Landolfi quando descriveva con questa incredibile dovizia di dettagli (la colla è “alla mandorla amara” e addirittura si trova in un “recipiente brunito”) la “realtà della narrazione”; sembra qualcuno talmente poco convinto della realtà delle cose che solo appuntandola punto per punto riesce a controllarla o a impadronirsene. Insomma, non mi stupirei se in una narrazione in prima persona piovessero gli aggettivi possessivi. Al contempo, si registra la pregevole ricchezza del vocabolario dell’autore. È interessante appuntare la capacità di creare storie (fiacche, ossia senza nessuna trama) nelle storie; sorta di matrioska, sperimentata almeno ne “La piccola Apocalisse” e ne “La morte del re di Francia”; con tanto di vagheggiata adesione ad altro personaggio e altra prospettiva.
Incontro Tommaso Landolfi da Pico Farnese quasi fosse un contemporaneo; adesso, libro dopo libro, invecchierà e io rimarrò giovane. La mia speranza di lettore è che, pagina dopo pagina, mi si chiarisca la ragione per cui era amato dal più grande lettore italiano del Novecento, quando in Italia poteva contare, vado per eccesso, su cinquecento o mille lettori. E adesso concludo con un passo tratto dal racconto eponimo. Probabilmente era satirico, ma da espressionista – e da nemico del realismo – non posso che esserne rimasto colpito. È un frammento d’un dialogo sul linguaggio. Ve lo trascrivo, e considerate che chi proferisce quelle parole, nel testo, non si direbbe un idolo dell’autore: si discute del suono e delle idee, e del delirio di una poesia scritta per suoni e parole d’una lingua inesistente.
“Così facendo si creerà una nuova lingua; e poco importa se monca e limitata a poche frasi (quelle del componimento), giacché ci sarà sempre chi la saprà: il suo stesso creatore; e sempre chi del componimento sia competente a giudicare: il suo stesso autore” (p. 74).
Landolfi, mica era così facile. I suoni a cui forse pensavi erano parte di una lingua – quella italiana – che non ha frasi sempre ordinatamente composte da soggetto, verbo, avverbio, articolo, complemento oggetto. Perché – non ne parli, ma dovresti saperlo – l’italiano non esiste. L’abbiamo inventato noi, i letterati dico.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “Dialogo dei massimi sistemi”, Rizzoli, Milano, 1975.
Prima edizione: Firenze, 1937.
Apparve originariamente nella collezione di “Letteratura” – la collana che i Fratelli Parenti Editori di Firenze pubblicavano a fianco della rivista omonima – in un’edizione originale di 200 copie numerate, più una tiratura fuori serie. Venne ristampato in seguito nella raccolta antologica dei Racconti edita da Vallecchi nel 1961. Quindi, Rizzoli 1975: prima ristampa del libro dopo la prima edizione del 1937.
Piccola Biblioteca Adelphi
Perché Maria Giuseppa, «una cosa liscia, senza fianchi e senza petto», è morta per Giacomo, giovane blasfemo? E che cosa nasconde il sogno di sangue di Rosalba, «fanciulletta di forse dodici forse tredici anni»? Misteri landolfiani, aberrazioni, sub- e surrealtà. E già affiorano, in questi racconti cui Landolfi affidò, nel 1937, il proprio esordio letterario, le ossessioni che ne costelleranno tutta l’opera. Opera unica fin dal suo sbocciare, se si pensa che il primo racconto letto dallo scrittore a un amico (e qui incluso) descrive «la straziante morte di un topo e il suo folle funerale». Con Landolfi siamo subito di fronte a testi giocati sul filo della realtà, che anzi hanno già valicato il crinale verso un mondo altro, dove l’autore palesa la sua lunare ironia, nonché l’inclinazione costante a esplorare la faccia velata e paradossale delle cose e dell’uomo. Non a caso Landolfi è discepolo dei grandi maestri dell’Ottocento: gli amatissimi Gogol’ e Dostoevskij, ma anche Edgar Allan Poe. E a quest’ultimo rimanda forse la tensione che percorre le pagine dei sette racconti qui riuniti.
LANDOLFI TOMMASO
DIALOGO DEI MASSIMI SISTEMI
franchi
Opera prima di Tommaso Landolfi, “Dialogo dei massimi sistemi” è una raccolta di racconti, composta prima dei trent’anni d’età. La categoria delle “opere prime” è croce e delizia dei lettori; tendenzialmente – primo paradosso – se ne parla con chiarezza solo a posteriori, quando l’autore è cenere o giù di lì, e ha comunque una produzione così vasta che c’è chi si diletta a pizzicare prodromi e embrioni e chi s’incarognisce a massacrare difetti e limiti, e così via.
Il secondo paradosso è che non sempre è possibile parlarne male, sic et simpliciter. C’è chi non s’accanisce sugli esordienti per un misto d’umanità e di pietà, chi cerca sempre qualcosa di buono nell’opera giudicata “mediocre” et similia. Il terzo paradosso è che, per qualche incomprensibile mistero delle patrie lettere, di solito l’opera prima (edita) racconta davvero molto di quel che accadrà a un autore, al suo stile, ai suoi topoi, alla sua scrittura in generale.
Allora vengo a parlarvi dell’opera prima d’un autore che – nel 1937, quando viene pubblicato questo suo libro in tiratura limitata, duecento copie – aveva esattamente la mia età oggi, 2007. Sono un lettore irrispettoso e non ho paura di confrontarmi con nessuno. Figuriamoci con un coetaneo. Magari è più onesto da parte mia concludere questa introduzione ribadendo che in memoria non avevo altro che il Landolfi critico; del Landolfi narratore, letto confusamente in periodo di studio furibondo e caotico, ricordavo francamente poco. Ciò detto: m’avventurerò nella sua produzione, poco a poco, rispettando un criterio cronologico; convinto di poter condividere una riscoperta che potrebbe essere, un domani, popolare e non solo scolastica.
L’esordio di Tommaso Landolfi da Pico Farnese è una raccolta di racconti connotati fondamentalmente da una comune, talentuosa attitudine, caduta in disuso nella contemporaneità; Landolfi, questo voglio segnalarvi, è un genio delle descrizioni. È capace di non scrollarsi di dosso un colore o un ambiente o un pensiero senza aver investito periodi interi del compito di scolpirlo o di contornarlo con metodo e puntuale esibizione di padronanza della lingua (letteraria, va da sé). Inevitabilmente, come spesso accade, il talento nelle descrizioni non s’accompagna al talento nella rappresentazione o nella resa dei dialoghi; in questo libro, sono proprio letterari da cima a fondo; il che significa che non escludono d’essere ampollosi e barocconi; sono i dialoghi d’un innamorato della parola.
Ecco, gli innamorati della parola sono come quei calciatori, quando eravamo ragazzini, ai quali non dovevi per nessuna ragione al mondo passare il pallone. Avevano quattro o cinque numeri – che so, un tacco, un dribbling secco, cose del genere – e tendevano a sfoggiare quel loro repertorio in qualsiasi momento. Evitando, va da sé, di passare il pallone ai compagni (se non accidentalmente, per via di qualche rimpallo).
Per Tommaso Landolfi vale lo stesso principio. Non so come giocasse a pallone da ragazzo ma ho capito come scrive. Scrive come uno che schiuma di gioia al solo pensiero d’aver avuto un’idea, e si diverte ad arabescarla. Ne deriva che questi suoi racconti sono deboli di trama – ma questo non è un difetto – e sono deboli nelle calibrature dei personaggi – regolarmente di carta – e tuttavia costituiscono un campione piacevole di lingua letteraria italiana; esercizi di stile di uno scrittore che mostrava sin dal principio delle sue pubblicazioni attrazione nei confronti del gioco (cfr. “Night Must Fall”), una non nascosta passione per le donne (qui piuttosto voyeuristica; quando tende a realizzarsi subito s’offusca; il meglio Landolfi giovane sembra darlo da guardone), infine – e verrebbe da ribadire: fondamentalmente – una chiara dedizione alla parola, alla sua potenza e al suo mistero (cfr. racconto eponimo; al di là delle evidenti stilettate a certi poeti contemporanei innamorati del suono, ha valenza di riflessione sul linguaggio. Capita di rado). E questa dedizione è un innamoramento che regala prepotenti irruzioni dell’autore-narratore nei racconti; non di rado ci si rivolge ai lettori direttamente, bruciando o almeno frammentando la già fiacca trama, cancellando la credibilità della storia. E alla quarta o quinta irrichiesta epifania dell’io narrante (o scrivente, come s’autodefinisce) il divertimento ha termine.
Porto a esempio quanto Landolfi scrive a p. 58, in “La morte del re di Francia”:
“Si inizia qui quella fase della vicenda narrata che si potrebbe chiamare della camminata orizzontale, e lo scrivente, in mancanza di coscienza nel suo eroe, è costretto a far capolino col suo grossolano modo d’immaginare le cose” (segue descrizione di venti, trenta righe).
Forzando la mano si può riconoscere nella solitudine uno dei tratti comuni e fondanti dei personaggi volta per volta protagonisti; una solitudine irrimediabile, e quando mutata sempre mutata male, con esito rovinoso o autodistruttivo (cfr. “Maria Giuseppa” o “La morte del re di Francia”): una solitudine fertile di osservazioni micidiali della realtà. Tanto micidiali che stancano. Naturalmente questa attitudine alle descrizioni e alle osservazioni è figlia d’un’epoca estranea alla nostra “civiltà dell’immagine”; tuttavia ritengo anche allora bastasse qualche pennellata nervosa, viva e atipica per mutare una certa percezione di pallosità. Chiaramente, per i cultori di questa attitudine, le mie parole suoneranno come musica. Fate pure.
Vi porto ad esempio quanto leggo a p. 67, nel fondante “Dialogo dei massimi sistemi”:
“Parlando giocherellava, ora con un tagliacarte d’acciaio, ora con un libro rilegato che rotolava sul tavolo nel senso del taglio; spesso annusava la colla alla mandorla amara nel suo recipiente brunito, e più spesso ancora, colle lunghe e scintillanti forbici di redazione tracciava gran tagli per aria e si ravviava i baffetti all’ingiù. Sorrideva spesso contenutamente, come a se stesso, specie quando giudicava che il suo interlocutore ritenesse di averlo messo in imbarazzo. Quando si volgeva invece direttamente a qualcuno il suo sorriso era mondano e in tutto egli affettava una cortesia esagerata. Parlava piano, con gesti sobri e parole forbite, debitamente intramezzate da espressioni straniere”.
Ecco: al lettore tanto invocato rimane molto poco da immaginare, apparentemente. A me rimane da immaginare come stava Landolfi quando descriveva con questa incredibile dovizia di dettagli (la colla è “alla mandorla amara” e addirittura si trova in un “recipiente brunito”) la “realtà della narrazione”; sembra qualcuno talmente poco convinto della realtà delle cose che solo appuntandola punto per punto riesce a controllarla o a impadronirsene. Insomma, non mi stupirei se in una narrazione in prima persona piovessero gli aggettivi possessivi. Al contempo, si registra la pregevole ricchezza del vocabolario dell’autore. È interessante appuntare la capacità di creare storie (fiacche, ossia senza nessuna trama) nelle storie; sorta di matrioska, sperimentata almeno ne “La piccola Apocalisse” e ne “La morte del re di Francia”; con tanto di vagheggiata adesione ad altro personaggio e altra prospettiva.
Incontro Tommaso Landolfi da Pico Farnese quasi fosse un contemporaneo; adesso, libro dopo libro, invecchierà e io rimarrò giovane. La mia speranza di lettore è che, pagina dopo pagina, mi si chiarisca la ragione per cui era amato dal più grande lettore italiano del Novecento, quando in Italia poteva contare, vado per eccesso, su cinquecento o mille lettori. E adesso concludo con un passo tratto dal racconto eponimo. Probabilmente era satirico, ma da espressionista – e da nemico del realismo – non posso che esserne rimasto colpito. È un frammento d’un dialogo sul linguaggio. Ve lo trascrivo, e considerate che chi proferisce quelle parole, nel testo, non si direbbe un idolo dell’autore: si discute del suono e delle idee, e del delirio di una poesia scritta per suoni e parole d’una lingua inesistente.
“Così facendo si creerà una nuova lingua; e poco importa se monca e limitata a poche frasi (quelle del componimento), giacché ci sarà sempre chi la saprà: il suo stesso creatore; e sempre chi del componimento sia competente a giudicare: il suo stesso autore” (p. 74).
Landolfi, mica era così facile. I suoni a cui forse pensavi erano parte di una lingua – quella italiana – che non ha frasi sempre ordinatamente composte da soggetto, verbo, avverbio, articolo, complemento oggetto. Perché – non ne parli, ma dovresti saperlo – l’italiano non esiste. L’abbiamo inventato noi, i letterati dico.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “Dialogo dei massimi sistemi”, Rizzoli, Milano, 1975.
Prima edizione: Firenze, 1937.
Apparve originariamente nella collezione di “Letteratura” – la collana che i Fratelli Parenti Editori di Firenze pubblicavano a fianco della rivista omonima – in un’edizione originale di 200 copie numerate, più una tiratura fuori serie. Venne ristampato in seguito nella raccolta antologica dei Racconti edita da Vallecchi nel 1961. Quindi, Rizzoli 1975: prima ristampa del libro dopo la prima edizione del 1937.
Tommaso Landolfi Racconto d’autunno
A cura di Idolina Landolfi
Biblioteca Adelphi
Si sa che l’ultima guerra, e in particolare la Resistenza, hanno per lo più dato origine in Italia a storie di ‘uomini e no’, inclini a un’aspra sentenziosità. Nulla di meno congeniale a Landolfi, il quale scrisse febbrilmente la sua storia di guerra (questo Racconto d’autunno) nel 1946, ma giocando su tutt’altra tastiera. Qui un indefinito e sanguinoso conflitto fa da quinta a una vicenda di amore e morte che non sdegna nessuno degli attrezzi scenici del romanzo nero, dal ritratto ominoso agli animali demoniaci. E, al centro troviamo una ‘dark lady’ innocente e perversa, evocata per via necromantica, che ci appare una vera concrezione dell’eros landolfiano. Mai come in questo libro Landolfi si è abbandonato al puro romanzesco, senza turbare e frantumare la narrazione, anzi lasciandola fluire in una corrente rapinosa e ingannevole. Eppure, la perfetta adesione ai canoni del racconto fantastico adombra in questo caso l’insanabile ferita inflitta all’autore degli eventi. La guerra aveva infatti profanato il ‘covo di memorie’, il ‘Ricettacolo dei sogni’ di Landolfi: la nobile dimora di Pico, che aveva assistito alla stesura di tutte le opere della sua prima stagione ed era per lui una sorta di guscio protettivo. È questo il luogo tenebroso del Racconto d’autunno, trasformato dalle erbe selvatiche in un «gran tumulo verde», mentre attorno alla fantomatica figura femminile si addensa un «giallo leggermente abbrunato, come un bagno di funebre oro».
LANDOLFI TOMMASO
RACCONTO D'AUTUNNO
franchi
La Resistenza raccontata da Landolfi non poteva non essere allegorica. E – va da sé – gotica, allucinata evasione dalla realtà. È il 1947 quando Vallecchi pubblica il romanzo “Racconto d’autunno”, che nelle prime battute va configurandosi come una narrazione classica d’una fuga per boschi durante quel periodo in cui, come Landolfi ricorda, due eserciti stranieri si scontravano sul nostro territorio; i cittadini fuggivano da invasori o “liberatori”, a seconda di convinzioni, opportunità, appartenenze: una minoranza assoluta viveva “da bandito” (parole di Landolfi), durante quegli anni di scontri duri e cruenti, nel tentativo di rovesciare il regime, salvarsi la vita e – chissà, io lo aggiungerei – liberarsi dei liberatori. Il protagonista del romanzo sfugge a una cattura e si ritrova, scappando, di fronte a una vecchia casa apparentemente abbandonata.
Questo è il principio d’un romanzo che – chiuso il libro – non sembra affatto accidentalmente contestualizzato negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale; perché è la storia dell’incontro tra questo “bandito” nascosto nei boschi e un vecchio pazzo e ossesso che evocava la moglie morta tempo prima; celando, nelle segrete stanze della sua villa, la giovane figlia, sulla quale aveva calcato la memoria e l’identità della moglie, snaturandola e segregandola all’esistenza.
La liberazione che pareva poter avvenire nel romanzo è – una volta morto l’anziano ospite della vecchia casa di campagna – quella della giovinetta, che già s’era innamorata del viandante fuggiasco; saranno tuttavia – annunciati da una sua crisi epilettica – i soldati africani dell’esercito straniero “liberatore” a massacrarla, sotto lo sguardo impotente del protagonista.
È evidente che si possono andare cercando diverse chiavi di lettura; la prima, biografica, interessa meno e probabilmente andrebbe a scardinare segreti contrasti interiori dell’artista, drammi sentimentali o irrisolti rapporti famigliari. Stupisce che la giovane che ha preso il posto della madre, in punto d’essere assassinata dai “liberatori”, prometta di tornare e dica “è la mamma”; naturalmente la tentazione è di prendere determinate vicende come trasfigurazioni di qualcosa di vissuto. Proviamo invece a darne una lettura politica, rischiando qualcosa.
L’esercito “detto liberatore”, per usare le parole di Landolfi, in questo romanzo ha la funzione princeps di essere omicida d’una giovane (l’Italia?) che era da diverso tempo (anni della guerra) tenuta nascosta dal padre (il regime impazzito) in una residenza secondaria, giacché l’altra era andata in rovina (gli eserciti, quali che siano, sembrano nemici del vecchio ospite: sempre). La suggestione che ho percepito è quella – m’è sembrato chiaro – d’un rifiuto della tenace propaganda che ha voluto salutare nei “secondi invasori” dei liberatori, sic et simpliciter; di fatto, era il “bandito”, il “resistente” italiano a liberare – si badi: involontariamente. Lui si limitò a cercarne le tracce, il padre morì all’improvviso – la giovane era nascosta, costretta dal padre ad assumere in toto l’identità della perduta madre (la libertà?). Questa liberazione vera dura poco.
Ho letto qua e là letture di questo romanzo tese a salutarne lo spirito gotico e allucinato; la casa diroccata, il vecchio ospite ossesso, la necromanzia (apparente?), descritta con febbrile puntualità contribuiscono a concentrare l’attenzione del lettore sugli aspetti per così dire fantastici d’una narrazione che personalmente – sarò mal tarato – ho trovato diversamente allegorica e piuttosto satirica, diciamo così.
Nell’introduzione, ad esempio, Carlo Bo propone (si badi: parlando dell’opera landolfiana in generale, a un punto, e deviando dalla trama di “Racconto d’Autunno”): “Il primo nome che viene alla memoria per questo Racconto è Barbey d’Aurevilly e il rapporto che ci sembra giustificato proprio per la carica di passione, per quel tanto di studiato e di eccessivo che troviamo nella rappresentazione landolfiana (…). Romanticismo, dunque, come espediente e come protezione della verità che sarebbe apparsa in tutta la sua luce molti anni dopo col potere di spiegare i camuffamenti, i pudori e gli accorgimenti del primo Landolfi. La memoria della madre, della casa, il senso di desolazione, il ricorso allo stratagemma del gioco non sono che gli anelli di una sola catena, i termini stessi della vicenda umana di Landolfi”.
Ecco qui: “Racconto d’Autunno” viene letto come un romanzo romantico, con tanto di epifania nel fuoco d’una madre morta, tradotta in una giovane segregata dal padre nelle misteriose stanze d’un’antica casa. Mi sembra che Bo abbia incredibilmente glissato sul contesto storico e sulle prime pagine d’un romanzo che, altrimenti, parrebbe davvero lugubre e romantico; avvincente e d’una malinconia schiacciante, con la presenza d’eserciti stranieri che potevano trovarsi sul nostro territorio in uno qualunque degli oltre quindici secoli di dipendenza e vassallaggio e assenza di sovranità.
Quale che sia la vostra interpretazione, mio dovere è ribadire la grandezza d’uno stile e d’una capacità narrativa di respiro europeo; reminiscenze classiche – l’arte d’evocare i morti non credo valga soltanto un richiamo a un francese minore – si fondono con la letterarietà e la verve d’un’intelligenza limpida ed estranea a stilemi e dettami estetici o partitici.
La trama è un tessuto che si frantuma in un momento senza il controllo lessicale e senza la piena coscienza del peso d’ogni singolo atto dei protagonisti; in questo senso, Landolfi si è dimostrato, in “Racconto d’autunno”, maestro d’equilibrio e compostezza; pure quando quel che si sta narrando non è altro che tetra fantasia, o oscura trasfigurazione dei propri sentimenti (che significa: della realtà).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “Racconto d’autunno”, Rizzoli, Milano, 1975.
Introduzione di Carlo Bo.
Prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1947.
Quindi, Vallecchi, Firenze, 1963; Rizzoli, Milano, 1975 e 1990; Adelphi, Milano, 1995.
Fonte di queste informazioni: Wikipedia.
Biblioteca Adelphi
Si sa che l’ultima guerra, e in particolare la Resistenza, hanno per lo più dato origine in Italia a storie di ‘uomini e no’, inclini a un’aspra sentenziosità. Nulla di meno congeniale a Landolfi, il quale scrisse febbrilmente la sua storia di guerra (questo Racconto d’autunno) nel 1946, ma giocando su tutt’altra tastiera. Qui un indefinito e sanguinoso conflitto fa da quinta a una vicenda di amore e morte che non sdegna nessuno degli attrezzi scenici del romanzo nero, dal ritratto ominoso agli animali demoniaci. E, al centro troviamo una ‘dark lady’ innocente e perversa, evocata per via necromantica, che ci appare una vera concrezione dell’eros landolfiano. Mai come in questo libro Landolfi si è abbandonato al puro romanzesco, senza turbare e frantumare la narrazione, anzi lasciandola fluire in una corrente rapinosa e ingannevole. Eppure, la perfetta adesione ai canoni del racconto fantastico adombra in questo caso l’insanabile ferita inflitta all’autore degli eventi. La guerra aveva infatti profanato il ‘covo di memorie’, il ‘Ricettacolo dei sogni’ di Landolfi: la nobile dimora di Pico, che aveva assistito alla stesura di tutte le opere della sua prima stagione ed era per lui una sorta di guscio protettivo. È questo il luogo tenebroso del Racconto d’autunno, trasformato dalle erbe selvatiche in un «gran tumulo verde», mentre attorno alla fantomatica figura femminile si addensa un «giallo leggermente abbrunato, come un bagno di funebre oro».
LANDOLFI TOMMASO
RACCONTO D'AUTUNNO
franchi
La Resistenza raccontata da Landolfi non poteva non essere allegorica. E – va da sé – gotica, allucinata evasione dalla realtà. È il 1947 quando Vallecchi pubblica il romanzo “Racconto d’autunno”, che nelle prime battute va configurandosi come una narrazione classica d’una fuga per boschi durante quel periodo in cui, come Landolfi ricorda, due eserciti stranieri si scontravano sul nostro territorio; i cittadini fuggivano da invasori o “liberatori”, a seconda di convinzioni, opportunità, appartenenze: una minoranza assoluta viveva “da bandito” (parole di Landolfi), durante quegli anni di scontri duri e cruenti, nel tentativo di rovesciare il regime, salvarsi la vita e – chissà, io lo aggiungerei – liberarsi dei liberatori. Il protagonista del romanzo sfugge a una cattura e si ritrova, scappando, di fronte a una vecchia casa apparentemente abbandonata.
Questo è il principio d’un romanzo che – chiuso il libro – non sembra affatto accidentalmente contestualizzato negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale; perché è la storia dell’incontro tra questo “bandito” nascosto nei boschi e un vecchio pazzo e ossesso che evocava la moglie morta tempo prima; celando, nelle segrete stanze della sua villa, la giovane figlia, sulla quale aveva calcato la memoria e l’identità della moglie, snaturandola e segregandola all’esistenza.
La liberazione che pareva poter avvenire nel romanzo è – una volta morto l’anziano ospite della vecchia casa di campagna – quella della giovinetta, che già s’era innamorata del viandante fuggiasco; saranno tuttavia – annunciati da una sua crisi epilettica – i soldati africani dell’esercito straniero “liberatore” a massacrarla, sotto lo sguardo impotente del protagonista.
È evidente che si possono andare cercando diverse chiavi di lettura; la prima, biografica, interessa meno e probabilmente andrebbe a scardinare segreti contrasti interiori dell’artista, drammi sentimentali o irrisolti rapporti famigliari. Stupisce che la giovane che ha preso il posto della madre, in punto d’essere assassinata dai “liberatori”, prometta di tornare e dica “è la mamma”; naturalmente la tentazione è di prendere determinate vicende come trasfigurazioni di qualcosa di vissuto. Proviamo invece a darne una lettura politica, rischiando qualcosa.
L’esercito “detto liberatore”, per usare le parole di Landolfi, in questo romanzo ha la funzione princeps di essere omicida d’una giovane (l’Italia?) che era da diverso tempo (anni della guerra) tenuta nascosta dal padre (il regime impazzito) in una residenza secondaria, giacché l’altra era andata in rovina (gli eserciti, quali che siano, sembrano nemici del vecchio ospite: sempre). La suggestione che ho percepito è quella – m’è sembrato chiaro – d’un rifiuto della tenace propaganda che ha voluto salutare nei “secondi invasori” dei liberatori, sic et simpliciter; di fatto, era il “bandito”, il “resistente” italiano a liberare – si badi: involontariamente. Lui si limitò a cercarne le tracce, il padre morì all’improvviso – la giovane era nascosta, costretta dal padre ad assumere in toto l’identità della perduta madre (la libertà?). Questa liberazione vera dura poco.
Ho letto qua e là letture di questo romanzo tese a salutarne lo spirito gotico e allucinato; la casa diroccata, il vecchio ospite ossesso, la necromanzia (apparente?), descritta con febbrile puntualità contribuiscono a concentrare l’attenzione del lettore sugli aspetti per così dire fantastici d’una narrazione che personalmente – sarò mal tarato – ho trovato diversamente allegorica e piuttosto satirica, diciamo così.
Nell’introduzione, ad esempio, Carlo Bo propone (si badi: parlando dell’opera landolfiana in generale, a un punto, e deviando dalla trama di “Racconto d’Autunno”): “Il primo nome che viene alla memoria per questo Racconto è Barbey d’Aurevilly e il rapporto che ci sembra giustificato proprio per la carica di passione, per quel tanto di studiato e di eccessivo che troviamo nella rappresentazione landolfiana (…). Romanticismo, dunque, come espediente e come protezione della verità che sarebbe apparsa in tutta la sua luce molti anni dopo col potere di spiegare i camuffamenti, i pudori e gli accorgimenti del primo Landolfi. La memoria della madre, della casa, il senso di desolazione, il ricorso allo stratagemma del gioco non sono che gli anelli di una sola catena, i termini stessi della vicenda umana di Landolfi”.
Ecco qui: “Racconto d’Autunno” viene letto come un romanzo romantico, con tanto di epifania nel fuoco d’una madre morta, tradotta in una giovane segregata dal padre nelle misteriose stanze d’un’antica casa. Mi sembra che Bo abbia incredibilmente glissato sul contesto storico e sulle prime pagine d’un romanzo che, altrimenti, parrebbe davvero lugubre e romantico; avvincente e d’una malinconia schiacciante, con la presenza d’eserciti stranieri che potevano trovarsi sul nostro territorio in uno qualunque degli oltre quindici secoli di dipendenza e vassallaggio e assenza di sovranità.
Quale che sia la vostra interpretazione, mio dovere è ribadire la grandezza d’uno stile e d’una capacità narrativa di respiro europeo; reminiscenze classiche – l’arte d’evocare i morti non credo valga soltanto un richiamo a un francese minore – si fondono con la letterarietà e la verve d’un’intelligenza limpida ed estranea a stilemi e dettami estetici o partitici.
La trama è un tessuto che si frantuma in un momento senza il controllo lessicale e senza la piena coscienza del peso d’ogni singolo atto dei protagonisti; in questo senso, Landolfi si è dimostrato, in “Racconto d’autunno”, maestro d’equilibrio e compostezza; pure quando quel che si sta narrando non è altro che tetra fantasia, o oscura trasfigurazione dei propri sentimenti (che significa: della realtà).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “Racconto d’autunno”, Rizzoli, Milano, 1975.
Introduzione di Carlo Bo.
Prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1947.
Quindi, Vallecchi, Firenze, 1963; Rizzoli, Milano, 1975 e 1990; Adelphi, Milano, 1995.
Fonte di queste informazioni: Wikipedia.
Tommaso Landolfi Le labrene
A cura di Idolina Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
La labrena, ovvero il comune «geco», «turpe bestia» nel cui sguardo sono contenuti «tutto il male, tutto il dolore del mondo», è il perturbante emblema di questi sette racconti, giocati sul registro più congeniale a Landolfi, tra il grottesco e il fantastico. Questa volta il suo sguardo si diverte a irridere e a corrodere soprattutto le convenzioni sociali e sentimentali della famiglia borghese: la vita di coppia con la sua routine, il tradimento, il volto infernale dei parenti, lo straziante patetismo del sesso nella vecchiaia. Ma tale sguardo, lungi dal possedere la sorridente bonomia caricaturale cui siamo avvezzi, diviene lo strumento per immergerci in una dimensione di «smarrimento, angoscia, terrore». Benché ricordi a tratti Barbey d’Aurevilly o Villiers de l’Isle-Adam per l’indugio sulla crudeltà, Gogol’ per le luci irreali e stranianti, Le labrene è landolfiano come pochi altri libri di Landolfi: nell’ibrido di dolore e di indifferenza, di gelido distacco e di complice pietà che ovunque riconosciamo, nei dialoghi come nelle trame; nell’orrore senza fine cui sembra fatalmente destinata ogni infelice marionetta mossa dai suoi fili; nel persistente sospetto che il nulla, sola e agognata via di salvezza, sia anch’esso una illusione («Il vero incubo di Landolfi è questo: che il nulla non esista», nelle parole di Italo Calvino). Le labrene apparve per la prima volta nel 1974.
LANDOLFI TOMMASOLE LABRENEfranchi
Tra il terzo e ultimo diario di Landolfi, “Des mois”, e questa raccolta di racconti passano sette anni; periodo segnato dalla pubblicazione di versi (segnalo, a beneficio dei pochi appassionati landolfiani, “Viola di morte” del 1972) racconti per bambini, filastrocche, raccolte di articoli già apparsi sul Corriere della Sera, l’ottimo volume di recensioni “Gogol a Roma”, un Faust per il teatro (a proposito del quale non ho trovato traccia – episodica – diversa dal nome).
Ecco quindi questa raccolta di sette racconti: prima grande novità rispetto alle precedenti antologie è il ruolo da protagonista – meglio sarebbe dire: antagonista – d’una figura letteraria (e non solo) che dovremmo semplicemente chiamare “moglie”. Seconda innovazione, la prepotente (e probabilmente funzionale, in chiave biografica) apparizione della (letteraria) categoria del “doppio”. Il fantastico – meglio: la trasfigurazione fantastica della propria biografia o di determinati eventi o sentimenti – via via tende a sfumare e a dissolversi. Rivelando, probabilmente, che la prima fonte d’ispirazione di Landolfi era la satira. D’ogni cosa, eccetto che di se stesso, a ben guardare. È comprensibile, naturalmente.
Allora – già che ci siamo – è bene ammonire chi intende accostarsi alle opere dello scrittore di Pico Farnese da neofita o giù di lì, magari per sentito dire, o forse per suggestioni meravigliose o fama d’atipicità e di ottocentismo: tornate indietro e guardate con interesse ai primi diciott’anni di produzione, diciamo dal 1937 alla metà degli anni Cinquanta, per innamorarvi di quella scrittura e di quelle narrazioni che meritano si versino fiumi d’(accademico) inchiostro per diverse generazioni.
In questo caso, onestamente, c’è da salutare positivamente la fluidità della narrazione, la densità e la ricercatezza del lessico – a proposito, non manca almeno un (apparente?) neologismo: la forma verbale “amonesta”, che non ho altrove riscontrato – e la capacità di catturare il lettore. Le trame sono deboli, fiacche e poco suggestive, con l’eccezione di quella del racconto eponimo.
A partire dalla geco-fobia dell’artista – le “labrene” sono proprio i gechi – si va imbastendo un grottesco scenario di morte presunta dopo un fortuito contatto diretto con una di queste creaturine; il narratore non respira più e viene giudicato morto. Ascolta, creduto da tutti ormai defunto, il cugino che cerca – e quasi vi riesce – di sedurre la moglie; viene addirittura quasi sepolto, svicolando con un grido che interrompe la cerimonia e impedisce la tumulazione. E subito dopo è indagine sull’ossessione del tradimento, sino all’epilogo in cui l’ossessione per i gechi si sintetizza: la labrena (o la moglie?) lo fissa con uno sguardo in cui si sintetizza “tutto il male, tutto il dolore del mondo”.
Curioso come l’autore abbia parlato, già nelle prime battute, di “repulsione”, “nausea” e “disgusto” per questi invasori delle abitazioni; naturalmente l’ossessione derivava da una mania materna. La descrizione della creatura è, al solito, puntigliosa e ampiamente letteraria (p. 9): “Sorta di coccodrillo in miniatura che frequenta e percorre serpeggiando le vecchie muraglie, penetrando al caso fin nelle stanze d’abitazione, ove, come dappertutto, guata e sorprende insetti vari e segnatamente farfalle” – al termine della descrizione, viene da recriminare pensando al talento sprecato, tutto qui, per parlare di così poco; nemmeno il simbolismo che ho cercato di tradurvi è sufficiente per una lettura diversa da quella biografica/psicanalitica.
Curioso che finalmente – dopo tanti libri – si parli di penetrazione. Finalmente un personaggio di Landolfi penetra! Ma attenzione: “ho penetrato i tuoi disegni, la parte da te avuta nel mio orribile male, le tue attuali intenzioni, i tuoi colpevoli sentimenti per un altro uomo, insomma tutto” – e certo. Tutto. Sia chiaro che s’allude alla paranoia che sia stata la moglie a insinuare le labrene in camera. Questo l’orribile disegno penetrato. Il “doppio”, in questo caso, è il passaggio da “vivo” a “morto” (in vita).
In “Encarte”, due gemelli si scambiano ruolo; l’uno – più forte – sostituisce l’altro nel letto (è impotente) e in ufficio (è un mediocre); l’altro dà manforte tra banca e latrocini, sino al drammatico epilogo (protagonisti: le mogli) che non svelo. Lascio soltanto la (neutra) clausola a spiegare certe dinamiche delle riflessioni sull’identità:“Nessuna di voi due è chi è. Ovvero (che torna al medesimo) tutti noi, col rimanente dell’umanità passata, presente e futura, siamo la stessa persona”.
Ancora protagonista la moglie in “Perbellione” (riflessione folle e amara sull’incapacità di domare le proprie compagne; nemmeno la violenza sembra bastare, come avviene con negri e cani, dice il narratore) e in “Uxoricidio”, dove le pesanti critiche (la moglie viene equiparata a una governante) alla compagna cardiopatica l’accompagnano alla morte; dopo quella morte, il narratore non sa più che fare.
A chiudere la serie in bellezza, “Pellegrinaggio” – il narratore va da una vecchia amante, pretende un cunnilingus, ritrova l’amore perduto e la pace dei sensi; mentre ne “Il crittogramma” un giovane aristocratico va da un vecchio professore, esperto di crittogrammi, per decifrare una scritta che nasconderebbe un tesoro; la sua curiosità deriva dal desiderio di avere dell’oro per sedurre una donna sposata e ritrosa a concedersi. La morale è trista.
L’ultimo racconto – un regolamento di conti con un critico responsabile d’aver scritto che un autore che pubblicava con Vallecchi adottava parole inesistenti – risulta onestamente poco interessante ad un lettore diverso da un biografo di Landolfi.
Libello di narrativa misogina e sicuramente minore, nel contesto della produzione landolfiana, “Le labrene” non conquisterà l’immortalità né vincerà il tempo; il miglior Landolfi è decisamente altrove, perduto tra i venti e i trent’anni prima di tutto questo. Consigliato a chi va in cerca della decadenza d’un artista dalla passata, grande ispirazione; o a chi vuole investigare come – nell’opera d’un autore – si possa passare dal voyeurismo al disprezzo dell’oggetto del desiderio. La donna amata.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova. Tradusse – tra gli altri – Novalis, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Lermontov, Puskin.
Tommaso Landolfi, “Le labrene”, Rizzoli, Milano, 1974.
Prima edizione: Rizzoli, Milano, 1974. Quindi: Adelphi, Milano, 1994.
Piccola Biblioteca Adelphi
La labrena, ovvero il comune «geco», «turpe bestia» nel cui sguardo sono contenuti «tutto il male, tutto il dolore del mondo», è il perturbante emblema di questi sette racconti, giocati sul registro più congeniale a Landolfi, tra il grottesco e il fantastico. Questa volta il suo sguardo si diverte a irridere e a corrodere soprattutto le convenzioni sociali e sentimentali della famiglia borghese: la vita di coppia con la sua routine, il tradimento, il volto infernale dei parenti, lo straziante patetismo del sesso nella vecchiaia. Ma tale sguardo, lungi dal possedere la sorridente bonomia caricaturale cui siamo avvezzi, diviene lo strumento per immergerci in una dimensione di «smarrimento, angoscia, terrore». Benché ricordi a tratti Barbey d’Aurevilly o Villiers de l’Isle-Adam per l’indugio sulla crudeltà, Gogol’ per le luci irreali e stranianti, Le labrene è landolfiano come pochi altri libri di Landolfi: nell’ibrido di dolore e di indifferenza, di gelido distacco e di complice pietà che ovunque riconosciamo, nei dialoghi come nelle trame; nell’orrore senza fine cui sembra fatalmente destinata ogni infelice marionetta mossa dai suoi fili; nel persistente sospetto che il nulla, sola e agognata via di salvezza, sia anch’esso una illusione («Il vero incubo di Landolfi è questo: che il nulla non esista», nelle parole di Italo Calvino). Le labrene apparve per la prima volta nel 1974.
LANDOLFI TOMMASOLE LABRENEfranchi
Tra il terzo e ultimo diario di Landolfi, “Des mois”, e questa raccolta di racconti passano sette anni; periodo segnato dalla pubblicazione di versi (segnalo, a beneficio dei pochi appassionati landolfiani, “Viola di morte” del 1972) racconti per bambini, filastrocche, raccolte di articoli già apparsi sul Corriere della Sera, l’ottimo volume di recensioni “Gogol a Roma”, un Faust per il teatro (a proposito del quale non ho trovato traccia – episodica – diversa dal nome).
Ecco quindi questa raccolta di sette racconti: prima grande novità rispetto alle precedenti antologie è il ruolo da protagonista – meglio sarebbe dire: antagonista – d’una figura letteraria (e non solo) che dovremmo semplicemente chiamare “moglie”. Seconda innovazione, la prepotente (e probabilmente funzionale, in chiave biografica) apparizione della (letteraria) categoria del “doppio”. Il fantastico – meglio: la trasfigurazione fantastica della propria biografia o di determinati eventi o sentimenti – via via tende a sfumare e a dissolversi. Rivelando, probabilmente, che la prima fonte d’ispirazione di Landolfi era la satira. D’ogni cosa, eccetto che di se stesso, a ben guardare. È comprensibile, naturalmente.
Allora – già che ci siamo – è bene ammonire chi intende accostarsi alle opere dello scrittore di Pico Farnese da neofita o giù di lì, magari per sentito dire, o forse per suggestioni meravigliose o fama d’atipicità e di ottocentismo: tornate indietro e guardate con interesse ai primi diciott’anni di produzione, diciamo dal 1937 alla metà degli anni Cinquanta, per innamorarvi di quella scrittura e di quelle narrazioni che meritano si versino fiumi d’(accademico) inchiostro per diverse generazioni.
In questo caso, onestamente, c’è da salutare positivamente la fluidità della narrazione, la densità e la ricercatezza del lessico – a proposito, non manca almeno un (apparente?) neologismo: la forma verbale “amonesta”, che non ho altrove riscontrato – e la capacità di catturare il lettore. Le trame sono deboli, fiacche e poco suggestive, con l’eccezione di quella del racconto eponimo.
A partire dalla geco-fobia dell’artista – le “labrene” sono proprio i gechi – si va imbastendo un grottesco scenario di morte presunta dopo un fortuito contatto diretto con una di queste creaturine; il narratore non respira più e viene giudicato morto. Ascolta, creduto da tutti ormai defunto, il cugino che cerca – e quasi vi riesce – di sedurre la moglie; viene addirittura quasi sepolto, svicolando con un grido che interrompe la cerimonia e impedisce la tumulazione. E subito dopo è indagine sull’ossessione del tradimento, sino all’epilogo in cui l’ossessione per i gechi si sintetizza: la labrena (o la moglie?) lo fissa con uno sguardo in cui si sintetizza “tutto il male, tutto il dolore del mondo”.
Curioso come l’autore abbia parlato, già nelle prime battute, di “repulsione”, “nausea” e “disgusto” per questi invasori delle abitazioni; naturalmente l’ossessione derivava da una mania materna. La descrizione della creatura è, al solito, puntigliosa e ampiamente letteraria (p. 9): “Sorta di coccodrillo in miniatura che frequenta e percorre serpeggiando le vecchie muraglie, penetrando al caso fin nelle stanze d’abitazione, ove, come dappertutto, guata e sorprende insetti vari e segnatamente farfalle” – al termine della descrizione, viene da recriminare pensando al talento sprecato, tutto qui, per parlare di così poco; nemmeno il simbolismo che ho cercato di tradurvi è sufficiente per una lettura diversa da quella biografica/psicanalitica.
Curioso che finalmente – dopo tanti libri – si parli di penetrazione. Finalmente un personaggio di Landolfi penetra! Ma attenzione: “ho penetrato i tuoi disegni, la parte da te avuta nel mio orribile male, le tue attuali intenzioni, i tuoi colpevoli sentimenti per un altro uomo, insomma tutto” – e certo. Tutto. Sia chiaro che s’allude alla paranoia che sia stata la moglie a insinuare le labrene in camera. Questo l’orribile disegno penetrato. Il “doppio”, in questo caso, è il passaggio da “vivo” a “morto” (in vita).
In “Encarte”, due gemelli si scambiano ruolo; l’uno – più forte – sostituisce l’altro nel letto (è impotente) e in ufficio (è un mediocre); l’altro dà manforte tra banca e latrocini, sino al drammatico epilogo (protagonisti: le mogli) che non svelo. Lascio soltanto la (neutra) clausola a spiegare certe dinamiche delle riflessioni sull’identità:“Nessuna di voi due è chi è. Ovvero (che torna al medesimo) tutti noi, col rimanente dell’umanità passata, presente e futura, siamo la stessa persona”.
Ancora protagonista la moglie in “Perbellione” (riflessione folle e amara sull’incapacità di domare le proprie compagne; nemmeno la violenza sembra bastare, come avviene con negri e cani, dice il narratore) e in “Uxoricidio”, dove le pesanti critiche (la moglie viene equiparata a una governante) alla compagna cardiopatica l’accompagnano alla morte; dopo quella morte, il narratore non sa più che fare.
A chiudere la serie in bellezza, “Pellegrinaggio” – il narratore va da una vecchia amante, pretende un cunnilingus, ritrova l’amore perduto e la pace dei sensi; mentre ne “Il crittogramma” un giovane aristocratico va da un vecchio professore, esperto di crittogrammi, per decifrare una scritta che nasconderebbe un tesoro; la sua curiosità deriva dal desiderio di avere dell’oro per sedurre una donna sposata e ritrosa a concedersi. La morale è trista.
L’ultimo racconto – un regolamento di conti con un critico responsabile d’aver scritto che un autore che pubblicava con Vallecchi adottava parole inesistenti – risulta onestamente poco interessante ad un lettore diverso da un biografo di Landolfi.
Libello di narrativa misogina e sicuramente minore, nel contesto della produzione landolfiana, “Le labrene” non conquisterà l’immortalità né vincerà il tempo; il miglior Landolfi è decisamente altrove, perduto tra i venti e i trent’anni prima di tutto questo. Consigliato a chi va in cerca della decadenza d’un artista dalla passata, grande ispirazione; o a chi vuole investigare come – nell’opera d’un autore – si possa passare dal voyeurismo al disprezzo dell’oggetto del desiderio. La donna amata.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova. Tradusse – tra gli altri – Novalis, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Lermontov, Puskin.
Tommaso Landolfi, “Le labrene”, Rizzoli, Milano, 1974.
Prima edizione: Rizzoli, Milano, 1974. Quindi: Adelphi, Milano, 1994.
Tommaso Landolfi Ombre
A cura di Idolina Landolfi
Biblioteca Adelphi
Questo libro, pubblicato da Landolfi nel 1954, contiene alcuni fra i suoi più celebrati racconti fantastici, come La moglie di Gogol’ o Lettere dalla provincia. Ma, con somma sprezzatura, Landolfi ha mescolato queste formidabili, e insieme esilaranti e sinistre invenzioni narrative, a una serie di schizzi, per lo più riferiti alla sua giovinezza ipocondriaca e vissuta col diverso passo di una formidabile e straniante intelligenza. Chiude il libro la sezione intitolata «Commiato», una sequenza di miniature dove la prosa raggiunge d’improvviso un lucore madreperlaceo, mallarmeano («Parole sorgevano, s’incarnavano e lentamente tramontavano, sull’equoreo orizzonte, contro il cielo perso»). Una forma così sconcertante può essere ricondotta, come indicò Calvino, al gesto di chi «sperpera le sue puntate d’un colpo o le ritira bruscamente dal tavolo col gesto allucinato del giocatore». Al tempo stesso, al lettore di oggi potrà presentarsi il legittimo sospetto che sia proprio tale composizione frastagliata e caparbiamente sconnessa a far sì che risalti sempre sulla pagina, con inquietante nettezza, il timbro inconfondibile di Landolfi, la sua superba malinconia, la vocazione a corteggiare, sotto ogni aspetto, «la fumosa stella del naufragio».
Biblioteca Adelphi
Questo libro, pubblicato da Landolfi nel 1954, contiene alcuni fra i suoi più celebrati racconti fantastici, come La moglie di Gogol’ o Lettere dalla provincia. Ma, con somma sprezzatura, Landolfi ha mescolato queste formidabili, e insieme esilaranti e sinistre invenzioni narrative, a una serie di schizzi, per lo più riferiti alla sua giovinezza ipocondriaca e vissuta col diverso passo di una formidabile e straniante intelligenza. Chiude il libro la sezione intitolata «Commiato», una sequenza di miniature dove la prosa raggiunge d’improvviso un lucore madreperlaceo, mallarmeano («Parole sorgevano, s’incarnavano e lentamente tramontavano, sull’equoreo orizzonte, contro il cielo perso»). Una forma così sconcertante può essere ricondotta, come indicò Calvino, al gesto di chi «sperpera le sue puntate d’un colpo o le ritira bruscamente dal tavolo col gesto allucinato del giocatore». Al tempo stesso, al lettore di oggi potrà presentarsi il legittimo sospetto che sia proprio tale composizione frastagliata e caparbiamente sconnessa a far sì che risalti sempre sulla pagina, con inquietante nettezza, il timbro inconfondibile di Landolfi, la sua superba malinconia, la vocazione a corteggiare, sotto ogni aspetto, «la fumosa stella del naufragio».
Tommaso Landolfi Cancroregina
A cura di Idolina Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
Cancroregina è il nome di una fantastica astronave, dal dorso lustro e dai mille occhi, dall’«umor bizzarro», dalle «multiformi e complicate viscere». Il già vasto bestiario landolfiano si arricchisce qui di una cosmica belva, nel cui ventre il protagonista trascina la sua eternità, diviso fra la nostalgia di una vita pur ritenuta «impossibile» e il desiderio di una morte che pare aver perduto i suoi connotati di certezza. A Cancroregina l’angosciato avventuriero di questo lungo racconto, che apparve per la prima volta nel 1950, aveva affidato il ruolo di «liberatrice, quella che sulle sue ali (del tutto metaforiche) doveva trasportarmi (non metaforicamente) fuori del mio ingrato mondo». Naturalmente l’impresa ha tragico epilogo (quasi tutto finisce male, in Landolfi) – e nulla cambia nell’opaco orizzonte del personaggio: «Io sono solo qui dentro, solo e senza speranze, press’a poco come prima di cominciare questo folle volo». La fulgida disperazione dell’autore, il suo sguardo volto verso l’interno, impietoso nel valutare la dolorosa impasse di mezza vita e mezza morte in cui soltanto riconosce la propria esistenza – e forse quella comune –, si dilatano in parole d’ampia eco, nel diario di un antichissimo astronauta della mente e del cuore.
LANDOLFI TOMMASOCANCROREGINA Paolo Castronovo
Una professoressa di lettere molto in gamba mi informa cheda qualche tempo Tommaso Landolfi va moltissimo nelle antologie scolastiche. Il che mi rallegra morbosamente. Forse in una maniera sadica, forse semplicemente perchè ho amato questo libro, sarei contento di saperlo come lettura - anche forzata, sta bene - nelle scuole. Parlo di sadismo, ma è una parola decisamente fuori luogo. Pensandoci meglio, direi cheCancroregina va ben oltre la semplice scalfitura superficiale. Leggendo il breve romanzo, infatti, i tuffi al cuore non sono stati pochi.
Per farla breve, Cancroregina fa male. Molto male. Fa male in quanto sa commuovere, sa dove colpire e non esita a farlo più volte nelle sue scarse cento pagine. Ed è un'esperienza da assaporare, perché Landolfi risveglia lentamente il piacere di leggere della solitudine, delle beffe del destino e della speciale qualità dell'uomo di sentire se stesso rifiutato dai propri simili.
Perché, cosa succede se una notte d'inverno - e al diavolo Calvino!- uno sconosciuto si presenta alla vostra porta dichiarandosi completamente pazzo? Ma, anche stavolta - e scusatemi -, il terminecompletamente è fuori luogo, inutile nella sua stoltezza e stolto nella propria inutilità. Perchè, come afferma il misterioso individuo, un pazzo non ha gradazioni: lo è nella sua essenza, nella sua totalità, e spesso - come in questo caso - nella sua agghiacciante genialità. O sei pazzo o non lo sei. E' brutto ma facile. Quindi. Cosa fareste, dunque, se questo pazzo - del quale abbiamo attestato la coerente appartenenza al mondo dei pazzi - vi confidasse d'essere appena fuggito da un manicomio? Se vi dicesse d'aver scelto voi per partecipare ad un'impresa senza precedenti e senza alcun termine di paragone se non la fantasia o la stessa ambizione umana?
"Io ero solo e sconsolato."
Nel suo romanzo City, un affermato autore contemporaneo comeAlessandro Baricco dimostrava scientificamente l'impossibilità dell'onestà intellettuale. Ebbene, io credo d'aver gettato nel cesso - con tutto il rispetto a City e ad Alessandro Baricco - questa dimostrazione nello stesso istante che ho letto questo incipit di Cancroregina... E chiudo una parentesi mai aperta.
L'impresa in questione è romantica per eccellenza: arrivare sulla luna. Sbigottimento? Curiosità? Paura? E paura di cosa? ... Delle parole di questo folle o del proposito che esse vanno pian piano delineando? Ma è facile lasciarsi rapire dalle parole e dalla forma con la quale esse galleggiano. Le parole di Landolfi sono macigni. Ma è la stessa cosa. Ma ricordate quel primo rigo di cui sopra. Vi lascereste affascinare, ne sono sicuro, per il bene stesso del racconto. E forse della vostra vita. Verrete attirati da questo folle tra le montagne, tra le rupi e le caverne, un po' per paura di contraddirlo, un po' sempre per quel maledetto primo rigo, pesante ed infuocato, di cui sopra.
E allora venite a conoscerla! Cancroregina! Questa astronave creata da un pazzo che folle non è. Questo parto innaturale di una mente condannata dalla sua gente. E, ditemi, cosa fareste se questo genio/pazzo vi dimostrasse che questa creatura di lamiere funziona? Che la possibilità di arrivare su quelle bianche lande non è più destinata a rimanere una leggenda, un canto, una poesia, un'ode pre-raffaellita? Che fareste..? ... Rifiutare? E perchè? Per restare quieto e avvelenato dalla propria solitudine? Per continuare a vivere il proprio divorzio dal mondo? Per mantenere quello stato di inerzia/inezia emotiva di quel dannato primo rigo di cui sopra?
Partite.
Non lasciate nulla, perché non avete nulla. La promessa della spazio, il proposito dell'impresa e la compagnia del vostro nuovo compagno di viaggio vi fanno anzi provare una soddisfazione, un senso di compiacimento che non provavate da tanto. E allora via verso la più grande - l'unica? - impresa della vostra vita! Cancroregina sbuffa, creatura viziata e capricciosa, ma per il momento è affidabile, voi al sicuro dentro il suo pancione di metallo. Le stelle vi permettono di dimenticare per un po' quella buffa sfera verde-blu che adesso, vista da lontano, sembra quasi sorridervi per la prima volta. E quanto, credete, il sogno potrà durare? Raggiungerete mai la tanto agognata meta? Oppure impazzirete prima? Cosa succederebbe se il vostro geniale ma lunatico compagno di viaggio impazzisse stavolta per davvero? Gettarlo fuori bordo in un impeto di violenza che mai avreste considerato vostro? Cos'è questo diritto alla vita che reclamate con tanto ardore? Cosa questo istinto di conservazione che vi porta ad ucciderlo?
Buio.
Ecco. Finalmente vi svegliate. Soli. Il vostro compagno di viaggio è attaccato all'esterno dello scafo di Cancroregina, la quale, subdola e vigliacca, ridacchia tra i suoi meccanismi. Possibile? Siete voi l'artefice di questo male? Fatto: siete soli nello spazio siderale. Fatto: non sapete come manovrare questa trappola di metallo che sembra ridere di voi. Fatto: la vostra rotta è inspiegabilmente cambiata. Ora - incredibile - state seguendo un'orbita ellittica attorno alla terra. Voi, che avete tanto sofferto la precarietà dell'essere un uomo sulla terra, che avete intrapreso un disperato viaggio quasi senza alcuna concezione di causa, voi adesso sarete condannati ad osservarla in eterno, panorama che adesso sembra essere un paradiso per voi proibito.
Come, allora, preservare la propria umanità in questo oblio, in questa tomba che avete contribuito a creare? Ma forse la domanda è un'altra: perchè preservare voi stessi e la vostra essenza umana? Agli occhi di chi? Siete partiti per sfuggire al ghiaccio dell'apatia, ad echi nichilisti e ai dubbi del credente. Perché? Soltanto per trovare un altro purgatorio? Tutto è perduto. Non vi salva la fede né la filosofia, la presenza dei vostri simile né la loro assenza. Siete soli. Soli a contemplare dall'alto chi mai potrà capire e chi forse neanche ci proverebbe. Siete dio. E lo siete nella sua solitudine scambiata per snobismo; lo siete perché avete voluto sottrarvi a responsabilità e non siete riusciti; lo siete in quella tragicomica lucidità dovuta alla situazione.
"Solo e senza speranze. Ma come si può vivere così senza nulla, senza neppure una lontana speranza? E' vero, e io in realtà aspetto qualcosa: aspetto il coraggio di morire. Non fui io quello il cui supremo voto era lasciare il mondo? Cui ogni cosa sembrava al vivere nel mondo preferibile? Eppure, strano a dirsi, da quando l'ho lasciato, da quell'altra età, io invero non lo aborro, io anzi... Ma perchè ho scritto: strano a dirsi? Che cosa ci può essere di strano nel riconoscere il bene dopo averlo perduto, o in quanto si credeva il peggiore di tutti i mali il male minore dove appunto si sia passati di stato abbietto in altro più abbietto ancora? ciò dovrebbe anzi apparire naturale [...] Non è che in realtà che io rimpianga il mondo, o lo desideri almeno come il minor male; io per contro non lo rimpiango e non lo desidero affatto. Piuttosto, ecco, amo la vita stessa, che non m'era mai riuscito nenache di tener per tollerabile."
Come leggere un J.G. Ballard più intimista e meno attento all'analisi psicologica. E' una prosa convulsa e contorta. Landolfi si contraddice, chiede scusa ma mai permesso, si flagella e riesce a raggiungere uno stato di profonda umiltà. Il protagonista di Cancroregina cerca una risposta nel suo viaggio ma esso altro non sarà che un peregrinaggio che gli risulterà fatale. Allo stesso modo Landolfi si imbarca in uno dei suoi libri più pessimisti, un diario introspettivo a volte impietoso, a volte dissacrante, caustico. Alla fine è un incubo sulla perdita della paura stessa.
Brevi note su edizione ed autore
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, Cancroregina, 1950 - (Adelphi, 1993)
L'edizione Adelphi comprende una nota al testo di Idolina Landolfi, più, in appendice, due scene in forma di dialogo.
Piccola Biblioteca Adelphi
Cancroregina è il nome di una fantastica astronave, dal dorso lustro e dai mille occhi, dall’«umor bizzarro», dalle «multiformi e complicate viscere». Il già vasto bestiario landolfiano si arricchisce qui di una cosmica belva, nel cui ventre il protagonista trascina la sua eternità, diviso fra la nostalgia di una vita pur ritenuta «impossibile» e il desiderio di una morte che pare aver perduto i suoi connotati di certezza. A Cancroregina l’angosciato avventuriero di questo lungo racconto, che apparve per la prima volta nel 1950, aveva affidato il ruolo di «liberatrice, quella che sulle sue ali (del tutto metaforiche) doveva trasportarmi (non metaforicamente) fuori del mio ingrato mondo». Naturalmente l’impresa ha tragico epilogo (quasi tutto finisce male, in Landolfi) – e nulla cambia nell’opaco orizzonte del personaggio: «Io sono solo qui dentro, solo e senza speranze, press’a poco come prima di cominciare questo folle volo». La fulgida disperazione dell’autore, il suo sguardo volto verso l’interno, impietoso nel valutare la dolorosa impasse di mezza vita e mezza morte in cui soltanto riconosce la propria esistenza – e forse quella comune –, si dilatano in parole d’ampia eco, nel diario di un antichissimo astronauta della mente e del cuore.
LANDOLFI TOMMASOCANCROREGINA Paolo Castronovo
Una professoressa di lettere molto in gamba mi informa cheda qualche tempo Tommaso Landolfi va moltissimo nelle antologie scolastiche. Il che mi rallegra morbosamente. Forse in una maniera sadica, forse semplicemente perchè ho amato questo libro, sarei contento di saperlo come lettura - anche forzata, sta bene - nelle scuole. Parlo di sadismo, ma è una parola decisamente fuori luogo. Pensandoci meglio, direi cheCancroregina va ben oltre la semplice scalfitura superficiale. Leggendo il breve romanzo, infatti, i tuffi al cuore non sono stati pochi.
Per farla breve, Cancroregina fa male. Molto male. Fa male in quanto sa commuovere, sa dove colpire e non esita a farlo più volte nelle sue scarse cento pagine. Ed è un'esperienza da assaporare, perché Landolfi risveglia lentamente il piacere di leggere della solitudine, delle beffe del destino e della speciale qualità dell'uomo di sentire se stesso rifiutato dai propri simili.
Perché, cosa succede se una notte d'inverno - e al diavolo Calvino!- uno sconosciuto si presenta alla vostra porta dichiarandosi completamente pazzo? Ma, anche stavolta - e scusatemi -, il terminecompletamente è fuori luogo, inutile nella sua stoltezza e stolto nella propria inutilità. Perchè, come afferma il misterioso individuo, un pazzo non ha gradazioni: lo è nella sua essenza, nella sua totalità, e spesso - come in questo caso - nella sua agghiacciante genialità. O sei pazzo o non lo sei. E' brutto ma facile. Quindi. Cosa fareste, dunque, se questo pazzo - del quale abbiamo attestato la coerente appartenenza al mondo dei pazzi - vi confidasse d'essere appena fuggito da un manicomio? Se vi dicesse d'aver scelto voi per partecipare ad un'impresa senza precedenti e senza alcun termine di paragone se non la fantasia o la stessa ambizione umana?
"Io ero solo e sconsolato."
Nel suo romanzo City, un affermato autore contemporaneo comeAlessandro Baricco dimostrava scientificamente l'impossibilità dell'onestà intellettuale. Ebbene, io credo d'aver gettato nel cesso - con tutto il rispetto a City e ad Alessandro Baricco - questa dimostrazione nello stesso istante che ho letto questo incipit di Cancroregina... E chiudo una parentesi mai aperta.
L'impresa in questione è romantica per eccellenza: arrivare sulla luna. Sbigottimento? Curiosità? Paura? E paura di cosa? ... Delle parole di questo folle o del proposito che esse vanno pian piano delineando? Ma è facile lasciarsi rapire dalle parole e dalla forma con la quale esse galleggiano. Le parole di Landolfi sono macigni. Ma è la stessa cosa. Ma ricordate quel primo rigo di cui sopra. Vi lascereste affascinare, ne sono sicuro, per il bene stesso del racconto. E forse della vostra vita. Verrete attirati da questo folle tra le montagne, tra le rupi e le caverne, un po' per paura di contraddirlo, un po' sempre per quel maledetto primo rigo, pesante ed infuocato, di cui sopra.
E allora venite a conoscerla! Cancroregina! Questa astronave creata da un pazzo che folle non è. Questo parto innaturale di una mente condannata dalla sua gente. E, ditemi, cosa fareste se questo genio/pazzo vi dimostrasse che questa creatura di lamiere funziona? Che la possibilità di arrivare su quelle bianche lande non è più destinata a rimanere una leggenda, un canto, una poesia, un'ode pre-raffaellita? Che fareste..? ... Rifiutare? E perchè? Per restare quieto e avvelenato dalla propria solitudine? Per continuare a vivere il proprio divorzio dal mondo? Per mantenere quello stato di inerzia/inezia emotiva di quel dannato primo rigo di cui sopra?
Partite.
Non lasciate nulla, perché non avete nulla. La promessa della spazio, il proposito dell'impresa e la compagnia del vostro nuovo compagno di viaggio vi fanno anzi provare una soddisfazione, un senso di compiacimento che non provavate da tanto. E allora via verso la più grande - l'unica? - impresa della vostra vita! Cancroregina sbuffa, creatura viziata e capricciosa, ma per il momento è affidabile, voi al sicuro dentro il suo pancione di metallo. Le stelle vi permettono di dimenticare per un po' quella buffa sfera verde-blu che adesso, vista da lontano, sembra quasi sorridervi per la prima volta. E quanto, credete, il sogno potrà durare? Raggiungerete mai la tanto agognata meta? Oppure impazzirete prima? Cosa succederebbe se il vostro geniale ma lunatico compagno di viaggio impazzisse stavolta per davvero? Gettarlo fuori bordo in un impeto di violenza che mai avreste considerato vostro? Cos'è questo diritto alla vita che reclamate con tanto ardore? Cosa questo istinto di conservazione che vi porta ad ucciderlo?
Buio.
Ecco. Finalmente vi svegliate. Soli. Il vostro compagno di viaggio è attaccato all'esterno dello scafo di Cancroregina, la quale, subdola e vigliacca, ridacchia tra i suoi meccanismi. Possibile? Siete voi l'artefice di questo male? Fatto: siete soli nello spazio siderale. Fatto: non sapete come manovrare questa trappola di metallo che sembra ridere di voi. Fatto: la vostra rotta è inspiegabilmente cambiata. Ora - incredibile - state seguendo un'orbita ellittica attorno alla terra. Voi, che avete tanto sofferto la precarietà dell'essere un uomo sulla terra, che avete intrapreso un disperato viaggio quasi senza alcuna concezione di causa, voi adesso sarete condannati ad osservarla in eterno, panorama che adesso sembra essere un paradiso per voi proibito.
Come, allora, preservare la propria umanità in questo oblio, in questa tomba che avete contribuito a creare? Ma forse la domanda è un'altra: perchè preservare voi stessi e la vostra essenza umana? Agli occhi di chi? Siete partiti per sfuggire al ghiaccio dell'apatia, ad echi nichilisti e ai dubbi del credente. Perché? Soltanto per trovare un altro purgatorio? Tutto è perduto. Non vi salva la fede né la filosofia, la presenza dei vostri simile né la loro assenza. Siete soli. Soli a contemplare dall'alto chi mai potrà capire e chi forse neanche ci proverebbe. Siete dio. E lo siete nella sua solitudine scambiata per snobismo; lo siete perché avete voluto sottrarvi a responsabilità e non siete riusciti; lo siete in quella tragicomica lucidità dovuta alla situazione.
"Solo e senza speranze. Ma come si può vivere così senza nulla, senza neppure una lontana speranza? E' vero, e io in realtà aspetto qualcosa: aspetto il coraggio di morire. Non fui io quello il cui supremo voto era lasciare il mondo? Cui ogni cosa sembrava al vivere nel mondo preferibile? Eppure, strano a dirsi, da quando l'ho lasciato, da quell'altra età, io invero non lo aborro, io anzi... Ma perchè ho scritto: strano a dirsi? Che cosa ci può essere di strano nel riconoscere il bene dopo averlo perduto, o in quanto si credeva il peggiore di tutti i mali il male minore dove appunto si sia passati di stato abbietto in altro più abbietto ancora? ciò dovrebbe anzi apparire naturale [...] Non è che in realtà che io rimpianga il mondo, o lo desideri almeno come il minor male; io per contro non lo rimpiango e non lo desidero affatto. Piuttosto, ecco, amo la vita stessa, che non m'era mai riuscito nenache di tener per tollerabile."
Come leggere un J.G. Ballard più intimista e meno attento all'analisi psicologica. E' una prosa convulsa e contorta. Landolfi si contraddice, chiede scusa ma mai permesso, si flagella e riesce a raggiungere uno stato di profonda umiltà. Il protagonista di Cancroregina cerca una risposta nel suo viaggio ma esso altro non sarà che un peregrinaggio che gli risulterà fatale. Allo stesso modo Landolfi si imbarca in uno dei suoi libri più pessimisti, un diario introspettivo a volte impietoso, a volte dissacrante, caustico. Alla fine è un incubo sulla perdita della paura stessa.
Brevi note su edizione ed autore
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, Cancroregina, 1950 - (Adelphi, 1993)
L'edizione Adelphi comprende una nota al testo di Idolina Landolfi, più, in appendice, due scene in forma di dialogo.
Tommaso Landolfi Un amore del nostro tempo
A cura di Idolina Landolfi
Biblioteca Adelphi
Sigismondo e Anna, fratello e sorella, giovanissimi, si ritrovano, in occasione della morte del padre, nel maniero di famiglia. Si scrutano, sentono riaffiorare la complicità infantile. Ma a lungo non osano dirsi che sono follemente innamorati uno dell’altra. Questa situazione ricalca perfettamente (e il richiamo è una sfida) quella della seconda parte dell’Uomo senza qualità di Musil, quando Ulrich e Agathe si ritrovano. Ma il parallelo va ben oltre: come Ulrich e Agathe, una volta abbandonati al loro amore, cercheranno le «isole felici», in Polinesia, così anche faranno Sigismondo e Anna. Con una decisiva variante: a loro tutto va bene. Eppure alla felicità si accompagna sempre un’angoscia sottile e invincibile, un senso di «voraginosa sospensione». Questo romanzo estremo e provocatorio fu pubblicato da Landolfi nel 1965 e passò inosservato, come un vero libro fantasma. Le scarse voci dei critici sembrarono deprecarlo, perfino come «dannunziano», in ossequio alla perenne vocazione italica per il «politicamente corretto», che obbligò per almeno trent’anni dopo la guerra a tacciare di dannunzianesimo tutto ciò che sapesse di décadence, quindi di letteratura. L’equivoco era totale. Il linguaggio alto, perennemente sopra le righe, di Sigismondo non è certo quello di Andrea Sperelli ma di un altro Sigismondo, quello di Calderón nella Vita è sogno, e allude a uno stato di reclusione metafisica, di prigionia in qualcosa che, pur non essendo la realtà, non accetta neppure una qualche realtà esterna: ora, questa è appunto la condizione originaria di Landolfi, quella piaga tormentosa da cui stilla tutta la sua letteratura, in fondo anch’essa una passione colpevole. In questo romanzo dunque il gioco di Landolfi è particolarmente audace, e diviso su due tavoli: come vita e come letteratura. Nella storia dei due fratelli egli sembra avere racchiuso la sua immagine segreta di una felicità acuminata, «sulla punta di noi» – e il riconoscimento amaro, vibrante, di un’impossibilità che rode dall’interno qualsiasi forma della felicità.
Biblioteca Adelphi
Sigismondo e Anna, fratello e sorella, giovanissimi, si ritrovano, in occasione della morte del padre, nel maniero di famiglia. Si scrutano, sentono riaffiorare la complicità infantile. Ma a lungo non osano dirsi che sono follemente innamorati uno dell’altra. Questa situazione ricalca perfettamente (e il richiamo è una sfida) quella della seconda parte dell’Uomo senza qualità di Musil, quando Ulrich e Agathe si ritrovano. Ma il parallelo va ben oltre: come Ulrich e Agathe, una volta abbandonati al loro amore, cercheranno le «isole felici», in Polinesia, così anche faranno Sigismondo e Anna. Con una decisiva variante: a loro tutto va bene. Eppure alla felicità si accompagna sempre un’angoscia sottile e invincibile, un senso di «voraginosa sospensione». Questo romanzo estremo e provocatorio fu pubblicato da Landolfi nel 1965 e passò inosservato, come un vero libro fantasma. Le scarse voci dei critici sembrarono deprecarlo, perfino come «dannunziano», in ossequio alla perenne vocazione italica per il «politicamente corretto», che obbligò per almeno trent’anni dopo la guerra a tacciare di dannunzianesimo tutto ciò che sapesse di décadence, quindi di letteratura. L’equivoco era totale. Il linguaggio alto, perennemente sopra le righe, di Sigismondo non è certo quello di Andrea Sperelli ma di un altro Sigismondo, quello di Calderón nella Vita è sogno, e allude a uno stato di reclusione metafisica, di prigionia in qualcosa che, pur non essendo la realtà, non accetta neppure una qualche realtà esterna: ora, questa è appunto la condizione originaria di Landolfi, quella piaga tormentosa da cui stilla tutta la sua letteratura, in fondo anch’essa una passione colpevole. In questo romanzo dunque il gioco di Landolfi è particolarmente audace, e diviso su due tavoli: come vita e come letteratura. Nella storia dei due fratelli egli sembra avere racchiuso la sua immagine segreta di una felicità acuminata, «sulla punta di noi» – e il riconoscimento amaro, vibrante, di un’impossibilità che rode dall’interno qualsiasi forma della felicità.
Tommaso Landolfi Le due zittelle
A cura di Idolina Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
Due anziane e devote «zittelle», Lilla e Nena, sprofondate nella più tetra e «muffosa» provincia italiana, prigioniere di un’esistenza sulla quale sembra essersi depositata «un’impalpabile polverina grigia»; una vecchia madre paralizzata ma implacabilmente autoritaria, che comunica solo percuotendosi il petto; una beffarda e turbolenta scimmia, Tombo, unico «maschio di casa», anche se «debitamente castrato»; e sullo sfondo «un’annosetta fantesca», Bellonia, assolutamente simile alle padrone. Ci sono tutti i presupposti per un bonario e ironico bozzetto, per una vecchia stampa provinciale di sapore palazzeschiano. Ma cosa succede se, appena liberate dall’incubo della dispotica madre, le due «zittelle» (e già la grafia, che gioca sul falso etimo «zitta», lascia presagire i biliosi intenti dell’autore) scoprono che di notte Tombo inscena sfrenati e blasfemi cerimoniali nella cappella dell’attiguo monastero? E se, a giudicare dell’operato della scimmia, vengono chiamati due religiosi, monsignor Tostini, appartenente alla più «declamatoria e retriva genia» degli uomini di fede, e il giovane padre Alessio, veemente e appassionato seguace di un Dio estraneo alle «complicate partite di dare ed avere» degli uomini? Succede che i due si scontrano senza esclusione di colpi e che il fortunato lettore può assistere alla più incredibile e fulminante delle dispute teologiche. Ma anche che il tranquillo bozzetto lascia improvvisamente posto al più oltraggioso sarcasmo, alla più acre irriverenza di quello che Landolfi ha sempre considerato «il mio miglior racconto» e Montale definì, nel risvolto della prima edizione, uno dei «maggiori “incubi” psicologici e morali della moderna letteratura europea». Questo racconto apparve prima a puntate sul «Mondo» nel 1945 e poi in volume nel 1946.
LANDOLFI TOMMASO
LE DUE ZITTELLE
Léon
"E laggiù, in un angolo del giardino annesso alla loro vecchia casa, fra le zolle che la primavera cominciava a spaccare, ai piedi d’un giovane noce che stava mettendo le prime foglie, seppellì Tombo con tutti gli onori. Era una giornata dolce, c’era un odore di salvia e chioccolio di galline dagli orti accanto; il sole principiava appena a scottare. Laggiù dunque mi auguro riposi ancora in pace l’eroe di questa storia”(p.98).
Cominciamo dunque dalla fine, da questo splendido e malinconico passo con cui Landolfi si congeda dal suo atipico protagonista. Un scimmia, o “scimia”, come usa scrivere l’autore di Pico lungo tutto l’arco della narrazione, che diventa, suo malgrado, simbolo della follia del dogma, della fede cieca, dell’annichilimento consapevole del proprio libero arbitrio, in “ragione” – mai termine fu usato più a sproposito – di un’ottusa convinzione assai diffusa nei paesini dell’Italia rurale del tempo: tutto è peccato, o quasi – soprattutto se si ha a che fare con la religione.
Ma torniamo al principio, al contesto in cui Landolfi ambienta questa novella corrosiva. Un paesino qualunque (del basso Lazio, o del meridione, sembrerebbe), grigio e ignorante quanto basta, che non si priva di nessuno degli stereotipi del caso. Ma Landolfi scorre subito oltre, alle due altrettanto grigie possibili protagoniste, visto il titolo: due zittelle. Due zittelle? Eh, si, proprio due zittelle: due zitelle zitte, come ci spiega lo stesso autore. Se avete letto almeno alcuni dei numerosi pezzi, contenuti nel sito, su opere di Landolfi, allora ben saprete o immaginerete quanto il nostro ami giocar con le parole, con la lingua, finanche con la sintassi, inventando spesso veri e propri neologismi e avventurandosi in ardite costruzioni narrative. Detto ciò, non vi sorprenderete certo di questo titolo, che ha il pregio di fotografare con una immagine sarcastica l’intera prima parte del libro. Anziane, brutte e baffute (mustacchiose, ci dice Landolfi), le zittelle Lilla e Nena sono succubi di una madre vecchia quanto un rudere, malata, e nonostante ciò più che mai dispotica, nemmeno arrendevole una volta sopraggiunta la quasi totale immobilità fisica. Soggiogate psicologicamente, sostanzialmente serve fino alla dipartita – assai tardiva – della vecchia, morigerate e timorate di Dio, le due anziane sorelle vivono da sempre nella loro borghese casa-prigione; non hanno mai conosciuto un uomo in senso “biblico” – e Landolfi lo rimarca senza pietà -, sono sostanzialmente due esseri inutili e privi di senso e di ragione, presente e futura. Con loro vive Tombo, scimmiotto approdato in dono nella casa delle due sorelle, evocante il ricordo del fratello contrammiraglio, purtroppo deceduto, ma vissuto quanto basta per portare l’animale al paese, al ritorno da uno dei suoi lunghi viaggi. Alla morte della madre, pertanto, in casa (soprav)vivono le zittelle, la domestica – anch’ella brutta e ignorante quanto basta – e Tombo, decisamente il più vivace della compagnia. Vivacità, ahilui, che gli costerà assai cara, che creerà addirittura accese dispute telologiche, che ci condurrà ad un epilogo, come dicevo all’inizio, che trasforma la satira in fitta malinconia, in una sorta di parabola sulle beffe dell’esistenza, in un teatro dell’assurdo, fin troppo verosimile. Landolfi aveva questa capacità naturale di narrare evocando sentimenti contrastanti, mai banali e mai tenui, soprattutto. In siffatto racconto il tormento dell’autore è evidente, il rifiuto delle convenzioni degli uomini del suo tempo più che palese, il disprezzo per i personaggi-stereotipo che inventa assoluto, senza alcuna possibilità di salvezza o redenzione. Non inganni la satira, perché qui si ride amarissimo e in parte, che strano non vi sembri, ci si commuove: l’epilogo di Tombo, reo solo del sentirsi vivo in una casa di “morti viventi”, fa davvero male, ancorché si tratti di un animale, del non troppo amato scimpanzé – mica un micietto o un cagnolino, cari animali domestici. Landolfi anche in questo dimostra la distanza emotiva dagli uomini, propria di colui – dei tanti, non vi stupite – che trovano la dignità di un animale non meno importante di quella di un essere umano. Di qui anche la disputa religiosa, farsesca e surreale quanto volete, ma quanto mai caustica e tagliente, nella quale l’autore casertano mette a contrasto la fede inscalfibile con il libero arbitrio, il dogma cieco con la “ragione ragionevole”, non dunque la “ragione come ideologia”. La disputa religiosa, tra un severo e anziano monsignore e un giovane prete, costituisce il motivo principale dell’opera, il corpo della narrazione. Difficile capire se Landolfi avvicini le teorie dell’ uno o l’altro contendente, o meglio, certamente è lontano dal monsignore, ma esaspera talmente gli interventi dell’infervorato giovane prete, tanto da farlo sembrare un folle delirante. Eppure, a legger bene, il giovane antagonista, pur animatamente, nel voler difendere Tombo, condannato a morte per aver oltraggiato – involontariamente: è uno scimpanzé - il Corpo di Cristo (l’ostia consacrata), non è lontano da una “fede ragionevole”: “L’uomo pecca soltanto perché non può non peccare; ma poi non pecca. Né può essergli il male più gradito o necessario del bene, anzi non può essergli neppure necessario; perché è, come il bene, lui stesso. Ed è lui stesso perché è Dio stesso. Non c’è male e non c’è bene. Il male e il bene, anch’essi, sono, ché Dioè soltanto. E sono come una cosa sola, non l’uno contro l’altro. Anch’essi sono il corpo vivente di Dio…”(p.83).
Siamo decisamente su un territorio teologico, ma anche filosofico, dove, come ripeto, l’interpretazione del messaggio primordiale del Cristo va a confrontarsi con la capacità di discernimento, con la coscienza di sé, con il libero arbitrio, con il concetto di natura umana. Siamo a immagine e somiglianza di Dio? Siamo compenetrati da Dio? Siamo solo un suo riuscito prodotto? Ma se siamo cosi riusciti, il più riuscito essere da Lui creato, perché non dovremmo essere partecipi della sua essenza? Perché, essendo sua diretta emanazione, non potremmo essere veramente a sua stessa immagine? E poi, se ci ha donato il libero arbitrio, la capacità di scegliere consapevolmente, di discernere, di agire consci d’ogni conseguenza, perché dovrebbe punirci per aver esercitato queste capacità da Lui stesso fornite? Questo, in sostanza, a quel che ho interpretato, sembra chiedersi Landolfi, nemmeno troppo velatamente.
Avrete capito certo, fuori da ogni possibile apparenza o suggestione legata al titolo, quanto complesse e degne di nota e spunti riflessivi possano essere queste appena cento pagine, questo racconto che, a opinione del suo creatore, è il migliore da lui realizzato. A conforto di questa tesi si espresse Montale, che considerò Le due zittelle, nella prefazione anonima - comunque a lui attribuita – al testo:“…uno dei maggiori incubi psicologici e morali della moderna letteratura europea”. Per quel che conosco della letteratura del tempo, non posso che sottoscrivere. Siamo infatti nel marzo del 1943, periodo nel quale lo scrittore casertano termina di scrivere Le due zittelle, dapprima pubblicato su un quotidiano, poi stampato in volume, ma edito da Bompiani solo tre anni dopo. Bompiani e non Vallecchi, rara “escursione” del nostro verso altri lidi editoriali, dovuta all’attendismo del precedente editore - tutto rientrato, ad ogni modo, con tanto di riacquisizione dei diritti dell’opera, dal testo successivo: il legame Landolfi-Vallecchi durò ancora per molti anni.
All’interno de Le due zittelle si respira un’aria che ricorda le splendide descrizioni in versi e musica – per noi tutti più recenti – del compiantoFabrizio De André: non tanto per il linguaggio, comunque rimarchevole e ricercato in ambedue, quanto per le atmosfere, le stesse contenute nelle indimenticate ballate del primo De André, come La città vecchia,Bocca di rosa e Via del campo.
Un testo notevole, dunque, per le molteplici ragioni che mi sono sforzato di portarvi ad evidenza, in cui – a mio personalissimo parere – l’amarezza sovrasta il sarcasmo (e la satira), pur elargito a piene mani. Resta l’assurdo, la condanna a morte di uno scimpanzé, unico “vero vivente” in un regno di morti, in una casa fattasi tomba da tempo immemore, per le inquiline zittelle, alle quali Landolfi, nemmeno nella conclusione, raccontandoci delle anime del racconto, regala un briciolo di dignità narrativa: “Qui appunto son sepolte le due zittelle, di cui anche spero che riposino in pace. E a chi guardi attorno pare, insomma, che su ogni cosa si sia deposta un’impalpabile polverina grigia” (p.101).
E mi chiedo, come è possibile che testi di tale spessore riposino da lungo tempo nell’oblio della letteratura nostrana? Ergo, le antologie italiane sono piene di evidenti usurpatori: c’è qualcosa che non mi torna.
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova. Tradusse – tra gli altri – Novalis, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Lermontov, Puskin.
Tommaso Landolfi, Le due zittelle, prima edizione Adelphi: settembre 1992, decime edizione: febbraio 2006. Nota al testo di Idolina Landolfi.
Tommaso Landolfi, Le due zittelle, prima edizione, Bompiani: gennaio 1946.
Piccola Biblioteca Adelphi
Due anziane e devote «zittelle», Lilla e Nena, sprofondate nella più tetra e «muffosa» provincia italiana, prigioniere di un’esistenza sulla quale sembra essersi depositata «un’impalpabile polverina grigia»; una vecchia madre paralizzata ma implacabilmente autoritaria, che comunica solo percuotendosi il petto; una beffarda e turbolenta scimmia, Tombo, unico «maschio di casa», anche se «debitamente castrato»; e sullo sfondo «un’annosetta fantesca», Bellonia, assolutamente simile alle padrone. Ci sono tutti i presupposti per un bonario e ironico bozzetto, per una vecchia stampa provinciale di sapore palazzeschiano. Ma cosa succede se, appena liberate dall’incubo della dispotica madre, le due «zittelle» (e già la grafia, che gioca sul falso etimo «zitta», lascia presagire i biliosi intenti dell’autore) scoprono che di notte Tombo inscena sfrenati e blasfemi cerimoniali nella cappella dell’attiguo monastero? E se, a giudicare dell’operato della scimmia, vengono chiamati due religiosi, monsignor Tostini, appartenente alla più «declamatoria e retriva genia» degli uomini di fede, e il giovane padre Alessio, veemente e appassionato seguace di un Dio estraneo alle «complicate partite di dare ed avere» degli uomini? Succede che i due si scontrano senza esclusione di colpi e che il fortunato lettore può assistere alla più incredibile e fulminante delle dispute teologiche. Ma anche che il tranquillo bozzetto lascia improvvisamente posto al più oltraggioso sarcasmo, alla più acre irriverenza di quello che Landolfi ha sempre considerato «il mio miglior racconto» e Montale definì, nel risvolto della prima edizione, uno dei «maggiori “incubi” psicologici e morali della moderna letteratura europea». Questo racconto apparve prima a puntate sul «Mondo» nel 1945 e poi in volume nel 1946.
LANDOLFI TOMMASO
LE DUE ZITTELLE
Léon
"E laggiù, in un angolo del giardino annesso alla loro vecchia casa, fra le zolle che la primavera cominciava a spaccare, ai piedi d’un giovane noce che stava mettendo le prime foglie, seppellì Tombo con tutti gli onori. Era una giornata dolce, c’era un odore di salvia e chioccolio di galline dagli orti accanto; il sole principiava appena a scottare. Laggiù dunque mi auguro riposi ancora in pace l’eroe di questa storia”(p.98).
Cominciamo dunque dalla fine, da questo splendido e malinconico passo con cui Landolfi si congeda dal suo atipico protagonista. Un scimmia, o “scimia”, come usa scrivere l’autore di Pico lungo tutto l’arco della narrazione, che diventa, suo malgrado, simbolo della follia del dogma, della fede cieca, dell’annichilimento consapevole del proprio libero arbitrio, in “ragione” – mai termine fu usato più a sproposito – di un’ottusa convinzione assai diffusa nei paesini dell’Italia rurale del tempo: tutto è peccato, o quasi – soprattutto se si ha a che fare con la religione.
Ma torniamo al principio, al contesto in cui Landolfi ambienta questa novella corrosiva. Un paesino qualunque (del basso Lazio, o del meridione, sembrerebbe), grigio e ignorante quanto basta, che non si priva di nessuno degli stereotipi del caso. Ma Landolfi scorre subito oltre, alle due altrettanto grigie possibili protagoniste, visto il titolo: due zittelle. Due zittelle? Eh, si, proprio due zittelle: due zitelle zitte, come ci spiega lo stesso autore. Se avete letto almeno alcuni dei numerosi pezzi, contenuti nel sito, su opere di Landolfi, allora ben saprete o immaginerete quanto il nostro ami giocar con le parole, con la lingua, finanche con la sintassi, inventando spesso veri e propri neologismi e avventurandosi in ardite costruzioni narrative. Detto ciò, non vi sorprenderete certo di questo titolo, che ha il pregio di fotografare con una immagine sarcastica l’intera prima parte del libro. Anziane, brutte e baffute (mustacchiose, ci dice Landolfi), le zittelle Lilla e Nena sono succubi di una madre vecchia quanto un rudere, malata, e nonostante ciò più che mai dispotica, nemmeno arrendevole una volta sopraggiunta la quasi totale immobilità fisica. Soggiogate psicologicamente, sostanzialmente serve fino alla dipartita – assai tardiva – della vecchia, morigerate e timorate di Dio, le due anziane sorelle vivono da sempre nella loro borghese casa-prigione; non hanno mai conosciuto un uomo in senso “biblico” – e Landolfi lo rimarca senza pietà -, sono sostanzialmente due esseri inutili e privi di senso e di ragione, presente e futura. Con loro vive Tombo, scimmiotto approdato in dono nella casa delle due sorelle, evocante il ricordo del fratello contrammiraglio, purtroppo deceduto, ma vissuto quanto basta per portare l’animale al paese, al ritorno da uno dei suoi lunghi viaggi. Alla morte della madre, pertanto, in casa (soprav)vivono le zittelle, la domestica – anch’ella brutta e ignorante quanto basta – e Tombo, decisamente il più vivace della compagnia. Vivacità, ahilui, che gli costerà assai cara, che creerà addirittura accese dispute telologiche, che ci condurrà ad un epilogo, come dicevo all’inizio, che trasforma la satira in fitta malinconia, in una sorta di parabola sulle beffe dell’esistenza, in un teatro dell’assurdo, fin troppo verosimile. Landolfi aveva questa capacità naturale di narrare evocando sentimenti contrastanti, mai banali e mai tenui, soprattutto. In siffatto racconto il tormento dell’autore è evidente, il rifiuto delle convenzioni degli uomini del suo tempo più che palese, il disprezzo per i personaggi-stereotipo che inventa assoluto, senza alcuna possibilità di salvezza o redenzione. Non inganni la satira, perché qui si ride amarissimo e in parte, che strano non vi sembri, ci si commuove: l’epilogo di Tombo, reo solo del sentirsi vivo in una casa di “morti viventi”, fa davvero male, ancorché si tratti di un animale, del non troppo amato scimpanzé – mica un micietto o un cagnolino, cari animali domestici. Landolfi anche in questo dimostra la distanza emotiva dagli uomini, propria di colui – dei tanti, non vi stupite – che trovano la dignità di un animale non meno importante di quella di un essere umano. Di qui anche la disputa religiosa, farsesca e surreale quanto volete, ma quanto mai caustica e tagliente, nella quale l’autore casertano mette a contrasto la fede inscalfibile con il libero arbitrio, il dogma cieco con la “ragione ragionevole”, non dunque la “ragione come ideologia”. La disputa religiosa, tra un severo e anziano monsignore e un giovane prete, costituisce il motivo principale dell’opera, il corpo della narrazione. Difficile capire se Landolfi avvicini le teorie dell’ uno o l’altro contendente, o meglio, certamente è lontano dal monsignore, ma esaspera talmente gli interventi dell’infervorato giovane prete, tanto da farlo sembrare un folle delirante. Eppure, a legger bene, il giovane antagonista, pur animatamente, nel voler difendere Tombo, condannato a morte per aver oltraggiato – involontariamente: è uno scimpanzé - il Corpo di Cristo (l’ostia consacrata), non è lontano da una “fede ragionevole”: “L’uomo pecca soltanto perché non può non peccare; ma poi non pecca. Né può essergli il male più gradito o necessario del bene, anzi non può essergli neppure necessario; perché è, come il bene, lui stesso. Ed è lui stesso perché è Dio stesso. Non c’è male e non c’è bene. Il male e il bene, anch’essi, sono, ché Dioè soltanto. E sono come una cosa sola, non l’uno contro l’altro. Anch’essi sono il corpo vivente di Dio…”(p.83).
Siamo decisamente su un territorio teologico, ma anche filosofico, dove, come ripeto, l’interpretazione del messaggio primordiale del Cristo va a confrontarsi con la capacità di discernimento, con la coscienza di sé, con il libero arbitrio, con il concetto di natura umana. Siamo a immagine e somiglianza di Dio? Siamo compenetrati da Dio? Siamo solo un suo riuscito prodotto? Ma se siamo cosi riusciti, il più riuscito essere da Lui creato, perché non dovremmo essere partecipi della sua essenza? Perché, essendo sua diretta emanazione, non potremmo essere veramente a sua stessa immagine? E poi, se ci ha donato il libero arbitrio, la capacità di scegliere consapevolmente, di discernere, di agire consci d’ogni conseguenza, perché dovrebbe punirci per aver esercitato queste capacità da Lui stesso fornite? Questo, in sostanza, a quel che ho interpretato, sembra chiedersi Landolfi, nemmeno troppo velatamente.
Avrete capito certo, fuori da ogni possibile apparenza o suggestione legata al titolo, quanto complesse e degne di nota e spunti riflessivi possano essere queste appena cento pagine, questo racconto che, a opinione del suo creatore, è il migliore da lui realizzato. A conforto di questa tesi si espresse Montale, che considerò Le due zittelle, nella prefazione anonima - comunque a lui attribuita – al testo:“…uno dei maggiori incubi psicologici e morali della moderna letteratura europea”. Per quel che conosco della letteratura del tempo, non posso che sottoscrivere. Siamo infatti nel marzo del 1943, periodo nel quale lo scrittore casertano termina di scrivere Le due zittelle, dapprima pubblicato su un quotidiano, poi stampato in volume, ma edito da Bompiani solo tre anni dopo. Bompiani e non Vallecchi, rara “escursione” del nostro verso altri lidi editoriali, dovuta all’attendismo del precedente editore - tutto rientrato, ad ogni modo, con tanto di riacquisizione dei diritti dell’opera, dal testo successivo: il legame Landolfi-Vallecchi durò ancora per molti anni.
All’interno de Le due zittelle si respira un’aria che ricorda le splendide descrizioni in versi e musica – per noi tutti più recenti – del compiantoFabrizio De André: non tanto per il linguaggio, comunque rimarchevole e ricercato in ambedue, quanto per le atmosfere, le stesse contenute nelle indimenticate ballate del primo De André, come La città vecchia,Bocca di rosa e Via del campo.
Un testo notevole, dunque, per le molteplici ragioni che mi sono sforzato di portarvi ad evidenza, in cui – a mio personalissimo parere – l’amarezza sovrasta il sarcasmo (e la satira), pur elargito a piene mani. Resta l’assurdo, la condanna a morte di uno scimpanzé, unico “vero vivente” in un regno di morti, in una casa fattasi tomba da tempo immemore, per le inquiline zittelle, alle quali Landolfi, nemmeno nella conclusione, raccontandoci delle anime del racconto, regala un briciolo di dignità narrativa: “Qui appunto son sepolte le due zittelle, di cui anche spero che riposino in pace. E a chi guardi attorno pare, insomma, che su ogni cosa si sia deposta un’impalpabile polverina grigia” (p.101).
E mi chiedo, come è possibile che testi di tale spessore riposino da lungo tempo nell’oblio della letteratura nostrana? Ergo, le antologie italiane sono piene di evidenti usurpatori: c’è qualcosa che non mi torna.
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova. Tradusse – tra gli altri – Novalis, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Lermontov, Puskin.
Tommaso Landolfi, Le due zittelle, prima edizione Adelphi: settembre 1992, decime edizione: febbraio 2006. Nota al testo di Idolina Landolfi.
Tommaso Landolfi, Le due zittelle, prima edizione, Bompiani: gennaio 1946.
Tommaso Landolfi Viola di morte
Biblioteca Adelphi
La prosa di Landolfi, tra le più musicali della letteratura italiana, lascia intravedere in filigrana un’ambizione poetica dirompente ma al tempo stesso messa a tacere, forse per l’oscuro timore – evocato in un racconto del 1937, «Night must fall» – che a lasciarsi andare «ne sarebbe venuto fuori qualcosa di troppo bello ... e allora tutto sarebbe finito e riprecipitato in una voragine senza fondo». Ancorché non esercitata, tuttavia, quella «divina facoltà» non poteva che riaffiorare: non a caso, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, mentre si accentua il suo sdegnoso isolamento, Landolfi abbandona ogni progetto di romanzo per dedicarsi a una scrittura diaristica, e dunque innocente, che prepara il ritorno alla poesia. «Non trovo conforto / Se non nelle distorte / Battute / D’una musica perduta. / La prosa m’opprime: / Non la parola che dirime, / Mi giova, / Ma l’avventurosa prova / Del verso gettato al vento» leggiamo inViola di morte, diario in versi apparso nel 1972, dove Landolfi ci mostra quel volto che sempre aveva velato «in modo quasi ossessivo, come se fosse dominato da un puro istinto di sopravvivenza che lo costringa a ripetere continuamente il suo nome» (Citati). Ed è il volto sublimemente lunare e tenebroso, talora deformato dal rancore, di chi, murato in «queste aride sedi / Di terrore e d'angoscia», non conosce che la «Soverchiante fatica / Della vita vissuta», il dileguarsi dell'amore e il dilagare della morte – castigo terribile di un Dio livido e iniquo. Ma il sogno che «il nulla avvolga nelle sue pieghe dissimulate, fruscianti e trionfali ogni cosa e ogni persona» cela il bruciante desiderio di cogliere «tutto ciò che sta “più in là”, e di cui non vedremo mai traccia», e persino rabbie e furie non sono che «sempre rinnovate dichiarazioni d'amore all'infinito» – talché, e sono ancora parole di Citati, il senso ultimo di Viola di morte è quello di «un’attesa senza nome, di una nostalgia continuamente delusa, di una speranza che osa appena intravedere un vago fantasma lungo i nuvolosi e fuggevoli confini del cielo». Collisione, quella tra un mondo atrocemente rimpianto e la sua perentoria negazione – e dunque tra canto e istanza ragionante –, che trova in questi versi una mirabile espressione: Credevo allora d'essere in esilio E che un prossimo giorno Avrei potuto far ritorno Al mio reame sconfinato, e tutto Che qui m'era rapito O rimaneva inascoltato – Soavità, bellezza, Amore, gioia, tenerezza, Gloria, potenza – mi sarebbe reso. Oggi ben so che questo, Questo e non altro è il sordo regno mio
LANDOLFI TOMMASOVIOLA DI MORTEAngela Migliore
Seconda delle tre raccolte poetiche di Tommaso Landolfi, “Viola di morte” fa registrare un’inversione di tendenza all’interno della vasta produzione del frosinate che, dalla diaristica, passa ai versi per poter dar voce a quell’io chiuso nel suo mondo intriso di solitudine.
È lo scrivere a rompere il silenzio perché “non il cuore, ma la penna, modera i nostri sconforti: dovunque la penna arrivi si ritira il suicidio”. Landolfi affida alla poesia il “sibilo dolce e disperato” dei suoi pensieri e tuttavia, pur riconoscendola come unica libertà reale concessa all’uomo, nutre la sofferenza di non averla come amica (La poesia, la sola) e alimenta il “vizio osceno dei versi” rimanendo “vuoto e solo con foglio immacolato”, nel tentativo di vincere l’immane fatica di vivere e, con essa, il terrore del nuovo giorno che cova oltraggio (Soverchiante fatica).
Nonostante il discutibile gusto per la rima e le assonanze, che spesso mortificano la parola riducendola a mero suono, è indiscutibile la forza lirica di alcuni passaggi, che rendono mirabilmente la dimensione del dissidio interiore dell’autore: “scheletro d’un cuore” livido nel suo contrasto col mondo e con Dio, attraverso il quale esprime la propria stessa renitenza alla vita, considerata gran vanto (Procede per leve forzate).
Quel Dio che “ci sfida e doma, e ci ricatta”. Quel “buon dio maledetto” dal quale Landolfi si difende con ambedue le ali spezzate(L’assiuolo caduto). Quel Dio nel cui livore riconosce sarcasticamente una forma d’amore (Perché ci avrebbe tanto fieramente).
In quest’ottica, quindi, la vita è intesa come insopportabile tortura e l’aurora nasce a conferma di una affannosa ricerca che, ciclica, viene disattesa, sottolineando ancora una volta l’approccio problematico alla fede e la conseguente disillusione di chi, con dolore, sente che “la nostra furia di ragione (o di cuore, che poi fanno tutt’una) non sarà mai riposo o assoluzione”. Ne deriva, il vuoto inconsolabile che converte il “battere alle porte della vita (…) in sollecitazione della morte”, ripetutamente invocata come liberazione e che tuttavia “ci governa e ci minaccia; e noi, gli schiavi di noi stessi schiavi, chiniamo i capi ignavi al sole della sua materna faccia”. A fare da sfondo, la metafora delle stagioni che si susseguono con i loro diversi colori e profumi, evidenziando come “siano gli anni il solo nostro avere”. Appare netta, quindi, la dicotomia di Landolfi che “vuole giacere nel suo solco”, pregno della “sinfonia del tempo scialacquato”, riconoscendo nel “nulla ciò ch’egli si scalda dentro”(La sinfonia del tempo scialacquato), eppure consapevole della maschera (La maschera è una forza) nella quale si costringe, finendo col sentirsi “chiuso nel mondo come in una bara”.
Ed è attesa della morte con “nel presente il passato addormentato”,è attesa impavida e rassegnata, giacché “è rischio di nascita la morte”: “vivemmo, morremo: non è di ciò, che teme l’anima, ma della vita furente che vive e seguita perennemente”. In assenza.
In assenza di sé. In assenza di qualsivoglia speranza. In assenza della propria donna fuggita: di lei, “o maledetta sopra tutte cara, eponima del suo perduto riso”.
L’amore è lontananza e tormento e speranza di ricongiungimento. Landolfi vive proteso verso il ritorno e palesa lo smarrimento frutto della dipendenza da colei che mette distanza per non “essere compresa e irretita nelle sue lebbre”. Sono pagine intense che mostrano la totale fragilità di un uomo dichiaratosi incapace di vincere l’inferno (Visetto lustro della mattutina) senza la possibilità di avere accanto la persona amata, costantemente appellata come maledetta, proprio in virtù del vuoto che gli lascia dentro.
“Tu arginavi la morte, amore: adesso essa a guisa di piena mi sommerge”.
L’attesa diventa unica ragione di vita e, al contempo, preziosa illusione che Landolfi nega nel tentativo di non infrangerla, preferendo coltivare un desiderio irrealizzabile pur di non staccarsi dall’idea della riconciliazione. Tuttavia c’è la piena consapevolezza che la profondità del suo sentimento sia alimentata proprio dall’assenza.
“Non ti aspetto, o compagna d’una sorte ribelle: so quanto sarà vano il tuo ritorno. E fosse, vano: ché sarà feroce e sgominerà l’ultima speranza. Posso invocare la tua voce, se tu non sei; se sei, nulla mi avanza”.
Anche l’amore, quindi, si riduce in solitudine, generando isolamento. Anche l’amore è monologo. È parlarsi addosso arrivando ad innescare la metamorfosi dello scrivente che si fa materia stessa del suo scrivere.Uno scrivere che è impastarsi col foglio e sporcarlo di sé, per esprimere un’impossibilità.
Impossibilità di vivere, impossibilità di amare.
Impossibilità, dea senza altare, di cui forse nell’età da venire Landolfi sarà detto il cantore. (Impossibilità)
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova. Tradusse – tra gli altri – Novalis, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Lermontov, Puskin.
Tommaso Landolfi, “Viola di morte”, Vallecchi, Firenze, 1972.
La prosa di Landolfi, tra le più musicali della letteratura italiana, lascia intravedere in filigrana un’ambizione poetica dirompente ma al tempo stesso messa a tacere, forse per l’oscuro timore – evocato in un racconto del 1937, «Night must fall» – che a lasciarsi andare «ne sarebbe venuto fuori qualcosa di troppo bello ... e allora tutto sarebbe finito e riprecipitato in una voragine senza fondo». Ancorché non esercitata, tuttavia, quella «divina facoltà» non poteva che riaffiorare: non a caso, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, mentre si accentua il suo sdegnoso isolamento, Landolfi abbandona ogni progetto di romanzo per dedicarsi a una scrittura diaristica, e dunque innocente, che prepara il ritorno alla poesia. «Non trovo conforto / Se non nelle distorte / Battute / D’una musica perduta. / La prosa m’opprime: / Non la parola che dirime, / Mi giova, / Ma l’avventurosa prova / Del verso gettato al vento» leggiamo inViola di morte, diario in versi apparso nel 1972, dove Landolfi ci mostra quel volto che sempre aveva velato «in modo quasi ossessivo, come se fosse dominato da un puro istinto di sopravvivenza che lo costringa a ripetere continuamente il suo nome» (Citati). Ed è il volto sublimemente lunare e tenebroso, talora deformato dal rancore, di chi, murato in «queste aride sedi / Di terrore e d'angoscia», non conosce che la «Soverchiante fatica / Della vita vissuta», il dileguarsi dell'amore e il dilagare della morte – castigo terribile di un Dio livido e iniquo. Ma il sogno che «il nulla avvolga nelle sue pieghe dissimulate, fruscianti e trionfali ogni cosa e ogni persona» cela il bruciante desiderio di cogliere «tutto ciò che sta “più in là”, e di cui non vedremo mai traccia», e persino rabbie e furie non sono che «sempre rinnovate dichiarazioni d'amore all'infinito» – talché, e sono ancora parole di Citati, il senso ultimo di Viola di morte è quello di «un’attesa senza nome, di una nostalgia continuamente delusa, di una speranza che osa appena intravedere un vago fantasma lungo i nuvolosi e fuggevoli confini del cielo». Collisione, quella tra un mondo atrocemente rimpianto e la sua perentoria negazione – e dunque tra canto e istanza ragionante –, che trova in questi versi una mirabile espressione: Credevo allora d'essere in esilio E che un prossimo giorno Avrei potuto far ritorno Al mio reame sconfinato, e tutto Che qui m'era rapito O rimaneva inascoltato – Soavità, bellezza, Amore, gioia, tenerezza, Gloria, potenza – mi sarebbe reso. Oggi ben so che questo, Questo e non altro è il sordo regno mio
LANDOLFI TOMMASOVIOLA DI MORTEAngela Migliore
Seconda delle tre raccolte poetiche di Tommaso Landolfi, “Viola di morte” fa registrare un’inversione di tendenza all’interno della vasta produzione del frosinate che, dalla diaristica, passa ai versi per poter dar voce a quell’io chiuso nel suo mondo intriso di solitudine.
È lo scrivere a rompere il silenzio perché “non il cuore, ma la penna, modera i nostri sconforti: dovunque la penna arrivi si ritira il suicidio”. Landolfi affida alla poesia il “sibilo dolce e disperato” dei suoi pensieri e tuttavia, pur riconoscendola come unica libertà reale concessa all’uomo, nutre la sofferenza di non averla come amica (La poesia, la sola) e alimenta il “vizio osceno dei versi” rimanendo “vuoto e solo con foglio immacolato”, nel tentativo di vincere l’immane fatica di vivere e, con essa, il terrore del nuovo giorno che cova oltraggio (Soverchiante fatica).
Nonostante il discutibile gusto per la rima e le assonanze, che spesso mortificano la parola riducendola a mero suono, è indiscutibile la forza lirica di alcuni passaggi, che rendono mirabilmente la dimensione del dissidio interiore dell’autore: “scheletro d’un cuore” livido nel suo contrasto col mondo e con Dio, attraverso il quale esprime la propria stessa renitenza alla vita, considerata gran vanto (Procede per leve forzate).
Quel Dio che “ci sfida e doma, e ci ricatta”. Quel “buon dio maledetto” dal quale Landolfi si difende con ambedue le ali spezzate(L’assiuolo caduto). Quel Dio nel cui livore riconosce sarcasticamente una forma d’amore (Perché ci avrebbe tanto fieramente).
In quest’ottica, quindi, la vita è intesa come insopportabile tortura e l’aurora nasce a conferma di una affannosa ricerca che, ciclica, viene disattesa, sottolineando ancora una volta l’approccio problematico alla fede e la conseguente disillusione di chi, con dolore, sente che “la nostra furia di ragione (o di cuore, che poi fanno tutt’una) non sarà mai riposo o assoluzione”. Ne deriva, il vuoto inconsolabile che converte il “battere alle porte della vita (…) in sollecitazione della morte”, ripetutamente invocata come liberazione e che tuttavia “ci governa e ci minaccia; e noi, gli schiavi di noi stessi schiavi, chiniamo i capi ignavi al sole della sua materna faccia”. A fare da sfondo, la metafora delle stagioni che si susseguono con i loro diversi colori e profumi, evidenziando come “siano gli anni il solo nostro avere”. Appare netta, quindi, la dicotomia di Landolfi che “vuole giacere nel suo solco”, pregno della “sinfonia del tempo scialacquato”, riconoscendo nel “nulla ciò ch’egli si scalda dentro”(La sinfonia del tempo scialacquato), eppure consapevole della maschera (La maschera è una forza) nella quale si costringe, finendo col sentirsi “chiuso nel mondo come in una bara”.
Ed è attesa della morte con “nel presente il passato addormentato”,è attesa impavida e rassegnata, giacché “è rischio di nascita la morte”: “vivemmo, morremo: non è di ciò, che teme l’anima, ma della vita furente che vive e seguita perennemente”. In assenza.
In assenza di sé. In assenza di qualsivoglia speranza. In assenza della propria donna fuggita: di lei, “o maledetta sopra tutte cara, eponima del suo perduto riso”.
L’amore è lontananza e tormento e speranza di ricongiungimento. Landolfi vive proteso verso il ritorno e palesa lo smarrimento frutto della dipendenza da colei che mette distanza per non “essere compresa e irretita nelle sue lebbre”. Sono pagine intense che mostrano la totale fragilità di un uomo dichiaratosi incapace di vincere l’inferno (Visetto lustro della mattutina) senza la possibilità di avere accanto la persona amata, costantemente appellata come maledetta, proprio in virtù del vuoto che gli lascia dentro.
“Tu arginavi la morte, amore: adesso essa a guisa di piena mi sommerge”.
L’attesa diventa unica ragione di vita e, al contempo, preziosa illusione che Landolfi nega nel tentativo di non infrangerla, preferendo coltivare un desiderio irrealizzabile pur di non staccarsi dall’idea della riconciliazione. Tuttavia c’è la piena consapevolezza che la profondità del suo sentimento sia alimentata proprio dall’assenza.
“Non ti aspetto, o compagna d’una sorte ribelle: so quanto sarà vano il tuo ritorno. E fosse, vano: ché sarà feroce e sgominerà l’ultima speranza. Posso invocare la tua voce, se tu non sei; se sei, nulla mi avanza”.
Anche l’amore, quindi, si riduce in solitudine, generando isolamento. Anche l’amore è monologo. È parlarsi addosso arrivando ad innescare la metamorfosi dello scrivente che si fa materia stessa del suo scrivere.Uno scrivere che è impastarsi col foglio e sporcarlo di sé, per esprimere un’impossibilità.
Impossibilità di vivere, impossibilità di amare.
Impossibilità, dea senza altare, di cui forse nell’età da venire Landolfi sarà detto il cantore. (Impossibilità)
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova. Tradusse – tra gli altri – Novalis, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Lermontov, Puskin.
Tommaso Landolfi, “Viola di morte”, Vallecchi, Firenze, 1972.
TOMMASO LANDOLFI IN SOCIETA'
Piccola Biblioteca Adelphi
«Io ho una gamba di legno ... Ragion per cui odio le donne»: così esordisce, sfidandoci con la sua voce grottescamente raziocinante, il protagonista di L’eterna provincia prima di travolgerci col disegno di una gelida vendetta: farà innamorare di sé alla follia una donna e poi la umilierà con lo strumento della sua stessa menomazione per punire attraverso di lei tutte le donne. Ma al momento decisivo, quando la prescelta – una giovane formosa e bella, segnata da una «sconosciuta ed affiorante pena» – sarà nuda e pudica di fronte a lui, l’imprevedibile accadrà. Nella vita, del resto, tutto è incerto, contraddittorio. Tutto è a caso. Ogni cosa sembra essere «in margine a se medesima», e persino gli affetti familiari e la letteratura offrono solo irragionevoli appigli, talché in I due figli di Stefano allo scrittore che ha appena perso il figlio indesiderato – un «esserino» mostruoso e infernale – non resta che contemplare anche il naufragio del poema drammatico cui era affidata la speranza di sfuggire al «fiato guasto delle realtà quotidiane»; e in La dea cieca o veggente la poesia è ridotta a gioco combinatorio, a roulette alla rovescia. «Non domandatemi insomma come sia finita:» si legge a conclusione diL’eterna provincia «tutto finisce male».
«Io ho una gamba di legno ... Ragion per cui odio le donne»: così esordisce, sfidandoci con la sua voce grottescamente raziocinante, il protagonista di L’eterna provincia prima di travolgerci col disegno di una gelida vendetta: farà innamorare di sé alla follia una donna e poi la umilierà con lo strumento della sua stessa menomazione per punire attraverso di lei tutte le donne. Ma al momento decisivo, quando la prescelta – una giovane formosa e bella, segnata da una «sconosciuta ed affiorante pena» – sarà nuda e pudica di fronte a lui, l’imprevedibile accadrà. Nella vita, del resto, tutto è incerto, contraddittorio. Tutto è a caso. Ogni cosa sembra essere «in margine a se medesima», e persino gli affetti familiari e la letteratura offrono solo irragionevoli appigli, talché in I due figli di Stefano allo scrittore che ha appena perso il figlio indesiderato – un «esserino» mostruoso e infernale – non resta che contemplare anche il naufragio del poema drammatico cui era affidata la speranza di sfuggire al «fiato guasto delle realtà quotidiane»; e in La dea cieca o veggente la poesia è ridotta a gioco combinatorio, a roulette alla rovescia. «Non domandatemi insomma come sia finita:» si legge a conclusione diL’eterna provincia «tutto finisce male».
Tommaso Landolfi Il principe infelice
Piccola Biblioteca Adelphi
Un principe brillante e leggiadro studia per sette anni chiuso in un castello sulle cui pareti è iscritto tutto lo scibile umano. Ottiene così una insuperabile sapienza ma finisce per sprofondare nella più tetra malinconia. Solo un bel sogno potrà salvarlo, e tre principesse partono alla volta del Paese dei Sogni per dissipare quella tristezza e conquistare la sua mano: Rami, povera e innamorata, dal fragile cuore che tintinna come cristallo di rocca e minaccia di spezzarsi a ogni emozione, e Ossala e Vanina, avide e viperine. Di Landolfi questo incantevole «romanzo per bambini» ci rivela una faccia – quella di scrittore per l’infanzia – decisamente poco nota, ma che scopriamo ben presto familiare: basta leggere la descrizione, dalle lattescenze d’opale, dell’Impero della Luna. O quella, di un nero funesto, del Paese dei Sogni, dove l’incubo che tormenta un assassino impunito ha l’aspetto di un uomo dal viso giallo come cera e coperto di sangue, che avanza con le braccia leva- te, ululando, mentre il sangue gli gocciola persino dalla punta delle dita. E basta leggere il sardonico finale della Raganella d’oro – il secondo «libretto per bambini» incluso in questo volume –, dove il palafreniere Teraponte, biondo, mite e devoto, si cimenta con un gigante sanguinario, dall’enorme corpo peloso e dal grifo d’orco, per salvare Uriana, la principessa di cui è innamorato: «Tant’è che lo sappiate fin d’ora: al mondo non sempre i buoni e generosi hanno la ricompensa che si meritano».Insieme al Principe infelice(scritto nel 1938 e pubblicato nel 1943) e alla Raganella d’oro (del 1947, edito nel 1954) vengono qui riproposti anche tre brevi racconti – i Colloqui – e tre filastrocche che apparvero fra il 1967 e il 1968 in volumi collettivi curati da Giovanni Arpino.
LANDOLFI TOMMASOIL PRINCIPE INFELICE LéonPrima incursione nella letteratura per l’infanzia, Il principe infelice (scritto nel 1938 e pubblicato nel 1943) consente – nuovamente, e in un contesto di genere “leggero” - a Tommaso Landolfi di liberare il suo mondo fantastico e immaginifico, già evidente sin dalla prima opera. Due storie (Il principe infelice, La raganella d’oro), tre colloqui (Il Pitecantropo, Munuppo, Popolello e Cisternario, L’uomo azzurro o delle Gallerie) e tre filastrocche (Sale e pepe, Ta, Tarà, Tatà, Grande Filastrocca negativa con tocco finale) sono il corpus dell’opera; i destinatari sono dichiaratamente i bambini, ma nonostante il linguaggio sia evidentemente costruito per tenere costante l’interesse del fanciullo, Landolfi non disdegna di insinuare, tra le pieghe dello scritto, un retrogusto “morale” velatamente malinconico. Morale che un adulto può intuire già dal titolo del primo racconto, Il principe infelice, nel quale il figlio di un re saggio, abitante verso i confini dell’Impero della Luna, si intrattiene solitario in un vasto castello, per conoscere tutto lo scibile umano. Sette lunghissimi anni, tanti ce ne sono voluti al principe per diventare il più sapiente uomo del mondo; anni di conoscenza e di solitudine, di silenzio che, alla fine, si fa malinconia. Ed ecco sopraggiungere il male oscuro, la malinconia; ecco che il principe, un tempo sano e colorito, è assalito da un torpore che lo costringe a letto, pallido, immobile, praticamente senza vita. Ma una soluzione parrebbe esserci, sembra che in un luogo ai più sconosciuto, il Paese Sogni, c’è chi possa aver la cura per il principe infelice: sognare un bel sogno lui deve, solo cosi si può salvare. Tre principesse, cugine del ragazzo malato, si offrono per partire alla volta del Paese dei Sogni; soltanto una è di animo puro, e sinceramente interessata alle sorti del futuro regnante, perché mossa da amore, al contrario delle altre due, spinte solo da interesse. Ma dov’è il Paese dei Sogni? Nessuno sembra saperlo: “ Ma che dirti? Neppure io so dov’è il Paese dei Sogni, solo gli Gnomi lo sanno. Ho sentito dire che per raggiungerlo bisogna prima valicare le Montagne di Diamante, attraversare la Terra dei Fuochi Folletti, quella degli Orchi, la Brughiera delle Streghe, l’Impero della Luna, e da ultimo il Paese degli Animali Parlanti” (p.26).
Questo è l’itinerario che percorrerà la principessa Rami, fanciulla gentile dal debole cuore di vetro, la quale dopo numerose difficoltà troverà il luogo agognato, tanto che il sogno salvifico – appena in tempo – verrà sognato. Ma il destino sembra farsi beffe di lei, allorché con l’inganno avevan fermato il suo debole cuore. E non tutto è perduto, perché il sogno sognato dal principe ha come protagonista il volto – in un primo tempo sfocato – dell’amore che libera, che rigenera, che vince. E che importa se le ricchezze svaniranno a…
La seconda storia, La raganella d’oro, trasferisce la malinconia al fondo della fiaba; palesemente, attraverso un imprevedibile – trattandosi di fiaba per piccini - avvertimento di Landolfi, al fanciullo che s’apre alla vita: “ Del resto, parliamoci chiaro ancora una volta: lo so che con tutte queste chiacchiere non vi infrusco, che a voi dispiacerà che Teraponte non sposasse Uriana, che ci rimarrete male per questa fine, e che quasi v’arrabbierete con me perché non ve n’ho raccontata una più bella. Ma io che ci posso fare se Uriana aveva si (come dicono le donne) grande stima e simpatia e riconoscenza per Teraponte, eppure non lo amava? Tant’è che lo sappiate fin d’ora: al mondo non sempre i buoni e i generosi hanno la ricompensa che si meritano” (p.103).
Al di là del contesto di questa seconda novella, che inverte l’ordine dei “salvatori protagonisti” - nel primo racconto era una fanciulla che salvava un ragazzo regnante, e qui viceversa -, Landolfi sembra trasferire l’inquietudine personale, riscontrabile nell’ opera precedente, anche nel contesto fiabesco infantile. Sembra poi, sempre in linea con l’analisi brillantemente proposta in questo sito da Gianfranco Franchi, che lo scrittore nemmeno in un siffatto contesto nasconda la sua diffidenza per il genere femminile (quel “come dicono le donne”, fuggevole tra le parentesi, non è inserito a caso), evidentemente generato – non ho avuto modo di approfondire la vita dell’autore – da vissuti personali conflittuali con le donne.
Di là da ciò, è bene notare come Landolfi utilizzi un impianto fiabesco semplice e consolidato, comunque funzionale alla sua brillante vervenarrativa, che riesce a farsi spesso, nonostante il genere, intrigante descrizione di un altrove onirico quanto mai suggestivo. L’esemplificazione di ciò che ho appena affermato, in questo splendido passo – siamo nell’ Impero della Luna: Rami girava in quell’eterno crepuscolo sforzandosi inutilmente di afferrare i veri contorni delle cose: tutte erano imprecise benché, invece, nitidissime, tutte lontane e fulgenti benché prossime e velate. C’era una nebbia da cui i suoi occhi non potevano mai liberarsi, che smorzava lo sguardo eppure dava bagliori di diamante, e ogni oggetto pareva freddo, ghiacci i vestiti inzuppati di luna, gelati e senza vita i colori, la frutta di vetro, l’acqua d’alabastro, di cera il viso delle persone. Gli occhi poi di quanti la guardavano non avevano calore, ma solo un irreale scintillio, come di lagrime, che la intimoriva: tutti le sembravano larve o spettri, e quasi non osava rivolger loro parola” (p.38).
Quello appena trascritto, è decisamente lo stralcio di prosa più suggestivo ed evocativo del testo, inusuale per un libro di fiabe per bambini, eppure limpido e incantevole tanto da poter essere bene interiorizzato dal fanciullo immerso nella lettura, oramai rapito dall’incedere delineato dallo scrittore: si alternano brevi capitoli, ognuno con un titolo che anticipa sempre il contenuto degli accadimenti.
I tre colloqui sono incentrati su due soli protagonisti: un padre che racconta storie di fantasia, e una bimba che lo incalza con domande a ripetizione. Agili e brevi, i colloqui sono una sorta di “storia della buona notte”, nella quale il padre cerca di prendere per sfinimento la figlia, risultando però – alla fine – proprio colui che si sfinisce per primo: la curiosità dei bambini non conosce sonno. Si chiude con tre filastrocche, assai infantili a dire il vero (rispetto al resto), in cui Landolfi procede quasi esclusivamente per rime e assonanze, senza troppo preoccuparsi della coerenza narrativa – sono filastrocche, glielo si può ben concedere.
A conti fatti, questo primo viaggio landolfiano nell’universo fiabesco pensato per i bimbi conferma sostanzialmente il periodo di eccellente vena creativa, se si considera che Il principe infelice è immediatamente successivo – pur se uscito, come accennato in apertura di pezzo, cinque anni dopo - al Dialogo dei massimi sistemi, e di poco precedente a La pietra lunare e Il Mar delle Blatte (anche qui rimando all’opera sul sito di Gianfranco Franchi, che ha recensito i tre testi). Pur registrando un diversa prosa, certamente in Landolfi più incline alle iperboli narrative, mi sorge spontaneo il parallelo con il coevo Dino Buzzati, altro grande scrittore fin troppo dimenticato, cui non faceva difetto certo l’immaginazione, l’inclinazione al fantastico. Ne La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Buzzati costruisce un mondo fiabesco certo diverso da questo, conservando però lo stesso tormento e la malinconia di fondo: è ciò che accomuna palesemente Landolfi e Buzzati, allo stesso tempo “sacrificati” sull’altare del pensiero d’elite – erano sostanzialmente fuori dal giro, non schierati -, caratteristico dell’Italia della seconda metà del secolo precedente. Due grandi artisti da recuperare, ora che il marchio ideologico sembra influire in maniera minore nel mondo della critica letteraria. Urge ricambio di qualità nelle antologie scolastiche.
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico, 9 Agosto 1908 - Roma, 1979), scrittore, traduttore e narratore italiano.
Tommaso Landolfi, Il principe infelice e altre storie per bambini, Piccola Biblioteca Adelphi, 2004, Milano
Prima edizione: Il principe infelice, 1943, Vallecchi, Firenze.
Un principe brillante e leggiadro studia per sette anni chiuso in un castello sulle cui pareti è iscritto tutto lo scibile umano. Ottiene così una insuperabile sapienza ma finisce per sprofondare nella più tetra malinconia. Solo un bel sogno potrà salvarlo, e tre principesse partono alla volta del Paese dei Sogni per dissipare quella tristezza e conquistare la sua mano: Rami, povera e innamorata, dal fragile cuore che tintinna come cristallo di rocca e minaccia di spezzarsi a ogni emozione, e Ossala e Vanina, avide e viperine. Di Landolfi questo incantevole «romanzo per bambini» ci rivela una faccia – quella di scrittore per l’infanzia – decisamente poco nota, ma che scopriamo ben presto familiare: basta leggere la descrizione, dalle lattescenze d’opale, dell’Impero della Luna. O quella, di un nero funesto, del Paese dei Sogni, dove l’incubo che tormenta un assassino impunito ha l’aspetto di un uomo dal viso giallo come cera e coperto di sangue, che avanza con le braccia leva- te, ululando, mentre il sangue gli gocciola persino dalla punta delle dita. E basta leggere il sardonico finale della Raganella d’oro – il secondo «libretto per bambini» incluso in questo volume –, dove il palafreniere Teraponte, biondo, mite e devoto, si cimenta con un gigante sanguinario, dall’enorme corpo peloso e dal grifo d’orco, per salvare Uriana, la principessa di cui è innamorato: «Tant’è che lo sappiate fin d’ora: al mondo non sempre i buoni e generosi hanno la ricompensa che si meritano».Insieme al Principe infelice(scritto nel 1938 e pubblicato nel 1943) e alla Raganella d’oro (del 1947, edito nel 1954) vengono qui riproposti anche tre brevi racconti – i Colloqui – e tre filastrocche che apparvero fra il 1967 e il 1968 in volumi collettivi curati da Giovanni Arpino.
LANDOLFI TOMMASOIL PRINCIPE INFELICE LéonPrima incursione nella letteratura per l’infanzia, Il principe infelice (scritto nel 1938 e pubblicato nel 1943) consente – nuovamente, e in un contesto di genere “leggero” - a Tommaso Landolfi di liberare il suo mondo fantastico e immaginifico, già evidente sin dalla prima opera. Due storie (Il principe infelice, La raganella d’oro), tre colloqui (Il Pitecantropo, Munuppo, Popolello e Cisternario, L’uomo azzurro o delle Gallerie) e tre filastrocche (Sale e pepe, Ta, Tarà, Tatà, Grande Filastrocca negativa con tocco finale) sono il corpus dell’opera; i destinatari sono dichiaratamente i bambini, ma nonostante il linguaggio sia evidentemente costruito per tenere costante l’interesse del fanciullo, Landolfi non disdegna di insinuare, tra le pieghe dello scritto, un retrogusto “morale” velatamente malinconico. Morale che un adulto può intuire già dal titolo del primo racconto, Il principe infelice, nel quale il figlio di un re saggio, abitante verso i confini dell’Impero della Luna, si intrattiene solitario in un vasto castello, per conoscere tutto lo scibile umano. Sette lunghissimi anni, tanti ce ne sono voluti al principe per diventare il più sapiente uomo del mondo; anni di conoscenza e di solitudine, di silenzio che, alla fine, si fa malinconia. Ed ecco sopraggiungere il male oscuro, la malinconia; ecco che il principe, un tempo sano e colorito, è assalito da un torpore che lo costringe a letto, pallido, immobile, praticamente senza vita. Ma una soluzione parrebbe esserci, sembra che in un luogo ai più sconosciuto, il Paese Sogni, c’è chi possa aver la cura per il principe infelice: sognare un bel sogno lui deve, solo cosi si può salvare. Tre principesse, cugine del ragazzo malato, si offrono per partire alla volta del Paese dei Sogni; soltanto una è di animo puro, e sinceramente interessata alle sorti del futuro regnante, perché mossa da amore, al contrario delle altre due, spinte solo da interesse. Ma dov’è il Paese dei Sogni? Nessuno sembra saperlo: “ Ma che dirti? Neppure io so dov’è il Paese dei Sogni, solo gli Gnomi lo sanno. Ho sentito dire che per raggiungerlo bisogna prima valicare le Montagne di Diamante, attraversare la Terra dei Fuochi Folletti, quella degli Orchi, la Brughiera delle Streghe, l’Impero della Luna, e da ultimo il Paese degli Animali Parlanti” (p.26).
Questo è l’itinerario che percorrerà la principessa Rami, fanciulla gentile dal debole cuore di vetro, la quale dopo numerose difficoltà troverà il luogo agognato, tanto che il sogno salvifico – appena in tempo – verrà sognato. Ma il destino sembra farsi beffe di lei, allorché con l’inganno avevan fermato il suo debole cuore. E non tutto è perduto, perché il sogno sognato dal principe ha come protagonista il volto – in un primo tempo sfocato – dell’amore che libera, che rigenera, che vince. E che importa se le ricchezze svaniranno a…
La seconda storia, La raganella d’oro, trasferisce la malinconia al fondo della fiaba; palesemente, attraverso un imprevedibile – trattandosi di fiaba per piccini - avvertimento di Landolfi, al fanciullo che s’apre alla vita: “ Del resto, parliamoci chiaro ancora una volta: lo so che con tutte queste chiacchiere non vi infrusco, che a voi dispiacerà che Teraponte non sposasse Uriana, che ci rimarrete male per questa fine, e che quasi v’arrabbierete con me perché non ve n’ho raccontata una più bella. Ma io che ci posso fare se Uriana aveva si (come dicono le donne) grande stima e simpatia e riconoscenza per Teraponte, eppure non lo amava? Tant’è che lo sappiate fin d’ora: al mondo non sempre i buoni e i generosi hanno la ricompensa che si meritano” (p.103).
Al di là del contesto di questa seconda novella, che inverte l’ordine dei “salvatori protagonisti” - nel primo racconto era una fanciulla che salvava un ragazzo regnante, e qui viceversa -, Landolfi sembra trasferire l’inquietudine personale, riscontrabile nell’ opera precedente, anche nel contesto fiabesco infantile. Sembra poi, sempre in linea con l’analisi brillantemente proposta in questo sito da Gianfranco Franchi, che lo scrittore nemmeno in un siffatto contesto nasconda la sua diffidenza per il genere femminile (quel “come dicono le donne”, fuggevole tra le parentesi, non è inserito a caso), evidentemente generato – non ho avuto modo di approfondire la vita dell’autore – da vissuti personali conflittuali con le donne.
Di là da ciò, è bene notare come Landolfi utilizzi un impianto fiabesco semplice e consolidato, comunque funzionale alla sua brillante vervenarrativa, che riesce a farsi spesso, nonostante il genere, intrigante descrizione di un altrove onirico quanto mai suggestivo. L’esemplificazione di ciò che ho appena affermato, in questo splendido passo – siamo nell’ Impero della Luna: Rami girava in quell’eterno crepuscolo sforzandosi inutilmente di afferrare i veri contorni delle cose: tutte erano imprecise benché, invece, nitidissime, tutte lontane e fulgenti benché prossime e velate. C’era una nebbia da cui i suoi occhi non potevano mai liberarsi, che smorzava lo sguardo eppure dava bagliori di diamante, e ogni oggetto pareva freddo, ghiacci i vestiti inzuppati di luna, gelati e senza vita i colori, la frutta di vetro, l’acqua d’alabastro, di cera il viso delle persone. Gli occhi poi di quanti la guardavano non avevano calore, ma solo un irreale scintillio, come di lagrime, che la intimoriva: tutti le sembravano larve o spettri, e quasi non osava rivolger loro parola” (p.38).
Quello appena trascritto, è decisamente lo stralcio di prosa più suggestivo ed evocativo del testo, inusuale per un libro di fiabe per bambini, eppure limpido e incantevole tanto da poter essere bene interiorizzato dal fanciullo immerso nella lettura, oramai rapito dall’incedere delineato dallo scrittore: si alternano brevi capitoli, ognuno con un titolo che anticipa sempre il contenuto degli accadimenti.
I tre colloqui sono incentrati su due soli protagonisti: un padre che racconta storie di fantasia, e una bimba che lo incalza con domande a ripetizione. Agili e brevi, i colloqui sono una sorta di “storia della buona notte”, nella quale il padre cerca di prendere per sfinimento la figlia, risultando però – alla fine – proprio colui che si sfinisce per primo: la curiosità dei bambini non conosce sonno. Si chiude con tre filastrocche, assai infantili a dire il vero (rispetto al resto), in cui Landolfi procede quasi esclusivamente per rime e assonanze, senza troppo preoccuparsi della coerenza narrativa – sono filastrocche, glielo si può ben concedere.
A conti fatti, questo primo viaggio landolfiano nell’universo fiabesco pensato per i bimbi conferma sostanzialmente il periodo di eccellente vena creativa, se si considera che Il principe infelice è immediatamente successivo – pur se uscito, come accennato in apertura di pezzo, cinque anni dopo - al Dialogo dei massimi sistemi, e di poco precedente a La pietra lunare e Il Mar delle Blatte (anche qui rimando all’opera sul sito di Gianfranco Franchi, che ha recensito i tre testi). Pur registrando un diversa prosa, certamente in Landolfi più incline alle iperboli narrative, mi sorge spontaneo il parallelo con il coevo Dino Buzzati, altro grande scrittore fin troppo dimenticato, cui non faceva difetto certo l’immaginazione, l’inclinazione al fantastico. Ne La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Buzzati costruisce un mondo fiabesco certo diverso da questo, conservando però lo stesso tormento e la malinconia di fondo: è ciò che accomuna palesemente Landolfi e Buzzati, allo stesso tempo “sacrificati” sull’altare del pensiero d’elite – erano sostanzialmente fuori dal giro, non schierati -, caratteristico dell’Italia della seconda metà del secolo precedente. Due grandi artisti da recuperare, ora che il marchio ideologico sembra influire in maniera minore nel mondo della critica letteraria. Urge ricambio di qualità nelle antologie scolastiche.
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico, 9 Agosto 1908 - Roma, 1979), scrittore, traduttore e narratore italiano.
Tommaso Landolfi, Il principe infelice e altre storie per bambini, Piccola Biblioteca Adelphi, 2004, Milano
Prima edizione: Il principe infelice, 1943, Vallecchi, Firenze.
Tommaso Landolfi Se non la realtà
Piccola Biblioteca Adelphi
Romantico, ironico, divertito, polemico: è l’inatteso viaggiatore di Se non la realtà; ma anche trafitto da inquietudini che affiorano e subito trascolorano in speculazioni imprevedibili. Nelle sue peregrinazioni per l’Italia degli anni Cinquanta, Landolfi raccoglie minuti episodi, frammenti della vita di provincia: una quotidianità sopita che si accende solo all’occhio del visitatore che sa donarle volume narrativo. Per ogni città, scorre davanti a noi una galleria di personaggi tratteggiati in descrizioni tanto vivide da sfiorare e corteggiare il grottesco. Possiamo essere sicuri che Landolfi vede cose che nessun altro ha percepito o annotato. In una corriera diretta a Frosinone incontriamo mangiatori di arance che «imprendono la loro appiccicosa bisogna sputando semi dappertutto», bambini in preda al vomito aiutati da dame dallo «stinco peloso», e una «ripicchiata» professoressa di scuola media che redarguisce tutti. Al casinò, ci troviamo fra una bionda fatale che inebria gli uomini col «fortore delle ascelle» e un farmacista ormai in rovina ma imperterrito «inseguitore di numeri ritardatari». A raccordare queste storie e a renderle memorabili è ancora una volta la lingua di Landolfi, sontuosa e insieme brulicante di piccole schegge allucinatorie, ma soprattutto il suo sguardo, capace di svelare dietro a queste domestiche parvenze un grumo di fermenti angosciosi, densi di funebri presagi e di ossessioni letali.Apparsi per lo più sul «Mondo» tra il 1952 e il 1959, questi appunti di viaggio furono poi raccolti in volume da Vallecchi nel 1960.
Romantico, ironico, divertito, polemico: è l’inatteso viaggiatore di Se non la realtà; ma anche trafitto da inquietudini che affiorano e subito trascolorano in speculazioni imprevedibili. Nelle sue peregrinazioni per l’Italia degli anni Cinquanta, Landolfi raccoglie minuti episodi, frammenti della vita di provincia: una quotidianità sopita che si accende solo all’occhio del visitatore che sa donarle volume narrativo. Per ogni città, scorre davanti a noi una galleria di personaggi tratteggiati in descrizioni tanto vivide da sfiorare e corteggiare il grottesco. Possiamo essere sicuri che Landolfi vede cose che nessun altro ha percepito o annotato. In una corriera diretta a Frosinone incontriamo mangiatori di arance che «imprendono la loro appiccicosa bisogna sputando semi dappertutto», bambini in preda al vomito aiutati da dame dallo «stinco peloso», e una «ripicchiata» professoressa di scuola media che redarguisce tutti. Al casinò, ci troviamo fra una bionda fatale che inebria gli uomini col «fortore delle ascelle» e un farmacista ormai in rovina ma imperterrito «inseguitore di numeri ritardatari». A raccordare queste storie e a renderle memorabili è ancora una volta la lingua di Landolfi, sontuosa e insieme brulicante di piccole schegge allucinatorie, ma soprattutto il suo sguardo, capace di svelare dietro a queste domestiche parvenze un grumo di fermenti angosciosi, densi di funebri presagi e di ossessioni letali.Apparsi per lo più sul «Mondo» tra il 1952 e il 1959, questi appunti di viaggio furono poi raccolti in volume da Vallecchi nel 1960.
Tommaso Landolfi Gogol’ a Roma
Biblioteca Adelphi
Basta leggere che i versi giovanili di Rimbaud sono minati da «negligenza e goffaggine»; che per penetrare la grandezza di Tolstoj bisogna procedere oltre «quella cocciutaggine nel voler salvare la propria anima e se ne avanza l’altrui»; che l’Innominabile di Beckett, se può sembrare eccezionale ai profani, rischia di far «sorridere familiarmente lo psichiatra»; bastano insomma queste poche sequenze di apparente irriverenza blasfema per capire che non siamo di fronte a un critico di routine o a un cauto professore. Ci troviamo, infatti, in quella particolare regione della geografia letteraria composta dagli articoli di Tommaso Landolfi: quella regione, cioè, in cui lo scrittore più elusivo e idiosincratico del nostro Novecento rivela l’altra faccia del proprio understatement – nella radicalità tipica di chi si ostina a credere, dietro la maschera dell’ironia, «che la letteratura sia una cosa seria».È in nome di una acuta tensione conoscitiva e non solo per puro spirito di provocazione che questi veri microsaggi procedono spesso contromano rispetto alle quiete certezze della vulgata. Ma Landolfi è illuminante anche laddove la sua analisi non produca ribaltamenti eversivi: come nei casi di Van Gogh, di Proust o del Gogol’ a Roma che dà il titolo alla raccolta, «perenne forestiero» la cui estraneità di viaggiatore allude a una più vasta estraneità esistenziale. O come quando si concede fulminei scarti dai massimi sistemi – regalandoci così riflessioni spregiudicate e antiaccademiche sulla filologia di un’edizione, sulla traduzione, sui limiti di ogni teoria della letteratura – e aperture a temi extraletterari quali la metafisica della roulette e il caos deterministico, la civiltà cibernetica e l’intelligenza degli animali.Non siamo del parere che tutto sia ammissibile in letteratura, e che questa possa essere il campo dei più capotici esperimenti; al contrario, ci sembra che alcune cose siano alla letteratura peculiari quanto necessarie, per non dir altro l’espressione, e non già appena (seppure) l’esigenza di essa. La letteratura, per esempio, non può avere la funzione di acquaio delle angosce, vere o false; le quali se mai (persin ci vergognamo di doversi riferire a una nozione tanto elementare) hanno da essere perfettamente dominate prima di passare sulla pagina. E, per dirla in breve, noi ci ostiniamo a credere, magari a ritroso degli anni e dei fati, che la letteratura sia una cosa seria».Gogol’ a Roma raduna testi usciti sul «Mondo» fra il novembre 1953 e il marzo 1958.
Basta leggere che i versi giovanili di Rimbaud sono minati da «negligenza e goffaggine»; che per penetrare la grandezza di Tolstoj bisogna procedere oltre «quella cocciutaggine nel voler salvare la propria anima e se ne avanza l’altrui»; che l’Innominabile di Beckett, se può sembrare eccezionale ai profani, rischia di far «sorridere familiarmente lo psichiatra»; bastano insomma queste poche sequenze di apparente irriverenza blasfema per capire che non siamo di fronte a un critico di routine o a un cauto professore. Ci troviamo, infatti, in quella particolare regione della geografia letteraria composta dagli articoli di Tommaso Landolfi: quella regione, cioè, in cui lo scrittore più elusivo e idiosincratico del nostro Novecento rivela l’altra faccia del proprio understatement – nella radicalità tipica di chi si ostina a credere, dietro la maschera dell’ironia, «che la letteratura sia una cosa seria».È in nome di una acuta tensione conoscitiva e non solo per puro spirito di provocazione che questi veri microsaggi procedono spesso contromano rispetto alle quiete certezze della vulgata. Ma Landolfi è illuminante anche laddove la sua analisi non produca ribaltamenti eversivi: come nei casi di Van Gogh, di Proust o del Gogol’ a Roma che dà il titolo alla raccolta, «perenne forestiero» la cui estraneità di viaggiatore allude a una più vasta estraneità esistenziale. O come quando si concede fulminei scarti dai massimi sistemi – regalandoci così riflessioni spregiudicate e antiaccademiche sulla filologia di un’edizione, sulla traduzione, sui limiti di ogni teoria della letteratura – e aperture a temi extraletterari quali la metafisica della roulette e il caos deterministico, la civiltà cibernetica e l’intelligenza degli animali.Non siamo del parere che tutto sia ammissibile in letteratura, e che questa possa essere il campo dei più capotici esperimenti; al contrario, ci sembra che alcune cose siano alla letteratura peculiari quanto necessarie, per non dir altro l’espressione, e non già appena (seppure) l’esigenza di essa. La letteratura, per esempio, non può avere la funzione di acquaio delle angosce, vere o false; le quali se mai (persin ci vergognamo di doversi riferire a una nozione tanto elementare) hanno da essere perfettamente dominate prima di passare sulla pagina. E, per dirla in breve, noi ci ostiniamo a credere, magari a ritroso degli anni e dei fati, che la letteratura sia una cosa seria».Gogol’ a Roma raduna testi usciti sul «Mondo» fra il novembre 1953 e il marzo 1958.
Tommaso Landolfi Le più belle pagine
A cura di Italo Calvino
gli Adelphi
Nel 1982, muovendo dalla constatazione che Landolfi ebbe in sommo grado «la dote di catturare l’attenzione e la meraviglia del lettore» ma accompagnata da una «fama d’impraticabilità e stranezza», Italo Calvino si cimentò nell’ardua impresa di allestire un invito alla lettura sotto forma di antologia. Dopo aver setacciato le raccolte pubblicate da Landolfi nell’arco di oltre quarant’anni, Calvino scelse da ultimo cinquantatré testi. Organizzati in sette sezioni che corrispondono ad altrettanti luminosi spunti critici – «Racconti fantastici», «Racconti ossessivi», «Racconti dell’orrido», «Tra autobiografia e invenzione», «L’amore e il nulla», «Piccoli trattati», «Le parole e lo scrivere» –, essi consentono di cogliere in tutte le sue rifrazioni un’opera sconcertante. E soprattutto di cogliere il vero Landolfi, quello che «sperpera le sue puntate d’un colpo o le ritira bruscamente dal tavolo col gesto allucinato del giocatore».
gli Adelphi
Nel 1982, muovendo dalla constatazione che Landolfi ebbe in sommo grado «la dote di catturare l’attenzione e la meraviglia del lettore» ma accompagnata da una «fama d’impraticabilità e stranezza», Italo Calvino si cimentò nell’ardua impresa di allestire un invito alla lettura sotto forma di antologia. Dopo aver setacciato le raccolte pubblicate da Landolfi nell’arco di oltre quarant’anni, Calvino scelse da ultimo cinquantatré testi. Organizzati in sette sezioni che corrispondono ad altrettanti luminosi spunti critici – «Racconti fantastici», «Racconti ossessivi», «Racconti dell’orrido», «Tra autobiografia e invenzione», «L’amore e il nulla», «Piccoli trattati», «Le parole e lo scrivere» –, essi consentono di cogliere in tutte le sue rifrazioni un’opera sconcertante. E soprattutto di cogliere il vero Landolfi, quello che «sperpera le sue puntate d’un colpo o le ritira bruscamente dal tavolo col gesto allucinato del giocatore».
Tommaso Landolfi La spada
Piccola Biblioteca Adelphi
Con una verve e un gusto del pastiche che fanno irresistibilmente pensare a un certo Borges, Landolfi ci offre in questa silloge novellistica un breve ma strabiliante repertorio di pezzi di bravura, che rinnoverà nei suoi lettori più fedeli il sottile piacere di essere partecipi, e complici, del gioco di alta prestidigitazione della scrittura landolfiana. E il piacere verrà moltiplicato dalle innumerevoli sfaccettature dei temi e delle tonalità: dal racconto eponimo – una perfetta parabola sulla tormentosa gestione del talento e dell’irresolutezza –, dove si narra di un nobiluomo che usa una spada avita per tagliare in due la fanciulla che ama in una sorta di rito dolcissimo e struggente; alla relazione accademica di un cane – un professore arzebeigiano, Onisammot Iflodnal –, il quale annuncia a un pubblico parecchio irritato che anche gli uomini, sebbene non tutti, «intendono, sentono, pensano»; a «una cronaca brigantesca» che già nell’epigrafe, tratta da Michael Kohlhaas, evoca atmosfere kleistiane; al solo apparentemente comico Il babbo di Kafka, in cui l’ironia vela a malapena risvolti dolorosamente autobiografici... Uscito da Vallecchi nel 1942 e poi confluito nei Racconti, sempre vallecchiani, del 1961, La spada raduna – con l’eccezione di Nuove rivelazioni della psiche umana e Voltaluna, inediti – testi originariamente apparsi in quotidiani e riviste fra il 1939 e il 1941.
LANDOLFI TOMMASO
LA SPADA
franchi
Terza raccolta di racconti di Tommaso Landolfi, “La spada”, originariamente edito nel 1942, è probabilmente il primo libro dell’artista di Pico Farnese a mostrare – pure per via d’allegorie, di paradossi, di satira dell’esistenza e del senso di tutto – un confronto-scontro consapevole con la solitudine, la tristezza, la caducità di tutto. Con quel paradosso che è la vita degli esseri umani, per intenderci; creature illuse d’un’eternità che proprio non esiste e d’un senso che non si riesce a intravedere nemmeno – dipingerlo o sognarlo, questo sì, è ancora possibile come migliaia d’anni fa. Lo stile, in ogni caso, fa sempre la differenza. Sempre.
In questo senso, dicevamo, questo confronto-scontro meno mediato che in passato è davvero un primo segno di maturità letteraria; quanto poteva sin qui apparire grottesco, bizzarro o stravagante, quanto risultava tendenzialmente divertissement autoriale d’un aristocratico letterato di provincia, adesso va virando dal disimpegno all’ammissione pacifica di malessere, debolezza, dipendenza – in altre e più nette parole, impotenza. Landolfi comincia a schiudere i contrasti interiori dal loro guscio, e il risultato è micidiale.
“La spada” può contare su una maggioranza relativa (quindici in tutto i racconti pubblicati) di testi memorabili. Non soltanto per l’argomento della narrazione, non di rado hapax; ma per la capacità di sintetizzare, in poche pagine, qualcosa che investe il nostro inconscio di responsabilità magari faticosamente dimenticate, di responsabilità e domande addirittura rimosse.
Si comincia con “La tenia mistica”, adeguato e ispirato omaggio all’atipico genio del letterato-tipografo Rétif de La Bretonne: si racconta di come Niel cadde da una caverna nel pianeta Nazar, al centro della terra, proprio là dove dominano gli alberi; non lontano dall’impero degli esseri universali, Mezendor, dove ogni pianta e ogni bestia è dotata di ragione. Laggiù la sua sapienza valse a renderlo galoppino; quanto avviene nel profondo della Terra sembra mutare radicalmente il senso di quel che conosciamo, giacché in quelle viscere sembra annidarsi l’origine di tutto…
L’inversione di potere e influenza uomo-animale è sviluppata meglio più avanti; nella prosa lirica “Colpo di sole”, narrazione dell’epilogo dell’esistenza d’una malinconica civetta, fulminata dal fuoco insolente di cacciatori che nemmeno vanno a raccoglierne la carcassa, e nel superbo e sperimentale “Nuove rivelazioni sulla psiche umana”: la scienza canina raccontata dai cani, in una dimensione in cui gli uomini sono animali domestici miracolosamente capaci di intendere e replicare alle comunicazioni della razza dominante: l’uomo Tommy detto Lol aiuta i canini a fare i compiti, comunicando per zampate sulla scrivania; viene esaminato da uno scienziato che, nel racconto, divulga l’incredibile impatto delle loro conversazioni sulla sua idea del mondo; non solo l’uomo sa far di conto come un cane, ma – destando scandalo – riesce addirittura a pensare e a elaborare una teoria fondata sull’unità di tutte le creature viventi, parte di un’origine comune, patria non sognata ma dimenticata. I cani rifiutano sdegnosamente quest’evidenza.
Landolfi inverte e sovverte, e così scrivendo suggestiona, affascina e rapisce. Stesso principio vale quando inventa, ne “La melotecnica esposta al popolo” (scoperto omaggio all’amico Montale) il peso, l’odore, il colore e la vitalità delle note baritonali; oppure quando anima il fuoco, nel racconto omonimo, laddove racconta che il fuoco comunica con linguaggio divino, che è mutevole lingua che non sempre intendiamo appieno, nelle sue variazioni e nelle sue inattese evoluzioni; l’acme è nella breve prosa lirica finale, dedicata alle confessioni d’una piattola in punto di morte. In breve testimoniamo l’addio d’una piattola del bosco, che invita gli uomini a non insuperbirsi e a non ridere della sua sorte: che è comune a quella di ogni creatura vivente. Morire. Da sbellicarsi, ma non ci si riesce sino in fondo. La piattola, essenziale e secca, ricorda un destino che non dovremmo dimenticare. Landolfi è forse il primo in assoluto ad aver dato parole a una piattola. Salutiamo il suo coraggio con divertito e perplesso piacere.
Nella raccolta non mancano incursioni para-realiste (“Una cronaca brigantesca”) innervate tuttavia da esiti imprevedibili; come nel caso de “Il ladro”, in cui tutto sembra favorire l’identificazione tra il lettore e il ladruncolo nascosto da ore nella cantina, con le orecchie tese per identificare ogni rumore proveniente dall’alto; questo sin quando non s’avvede che tutte quelle voci appartengono in realtà a un uomo solo, che disperato parla con se stesso cambiando toni e via dicendo, e allora i due non potranno che abbracciarsi e condividere la loro sorte – miseria comune, comprensione inevitabile, pure se ragioni e cause del malessere sono differenti.
Principio analogo vale per “La notte provinciale”, storia di giochi notturni in una provincia annoiata e noiosa, a sfondo magari erotico, con epilogo imprevedibile e sanguinario – ma senza che si riconosca il colpevole, e questo è interessante. E non poco. O meglio; solo il lettore sa…
Quanti vogliano pizzicare i prodromi delle grandi pagine dedicate al gioco dall’autore potranno dilettarsi con “Lettura di un romantico sul gioco”, che mi sembra vada esemplificando ragioni e motivi d’un amore dalle radici lontane nel tempo.
Acme della raccolta due pezzi: “Il babbo di Kafka”, che ribadisce la sensibilità nei confronti della metamorfosi dell’autore – tematica già sviluppata con originalità ne “La pietra lunare” – e denuncia conflitto con l’autorità paterna (delittuoso sarebbe rivelarvi la trama, considerando che si tratta di così poche pagine) e l’eponimo “La spada”, allegoria d’un amore ucciso da un uomo solitario e innamorato di quel che non ha più senso (la Letteratura come la spada? È una mia congettura) – storia d’un Longino contemporaneo che scova questa lama indistruttibile, sottile e tagliaferro e si diletta a mozzare le statue della sua decaduta casa, e non sa davvero che farsene di tanto potere. Quando torna a cercarlo la fanciulla bianca – che gli appartiene – la massacra e soltanto quando è troppo tardi si pente e si libera di quella spada. Che altri recupereranno, nel tempo a venire. Gettarla via è servito davvero a poco.
Notevole. Ben distante dall’esercizio di stile, questa raccolta di racconti è il documento d’un’anima in cerca di senso, significati, appartenenze diverse da quella unica, totale, incontrovertibile – quella letteraria.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “La spada”, Rizzoli, Milano, 1976.
Prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1942.
Nella prima edizione l’opera era preceduta dai racconti de “Il Mar delle Blatte”, allora ristampato in seconda edizione. Quindi, apparve nel volume antologico “Racconti” (1961). A seguire, l’edizione esaminata e l’edizione Adelphi del 2001.
Con una verve e un gusto del pastiche che fanno irresistibilmente pensare a un certo Borges, Landolfi ci offre in questa silloge novellistica un breve ma strabiliante repertorio di pezzi di bravura, che rinnoverà nei suoi lettori più fedeli il sottile piacere di essere partecipi, e complici, del gioco di alta prestidigitazione della scrittura landolfiana. E il piacere verrà moltiplicato dalle innumerevoli sfaccettature dei temi e delle tonalità: dal racconto eponimo – una perfetta parabola sulla tormentosa gestione del talento e dell’irresolutezza –, dove si narra di un nobiluomo che usa una spada avita per tagliare in due la fanciulla che ama in una sorta di rito dolcissimo e struggente; alla relazione accademica di un cane – un professore arzebeigiano, Onisammot Iflodnal –, il quale annuncia a un pubblico parecchio irritato che anche gli uomini, sebbene non tutti, «intendono, sentono, pensano»; a «una cronaca brigantesca» che già nell’epigrafe, tratta da Michael Kohlhaas, evoca atmosfere kleistiane; al solo apparentemente comico Il babbo di Kafka, in cui l’ironia vela a malapena risvolti dolorosamente autobiografici... Uscito da Vallecchi nel 1942 e poi confluito nei Racconti, sempre vallecchiani, del 1961, La spada raduna – con l’eccezione di Nuove rivelazioni della psiche umana e Voltaluna, inediti – testi originariamente apparsi in quotidiani e riviste fra il 1939 e il 1941.
LANDOLFI TOMMASO
LA SPADA
franchi
Terza raccolta di racconti di Tommaso Landolfi, “La spada”, originariamente edito nel 1942, è probabilmente il primo libro dell’artista di Pico Farnese a mostrare – pure per via d’allegorie, di paradossi, di satira dell’esistenza e del senso di tutto – un confronto-scontro consapevole con la solitudine, la tristezza, la caducità di tutto. Con quel paradosso che è la vita degli esseri umani, per intenderci; creature illuse d’un’eternità che proprio non esiste e d’un senso che non si riesce a intravedere nemmeno – dipingerlo o sognarlo, questo sì, è ancora possibile come migliaia d’anni fa. Lo stile, in ogni caso, fa sempre la differenza. Sempre.
In questo senso, dicevamo, questo confronto-scontro meno mediato che in passato è davvero un primo segno di maturità letteraria; quanto poteva sin qui apparire grottesco, bizzarro o stravagante, quanto risultava tendenzialmente divertissement autoriale d’un aristocratico letterato di provincia, adesso va virando dal disimpegno all’ammissione pacifica di malessere, debolezza, dipendenza – in altre e più nette parole, impotenza. Landolfi comincia a schiudere i contrasti interiori dal loro guscio, e il risultato è micidiale.
“La spada” può contare su una maggioranza relativa (quindici in tutto i racconti pubblicati) di testi memorabili. Non soltanto per l’argomento della narrazione, non di rado hapax; ma per la capacità di sintetizzare, in poche pagine, qualcosa che investe il nostro inconscio di responsabilità magari faticosamente dimenticate, di responsabilità e domande addirittura rimosse.
Si comincia con “La tenia mistica”, adeguato e ispirato omaggio all’atipico genio del letterato-tipografo Rétif de La Bretonne: si racconta di come Niel cadde da una caverna nel pianeta Nazar, al centro della terra, proprio là dove dominano gli alberi; non lontano dall’impero degli esseri universali, Mezendor, dove ogni pianta e ogni bestia è dotata di ragione. Laggiù la sua sapienza valse a renderlo galoppino; quanto avviene nel profondo della Terra sembra mutare radicalmente il senso di quel che conosciamo, giacché in quelle viscere sembra annidarsi l’origine di tutto…
L’inversione di potere e influenza uomo-animale è sviluppata meglio più avanti; nella prosa lirica “Colpo di sole”, narrazione dell’epilogo dell’esistenza d’una malinconica civetta, fulminata dal fuoco insolente di cacciatori che nemmeno vanno a raccoglierne la carcassa, e nel superbo e sperimentale “Nuove rivelazioni sulla psiche umana”: la scienza canina raccontata dai cani, in una dimensione in cui gli uomini sono animali domestici miracolosamente capaci di intendere e replicare alle comunicazioni della razza dominante: l’uomo Tommy detto Lol aiuta i canini a fare i compiti, comunicando per zampate sulla scrivania; viene esaminato da uno scienziato che, nel racconto, divulga l’incredibile impatto delle loro conversazioni sulla sua idea del mondo; non solo l’uomo sa far di conto come un cane, ma – destando scandalo – riesce addirittura a pensare e a elaborare una teoria fondata sull’unità di tutte le creature viventi, parte di un’origine comune, patria non sognata ma dimenticata. I cani rifiutano sdegnosamente quest’evidenza.
Landolfi inverte e sovverte, e così scrivendo suggestiona, affascina e rapisce. Stesso principio vale quando inventa, ne “La melotecnica esposta al popolo” (scoperto omaggio all’amico Montale) il peso, l’odore, il colore e la vitalità delle note baritonali; oppure quando anima il fuoco, nel racconto omonimo, laddove racconta che il fuoco comunica con linguaggio divino, che è mutevole lingua che non sempre intendiamo appieno, nelle sue variazioni e nelle sue inattese evoluzioni; l’acme è nella breve prosa lirica finale, dedicata alle confessioni d’una piattola in punto di morte. In breve testimoniamo l’addio d’una piattola del bosco, che invita gli uomini a non insuperbirsi e a non ridere della sua sorte: che è comune a quella di ogni creatura vivente. Morire. Da sbellicarsi, ma non ci si riesce sino in fondo. La piattola, essenziale e secca, ricorda un destino che non dovremmo dimenticare. Landolfi è forse il primo in assoluto ad aver dato parole a una piattola. Salutiamo il suo coraggio con divertito e perplesso piacere.
Nella raccolta non mancano incursioni para-realiste (“Una cronaca brigantesca”) innervate tuttavia da esiti imprevedibili; come nel caso de “Il ladro”, in cui tutto sembra favorire l’identificazione tra il lettore e il ladruncolo nascosto da ore nella cantina, con le orecchie tese per identificare ogni rumore proveniente dall’alto; questo sin quando non s’avvede che tutte quelle voci appartengono in realtà a un uomo solo, che disperato parla con se stesso cambiando toni e via dicendo, e allora i due non potranno che abbracciarsi e condividere la loro sorte – miseria comune, comprensione inevitabile, pure se ragioni e cause del malessere sono differenti.
Principio analogo vale per “La notte provinciale”, storia di giochi notturni in una provincia annoiata e noiosa, a sfondo magari erotico, con epilogo imprevedibile e sanguinario – ma senza che si riconosca il colpevole, e questo è interessante. E non poco. O meglio; solo il lettore sa…
Quanti vogliano pizzicare i prodromi delle grandi pagine dedicate al gioco dall’autore potranno dilettarsi con “Lettura di un romantico sul gioco”, che mi sembra vada esemplificando ragioni e motivi d’un amore dalle radici lontane nel tempo.
Acme della raccolta due pezzi: “Il babbo di Kafka”, che ribadisce la sensibilità nei confronti della metamorfosi dell’autore – tematica già sviluppata con originalità ne “La pietra lunare” – e denuncia conflitto con l’autorità paterna (delittuoso sarebbe rivelarvi la trama, considerando che si tratta di così poche pagine) e l’eponimo “La spada”, allegoria d’un amore ucciso da un uomo solitario e innamorato di quel che non ha più senso (la Letteratura come la spada? È una mia congettura) – storia d’un Longino contemporaneo che scova questa lama indistruttibile, sottile e tagliaferro e si diletta a mozzare le statue della sua decaduta casa, e non sa davvero che farsene di tanto potere. Quando torna a cercarlo la fanciulla bianca – che gli appartiene – la massacra e soltanto quando è troppo tardi si pente e si libera di quella spada. Che altri recupereranno, nel tempo a venire. Gettarla via è servito davvero a poco.
Notevole. Ben distante dall’esercizio di stile, questa raccolta di racconti è il documento d’un’anima in cerca di senso, significati, appartenenze diverse da quella unica, totale, incontrovertibile – quella letteraria.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “La spada”, Rizzoli, Milano, 1976.
Prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1942.
Nella prima edizione l’opera era preceduta dai racconti de “Il Mar delle Blatte”, allora ristampato in seconda edizione. Quindi, apparve nel volume antologico “Racconti” (1961). A seguire, l’edizione esaminata e l’edizione Adelphi del 2001.
Tommaso Landolfi
Ottavio di Saint-Vincent
tPiccola Biblioteca Adelphi
Afflitto dalla miseria e dalla noia, il giovane poeta Ottavio di Saint-Vincent vive nella perenne attesa di qualcosa cui egli stesso non sa dare nome – e solo questa irragionevole attesa lo trattiene dal suicidio. Ma il destino può assumere forme strane e imprevedibili: quella, ad esempio, di una duchessa bella e ricchissima che, per sfuggire a sua volta alla noia, ha deciso di raccogliere «un giovane povero, un uomo disperato», magari «ubriaco, addormentato, incosciente», e di elevarlo temporaneamente al rango di duca e suo sposo. Con conseguenze altrettanto imprevedibili: la nuova vita – ricchezza, amore, potenza e onori – dischiusa a Ottavio dalla vertiginosa finzione si rivela non meno spaventosa della miseria, giacché si può conquistare tutto ma non sfuggire al tedio e alla consapevolezza che tutto è vano e nulla è vero. In questo racconto che ha l’ingannevole leggerezza della favola Landolfi ha saputo condensare le sue più segrete ossessioni: i labirinti del destino, la vocazione al gioco e alla perdita, la nostra atroce sorte di fantasmi: «Ah, come non vedete che noi tutti veniamo dalla stessa noia e andiamo verso lo stesso nulla?». Ottavio di Saint-Vincent apparve per la prima volta in volume nel 1958, preceduto da una ristampa di Le due zittelle.
Afflitto dalla miseria e dalla noia, il giovane poeta Ottavio di Saint-Vincent vive nella perenne attesa di qualcosa cui egli stesso non sa dare nome – e solo questa irragionevole attesa lo trattiene dal suicidio. Ma il destino può assumere forme strane e imprevedibili: quella, ad esempio, di una duchessa bella e ricchissima che, per sfuggire a sua volta alla noia, ha deciso di raccogliere «un giovane povero, un uomo disperato», magari «ubriaco, addormentato, incosciente», e di elevarlo temporaneamente al rango di duca e suo sposo. Con conseguenze altrettanto imprevedibili: la nuova vita – ricchezza, amore, potenza e onori – dischiusa a Ottavio dalla vertiginosa finzione si rivela non meno spaventosa della miseria, giacché si può conquistare tutto ma non sfuggire al tedio e alla consapevolezza che tutto è vano e nulla è vero. In questo racconto che ha l’ingannevole leggerezza della favola Landolfi ha saputo condensare le sue più segrete ossessioni: i labirinti del destino, la vocazione al gioco e alla perdita, la nostra atroce sorte di fantasmi: «Ah, come non vedete che noi tutti veniamo dalla stessa noia e andiamo verso lo stesso nulla?». Ottavio di Saint-Vincent apparve per la prima volta in volume nel 1958, preceduto da una ristampa di Le due zittelle.
Tommaso Landolfi Tre racconti
Piccola Biblioteca Adelphi
Tre donne (e una quarta nell’ombra) sono al centro di questi racconti in vario modo d’amore, usciti per la prima volta nel 1964. Tre destini eccentrici, accomunati dal segno di un’anomalia palese o profonda. La muta, la troppo bella, l’insignificante e opaca – tutte si concedono, senza darsi. Perché? È in questo mistero, e nell’incapacità maschile a penetrarlo, il filo che lega le loro sorti. Gli uomini le incontrano, le desiderano, le possiedono: ma ogni volta senza riuscire a spezzare quella sorta di cristallo da cui ciascuna pare cinta e protetta. Inesorabilmente, le donne rimangono chiuse nel loro segreto: del quale – e dell’impotenza, dello stupore, della disperazione che ingenera – pagheranno un prezzo, più o meno doloroso. Con felice intuizione narrativa, Landolfi non fa parlare le tre donne, ma i loro compagni: ed è dunque dal punto di vista di chi non comprende, di chi ferisce perché ferito, che le storie prendono vita, tradotte in pagine di rara intensità e alto coinvolgimento emotivo, che respirano con il fiato breve e ansioso dei protagonisti.
Tre donne (e una quarta nell’ombra) sono al centro di questi racconti in vario modo d’amore, usciti per la prima volta nel 1964. Tre destini eccentrici, accomunati dal segno di un’anomalia palese o profonda. La muta, la troppo bella, l’insignificante e opaca – tutte si concedono, senza darsi. Perché? È in questo mistero, e nell’incapacità maschile a penetrarlo, il filo che lega le loro sorti. Gli uomini le incontrano, le desiderano, le possiedono: ma ogni volta senza riuscire a spezzare quella sorta di cristallo da cui ciascuna pare cinta e protetta. Inesorabilmente, le donne rimangono chiuse nel loro segreto: del quale – e dell’impotenza, dello stupore, della disperazione che ingenera – pagheranno un prezzo, più o meno doloroso. Con felice intuizione narrativa, Landolfi non fa parlare le tre donne, ma i loro compagni: ed è dunque dal punto di vista di chi non comprende, di chi ferisce perché ferito, che le storie prendono vita, tradotte in pagine di rara intensità e alto coinvolgimento emotivo, che respirano con il fiato breve e ansioso dei protagonisti.
Tommaso Landolfi Rien va
Biblioteca Adelphi
Con Rien va Tommaso Landolfi, scrittore elusivo, mascherato, mistificatorio per eccellenza riguardo alla propria persona, ha scelto la via di un’ulteriore provocazione, rovesciando bruscamente i termini del gioco: pubblicato nel 1963, questo vero libro segreto – un diario del periodo ’58-60 – si inoltra infatti nell’intimo e non cela paure e ossessioni, dal denaro al tappeto verde alla scrittura stessa. Al centro, una sorpresa che è anch’essa un brusco rovesciamento rispetto alla vita precedente di Landolfi: la nascita di una bambina, con lo stupore e l’euforia che l’accompagnano. Così questo zibaldone di pensieri, spesso taglienti e sconcertanti, si presenta come l’unico squarcio capricciosamente concesso dall’autore sulla propria esistenza più nascosta. «La letteratura non è vita» scrive Landolfi in Rien va. Ma nulla più di un libro come questo vale a smentirlo.
LANDOLFI TOMMASORIEN VAfranchiDieci anni dopo “La bière du pécheur” – anni solcati da racconti per bambini come “La raganella d’oro”, dal poema drammatico in sei atti “Landolfo IV di Benevento” e da diverse raccolte di racconti – ecco un nuovo diario di Tommaso Landolfi: “Rien va”. Qui si accenna alla stesura di “Mezzacoda” e di “Landolfo” e in parte alla loro circolazione; ci si dispera per la costrizione alle traduzioni di Puskin, e alla relativa stesura dell’introduzione – ribadendo tuttavia che altrimenti non si campa, e mancano i quattrini; si danno un paio di bastonate alla Repubblica (unità nazionale “idea mostruosetta e volgaruccia”), una a Robbe Grillet (libro esemplare per le letture al cesso); s’accenna alla supremazia del gioco e alla sua necessaria presenza nella vita delle persone e – si tratta in questo caso dei passi migliori – si racconta della nascita della figlia, la “seconda bambina” di Landolfi; la prima era la moglie; si idolatra il genio e la resistenza di Dostoevskij (memorabili pagine dedicate ai Karamazov).
Un po’ poco per giustificare la pubblicazione – in vita – di un diario che di letterario, a parte quanto accennato, ha sinceramente molto poco. Piuttosto, parrebbe altro veicolo da quattrini (magari pochi) proprio come la traduzione di Puskin, per Landolfi; in questo caso l’artista rinuncia a essere spietato con se stesso, prende appunti sulla vita e riflette sulla sua scrittura. E parecchio. Si corregge, si fustiga, si apprezza, va per autoironia e paradossi, minimizza e s’infiamma. Appunto, materiale da cassetto dell’autore (oggi diremmo: da blog), e se si va a confrontarlo col di poco successivo “La vita agra” dell’altro autore-traduttore di grido del tempo, Bianciardi, sono guai. Landolfi traduttore-scrittore-diarista, nell’epica minima di se stesso, qua ne esce con le ossa rotte.
“Rien va” è meno cupo e contrastato – in altre parole: meno credibile, e decisamente più artefatto – del diario precedente, mostrando rassegnazione e un pizzico di autocompiacimento nella descrizione della propria scarsa attitudine alle cose della vita. Difficile non trovare un papà emozionato dalla nascita della figlioletta, ma le parole dell’autore, in ogni caso, in quei frangenti toccano, e strappano più di un sorriso tenero. Purtroppo direi che non possa bastare. E dire che nella prima promettente pagina un Landolfi quasi cinquantenne scriveva che voleva questo fosse “il libro (il registro) del mio abbandono, il quale (registro) non riguardasse altri che me. Ma intanto in questo faticoso preambolo è già andato perduto ciò che poteva importare stamane, e già ineluttabilmente ho preso a ripassare e riaggiustare le lettere mal riuscite… come vorrei finalmente non essere inteso, non da tutti! (!) Pure, non è già questa una preoccupazione letteraria? Ah, sarà quello che sarà”.
Ecco qui: i giocatori chiamano bluff una sortita del genere. Sembra che ci sia qualcosa in mano ma in realtà chi siede al tavolo non ha granché; magari è una doppia coppia. E tanta confusione sul da farsi. L’impressione, a dirla con franchezza, è che davvero le cose siano andate così; questi sono appunti, ideuzze, malesseri, sprazzi di gioia assemblati e confezionati.
Dire “riservato ai cultori” o agli studiosi dell’opera landolfiana è sinceramente bastevole, in assoluto, per concludere qui la lettura dell’articolo.
Da qui in avanti restiamo in pochi. Per voi annoto: Landolfi parla dell’impotenza:
“Impotenza non è che una parola, quando di essa si ha coscienza e quando se ne soffre (vi è peraltro un’impotenza fisica che la volontà né la coscienza non bastano a vincere): davvero non saprei cavarmi da questo spaventoso stagno dell’anima e del corpo?” – come si può facilmente dedurre, quanto rimane in comune col precedente diario è questa ricerca di rimedio e soluzione tramite la scrittura; con la convinzione che il monologo sia un’indagine approfondita in se stessi, con la fede che le parole sapranno sgranare il muro del mistero e del malessere interiore.
Il dramma della madre – perduta troppo presto – spiega almeno in parte le complesse dinamiche delle interazioni dei personaggi di Landolfi (talvolta, inevitabilmente, verrebbe da dire: di Landolfi stesso) con le figure femminili. In “Rien va” si accenna in diverse circostanze al desiderio di tornare nell’utero materno; il narratore non vuole tornare, “se non al nulla primordiale, alla assorta vita prenatale”: si giudica inetto all’esistenza consociata e la “formulazione imperativa” è rientrare nell’utero materno.
L’impresa – va da sé – non può che essere letteraria; e in ogni caso qui non viene nemmeno tentata. Piuttosto si va a stringere grossi nodi attorno al proprio ombelico, con questa epica piccina del letterato stravagante, povero e aristocratico: uno spartito già suonato in passato da Landolfi e con ben diversa classe. Insomma, consolato e riequilibrato dal matrimonio e dalla paternità, rimane un autore che deve scrivere per vivere. E magari pubblicare, a questo punto, tutto, proprio tutto.
Il libro esce nel 1963. L’appassionato lettore postero continuerà a risalire nella produzione dell’artista di Pico Farnese con qualche pregiudizio, felice di vederlo dissolversi – come il patrimonio dei giocatori – in una serata o poco più.
L’impressione è che qualcuno abbia cominciato a spegnere la luce.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova. Tradusse – tra gli altri – Novalis, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Lermontov, Puskin.
Tommaso Landolfi, “Rien va”, Longanesi, Milano, 1970.
Prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1963.
Quindi, l’edizione esaminata, Longanesi, Milano, 1970; Rizzoli, Milano, 1984; Adelphi, Milano, 1998.
Con Rien va Tommaso Landolfi, scrittore elusivo, mascherato, mistificatorio per eccellenza riguardo alla propria persona, ha scelto la via di un’ulteriore provocazione, rovesciando bruscamente i termini del gioco: pubblicato nel 1963, questo vero libro segreto – un diario del periodo ’58-60 – si inoltra infatti nell’intimo e non cela paure e ossessioni, dal denaro al tappeto verde alla scrittura stessa. Al centro, una sorpresa che è anch’essa un brusco rovesciamento rispetto alla vita precedente di Landolfi: la nascita di una bambina, con lo stupore e l’euforia che l’accompagnano. Così questo zibaldone di pensieri, spesso taglienti e sconcertanti, si presenta come l’unico squarcio capricciosamente concesso dall’autore sulla propria esistenza più nascosta. «La letteratura non è vita» scrive Landolfi in Rien va. Ma nulla più di un libro come questo vale a smentirlo.
LANDOLFI TOMMASORIEN VAfranchiDieci anni dopo “La bière du pécheur” – anni solcati da racconti per bambini come “La raganella d’oro”, dal poema drammatico in sei atti “Landolfo IV di Benevento” e da diverse raccolte di racconti – ecco un nuovo diario di Tommaso Landolfi: “Rien va”. Qui si accenna alla stesura di “Mezzacoda” e di “Landolfo” e in parte alla loro circolazione; ci si dispera per la costrizione alle traduzioni di Puskin, e alla relativa stesura dell’introduzione – ribadendo tuttavia che altrimenti non si campa, e mancano i quattrini; si danno un paio di bastonate alla Repubblica (unità nazionale “idea mostruosetta e volgaruccia”), una a Robbe Grillet (libro esemplare per le letture al cesso); s’accenna alla supremazia del gioco e alla sua necessaria presenza nella vita delle persone e – si tratta in questo caso dei passi migliori – si racconta della nascita della figlia, la “seconda bambina” di Landolfi; la prima era la moglie; si idolatra il genio e la resistenza di Dostoevskij (memorabili pagine dedicate ai Karamazov).
Un po’ poco per giustificare la pubblicazione – in vita – di un diario che di letterario, a parte quanto accennato, ha sinceramente molto poco. Piuttosto, parrebbe altro veicolo da quattrini (magari pochi) proprio come la traduzione di Puskin, per Landolfi; in questo caso l’artista rinuncia a essere spietato con se stesso, prende appunti sulla vita e riflette sulla sua scrittura. E parecchio. Si corregge, si fustiga, si apprezza, va per autoironia e paradossi, minimizza e s’infiamma. Appunto, materiale da cassetto dell’autore (oggi diremmo: da blog), e se si va a confrontarlo col di poco successivo “La vita agra” dell’altro autore-traduttore di grido del tempo, Bianciardi, sono guai. Landolfi traduttore-scrittore-diarista, nell’epica minima di se stesso, qua ne esce con le ossa rotte.
“Rien va” è meno cupo e contrastato – in altre parole: meno credibile, e decisamente più artefatto – del diario precedente, mostrando rassegnazione e un pizzico di autocompiacimento nella descrizione della propria scarsa attitudine alle cose della vita. Difficile non trovare un papà emozionato dalla nascita della figlioletta, ma le parole dell’autore, in ogni caso, in quei frangenti toccano, e strappano più di un sorriso tenero. Purtroppo direi che non possa bastare. E dire che nella prima promettente pagina un Landolfi quasi cinquantenne scriveva che voleva questo fosse “il libro (il registro) del mio abbandono, il quale (registro) non riguardasse altri che me. Ma intanto in questo faticoso preambolo è già andato perduto ciò che poteva importare stamane, e già ineluttabilmente ho preso a ripassare e riaggiustare le lettere mal riuscite… come vorrei finalmente non essere inteso, non da tutti! (!) Pure, non è già questa una preoccupazione letteraria? Ah, sarà quello che sarà”.
Ecco qui: i giocatori chiamano bluff una sortita del genere. Sembra che ci sia qualcosa in mano ma in realtà chi siede al tavolo non ha granché; magari è una doppia coppia. E tanta confusione sul da farsi. L’impressione, a dirla con franchezza, è che davvero le cose siano andate così; questi sono appunti, ideuzze, malesseri, sprazzi di gioia assemblati e confezionati.
Dire “riservato ai cultori” o agli studiosi dell’opera landolfiana è sinceramente bastevole, in assoluto, per concludere qui la lettura dell’articolo.
Da qui in avanti restiamo in pochi. Per voi annoto: Landolfi parla dell’impotenza:
“Impotenza non è che una parola, quando di essa si ha coscienza e quando se ne soffre (vi è peraltro un’impotenza fisica che la volontà né la coscienza non bastano a vincere): davvero non saprei cavarmi da questo spaventoso stagno dell’anima e del corpo?” – come si può facilmente dedurre, quanto rimane in comune col precedente diario è questa ricerca di rimedio e soluzione tramite la scrittura; con la convinzione che il monologo sia un’indagine approfondita in se stessi, con la fede che le parole sapranno sgranare il muro del mistero e del malessere interiore.
Il dramma della madre – perduta troppo presto – spiega almeno in parte le complesse dinamiche delle interazioni dei personaggi di Landolfi (talvolta, inevitabilmente, verrebbe da dire: di Landolfi stesso) con le figure femminili. In “Rien va” si accenna in diverse circostanze al desiderio di tornare nell’utero materno; il narratore non vuole tornare, “se non al nulla primordiale, alla assorta vita prenatale”: si giudica inetto all’esistenza consociata e la “formulazione imperativa” è rientrare nell’utero materno.
L’impresa – va da sé – non può che essere letteraria; e in ogni caso qui non viene nemmeno tentata. Piuttosto si va a stringere grossi nodi attorno al proprio ombelico, con questa epica piccina del letterato stravagante, povero e aristocratico: uno spartito già suonato in passato da Landolfi e con ben diversa classe. Insomma, consolato e riequilibrato dal matrimonio e dalla paternità, rimane un autore che deve scrivere per vivere. E magari pubblicare, a questo punto, tutto, proprio tutto.
Il libro esce nel 1963. L’appassionato lettore postero continuerà a risalire nella produzione dell’artista di Pico Farnese con qualche pregiudizio, felice di vederlo dissolversi – come il patrimonio dei giocatori – in una serata o poco più.
L’impressione è che qualcuno abbia cominciato a spegnere la luce.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova. Tradusse – tra gli altri – Novalis, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Lermontov, Puskin.
Tommaso Landolfi, “Rien va”, Longanesi, Milano, 1970.
Prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1963.
Quindi, l’edizione esaminata, Longanesi, Milano, 1970; Rizzoli, Milano, 1984; Adelphi, Milano, 1998.
Tommaso Landolfi La pietra lunare
Piccola Biblioteca Adelphi
iLa pietra lunare si apre su una «scena della vita di provincia» grottesca e quasi allucinata, di quelle in cui l’autore delle Due zittelle era maestro. «Dal fondo dell’oscurità» il protagonista si sente guardato da «due occhi neri, dilatati e selvaggi» che lo gettano nello stupore e nel terrore. E al tempo stesso egli non può fare a meno di cogliere «un volto pallido, dei capelli bruni, un seno abbagliante scoperto a mezzo». Così ci appare Gurù, la fanciulla-capra, che presto condurrà Giovancarlo e il lettore fra i «lunari orrori» di creature diafane, fantomatiche, e fin nelle viscere della terra, nel regno arcano delle Madri, svelandosi come mistagoga di una iniziazione erotica. Il mondo sembra subito spartirsi in due specie di realtà, ostili e dissonanti. Una è quella della vita gretta che si raccoglie intorno al desco familiare, impregnata di un «odore pesante d’avanzi di lavatura di piatti e d’insetti domestici». L’altra è quella che con la luna si annuncia nel cielo, là dove «succedono cose strane, e meravigliose», dove «ci sono cose che corrono navigano girano per conto loro mentre noi dormiamo». E si può dire che tali due realtà corrispondano ai registri fondamentali dell’opera di Landolfi quale si prefigurava con nettezza in questo suo primo romanzo, anno 1939.
LANDOLFI TOMMASOLA PIETRA LUNAREfranchiIn principio è sera, s’assiste a un ritrovo piccolo borghese e sembra davvero d’essere sul punto di immergersi in quelle scene della vita di provincia che il sottotitolo annunciava; poi “La pietra lunare” si fa notte della realtà e scintilla di fantasia e assurdità, storia mannara di un amore e di un’iniziazione alla vita; l’epilogo è luminoso e triste come tutti gli ammalati del demone meridiano sanno: è il ritorno nella realtà che assume i contorni d’uno strapiombo ineludibile, mentre s’avanza verso la città e non si riesce nemmeno più a guardarsi alle spalle.
Romanzo terminato nel 1937 (prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1939), “La pietra lunare” è un’opera letteraria purissima, prepotente allegoria d’un primo amore e dell’antica società agreste; dei suoi misteri, dei suoi contrasti, dei suoi pettegolezzi e delle sue interazioni. Il talento di Landolfi sta, nelle prime battute – e ho avuto la benedizione di poter leggere il libro del tutto all’oscuro della trama, vedrò di confonderla come posso, adesso – nella capacità di integrare l’assurdo, una metamorfosi, in un contesto che sembrava proprio estraneo alla fantasia. Spiazza, e piacevolmente; l’epifania dello zampa di capra della giovane Gurù è un piccolo capolavoro, intrusione che spiazza e frammenta e sgretola la credibilità e la quotidianità dei pettegolezzi che avvolgevano il protagonista, Giovancarlo, universitario appena tornato in paese, prigioniero d’una cena famigliare.
Qualcuno prova a parlargli, rozzo e grossolano, di letteratura; inevitabilmente qualcun altro s’addormenta, salvo accendersi non appena si discute di chi ha fatto fortuna e come, e a quale prezzo. Poi s’insinua l’impossibile avvento della bellezza, occhi neri, dilatati e selvaggi, Gurù scende dalla montagna e ha piedi forcuti di capra; nessuno se ne accorge a parte lui, Giovancarlo. Si ribella a quel che vede e chiede sostegno a chi è attorno, non vedete che ha le zampe di capra?, dà in escandescenze ma sembra tutto scritto: lei è “venuta per andare con lui”, e così s’avviano per l’estate del loro amore stravagante, per tempeste di domande e di favole, per metamorfosi implacabili e lunari; muta sguardo, la capra mannara, ma non muta sentimento. È una selvatica docile, domanda d’essere domata: ma sembra epoca di dominio della fantasia, il piacere massimo è guardarla o sfiorarla ancora, qualche bacio è già sogno.
In paese Gurù è “in sospetto di stregoneria”. Vive in un castello in rovina, “decrepito maniero”, ultima erede d’una famiglia dall’oscura e feroce nomea; la fantesca dice che è donna lunare, ossia sterile. A lei vengono le capre come i lupi a Francesco; incontriamo quindi – credo di non sbagliare – la prima capra mannara della storia della Letteratura.
Giovancarlo Scarabozzo è uno studentello in vacanza che s’innamora di questa figuretta impossibile e si ritrova a vivere notti di sospensione autentica della credulità, su per le montagne, tra briganti mannari e apparizioni d’altre gurù; è l’incanto solare dell’origine della nostra società, e d’un contrasto tra la giovanile opacità chiassosa della vita studentesca metropolitana e il disordine fertile e notturno dei giovani della campagna estiva; sembra proprio che chi ha scelto di rimanere nei campi e nei monti sia diviso, multanime che muta anche aspetto – per chi sa guardare. L’istinto ha una sua imprevedibile, sarcastica violenza. È una delizia amorale, l’istinto.
La realtà, a un punto, devono raccontarla i mannari: nel capanno il ragazzo non vede nemmeno i tavoli di cui parlano, i suoi sensi sono vivi ma non riescono a percepire correttamente quel mondo che non conosce e che tuttavia scorre nel suo sangue. Metafora suggestiva dell’incapacità di comprensione (e di percezione, va da sé) di società che giudichiamo superate, e tuttavia non sempre abbiamo inteso. Come certi amori, a ben guardare.
L’amore spaventa e fa rabbia quando non si riesce a controllarlo; il primo amore è una tempesta che confonde, è malinconia e sogno e desiderio e tutto va ibridandosi e non s’attenua e non si mitiga; scivola nel tempo e lascia cicatrici che niente cancella. E tante immagini che tendono a non scolorire. Basta non voltarsi indietro.
Landolfi racconta tutto questo – racconta la sua terra reale e il suo retroterra immaginario – con esemplare lingua letteraria, sublime capacità descrittiva – tratto fondante del suo stile, come altrove s’annotava – e non episodica adozione del prosimetro; meno felice nei versi e negli indovinelli che nella narrazione e nello sviluppo della trama, conosce picchi di emozionante capacità nel cristallizzare scene e memorie trasfigurate per pennellate intense, ripetute e incisive. Già in quest’opera s’intravedono prodromi, sintomi e segni di quella inclinazione al fantastico che vergherà il nome dello scrittore di Pico Farnese nella storia del nostro Novecento; inclinazione al fantastico che pretende tuttavia, almeno in questo caso, una sensibile ricostruzione della realtà trasfigurata con tanta classe e tanta pazzia, prima che cenere della realtà rimanga nei nostri cuori di lettori, a soffocarci. Dovremmo cercare significati e sensi, a dispetto del balenio stupendo e accecante del gioco e dell’invenzione.
E così l’ideale era quel balenio degli occhi di lei, “ombrati da lunghe cigli(…); i capelli che ella pettina son corti lisci e un po’ gonfi, il sommo delle sue spalle e del suo seno, le sue braccia nude, abbagliano fra l’ambra come latte in una coppa di topazio, come alabastro al di qua d’un fuoco, come perle fra l’oro, come neve tra campi dorati d’autunno… in una parola: Gurù” – con la G maiuscola, s’intende; le altre gurù non s’avvicinavano nemmeno, neppure quando si spingevano oltre il consentito, tra le montagne, là dove la realtà era fantasia e le persone sia animali che uomini. Capra o fanciulla, capra e fanciulla; lunare e volubile, si lascia guardare ma l’ideale non si lascia possedere: nemmeno nel ricordo. Muta d’aspetto e tuttavia sfugge.
Splendido. Come le fantasie che cavalcano a briglia sciolta, sradicando tutto quel che è plausibile e logico. È il segreto alchemico della gaia scienza
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “La pietra lunare”, Mondadori, Milano, 1968.
Prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1939.
Alla prima edizione seguirono quella del 1944 (ancora Vallecchi), quindi quella esaminata, Mondadori, Milano, 1968; quindi Rizzoli, Milano, 1990 con nota di Zanzotto; infine Adelphi, Milano, 1995, con nota di Idolina Landolfi.
iLa pietra lunare si apre su una «scena della vita di provincia» grottesca e quasi allucinata, di quelle in cui l’autore delle Due zittelle era maestro. «Dal fondo dell’oscurità» il protagonista si sente guardato da «due occhi neri, dilatati e selvaggi» che lo gettano nello stupore e nel terrore. E al tempo stesso egli non può fare a meno di cogliere «un volto pallido, dei capelli bruni, un seno abbagliante scoperto a mezzo». Così ci appare Gurù, la fanciulla-capra, che presto condurrà Giovancarlo e il lettore fra i «lunari orrori» di creature diafane, fantomatiche, e fin nelle viscere della terra, nel regno arcano delle Madri, svelandosi come mistagoga di una iniziazione erotica. Il mondo sembra subito spartirsi in due specie di realtà, ostili e dissonanti. Una è quella della vita gretta che si raccoglie intorno al desco familiare, impregnata di un «odore pesante d’avanzi di lavatura di piatti e d’insetti domestici». L’altra è quella che con la luna si annuncia nel cielo, là dove «succedono cose strane, e meravigliose», dove «ci sono cose che corrono navigano girano per conto loro mentre noi dormiamo». E si può dire che tali due realtà corrispondano ai registri fondamentali dell’opera di Landolfi quale si prefigurava con nettezza in questo suo primo romanzo, anno 1939.
LANDOLFI TOMMASOLA PIETRA LUNAREfranchiIn principio è sera, s’assiste a un ritrovo piccolo borghese e sembra davvero d’essere sul punto di immergersi in quelle scene della vita di provincia che il sottotitolo annunciava; poi “La pietra lunare” si fa notte della realtà e scintilla di fantasia e assurdità, storia mannara di un amore e di un’iniziazione alla vita; l’epilogo è luminoso e triste come tutti gli ammalati del demone meridiano sanno: è il ritorno nella realtà che assume i contorni d’uno strapiombo ineludibile, mentre s’avanza verso la città e non si riesce nemmeno più a guardarsi alle spalle.
Romanzo terminato nel 1937 (prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1939), “La pietra lunare” è un’opera letteraria purissima, prepotente allegoria d’un primo amore e dell’antica società agreste; dei suoi misteri, dei suoi contrasti, dei suoi pettegolezzi e delle sue interazioni. Il talento di Landolfi sta, nelle prime battute – e ho avuto la benedizione di poter leggere il libro del tutto all’oscuro della trama, vedrò di confonderla come posso, adesso – nella capacità di integrare l’assurdo, una metamorfosi, in un contesto che sembrava proprio estraneo alla fantasia. Spiazza, e piacevolmente; l’epifania dello zampa di capra della giovane Gurù è un piccolo capolavoro, intrusione che spiazza e frammenta e sgretola la credibilità e la quotidianità dei pettegolezzi che avvolgevano il protagonista, Giovancarlo, universitario appena tornato in paese, prigioniero d’una cena famigliare.
Qualcuno prova a parlargli, rozzo e grossolano, di letteratura; inevitabilmente qualcun altro s’addormenta, salvo accendersi non appena si discute di chi ha fatto fortuna e come, e a quale prezzo. Poi s’insinua l’impossibile avvento della bellezza, occhi neri, dilatati e selvaggi, Gurù scende dalla montagna e ha piedi forcuti di capra; nessuno se ne accorge a parte lui, Giovancarlo. Si ribella a quel che vede e chiede sostegno a chi è attorno, non vedete che ha le zampe di capra?, dà in escandescenze ma sembra tutto scritto: lei è “venuta per andare con lui”, e così s’avviano per l’estate del loro amore stravagante, per tempeste di domande e di favole, per metamorfosi implacabili e lunari; muta sguardo, la capra mannara, ma non muta sentimento. È una selvatica docile, domanda d’essere domata: ma sembra epoca di dominio della fantasia, il piacere massimo è guardarla o sfiorarla ancora, qualche bacio è già sogno.
In paese Gurù è “in sospetto di stregoneria”. Vive in un castello in rovina, “decrepito maniero”, ultima erede d’una famiglia dall’oscura e feroce nomea; la fantesca dice che è donna lunare, ossia sterile. A lei vengono le capre come i lupi a Francesco; incontriamo quindi – credo di non sbagliare – la prima capra mannara della storia della Letteratura.
Giovancarlo Scarabozzo è uno studentello in vacanza che s’innamora di questa figuretta impossibile e si ritrova a vivere notti di sospensione autentica della credulità, su per le montagne, tra briganti mannari e apparizioni d’altre gurù; è l’incanto solare dell’origine della nostra società, e d’un contrasto tra la giovanile opacità chiassosa della vita studentesca metropolitana e il disordine fertile e notturno dei giovani della campagna estiva; sembra proprio che chi ha scelto di rimanere nei campi e nei monti sia diviso, multanime che muta anche aspetto – per chi sa guardare. L’istinto ha una sua imprevedibile, sarcastica violenza. È una delizia amorale, l’istinto.
La realtà, a un punto, devono raccontarla i mannari: nel capanno il ragazzo non vede nemmeno i tavoli di cui parlano, i suoi sensi sono vivi ma non riescono a percepire correttamente quel mondo che non conosce e che tuttavia scorre nel suo sangue. Metafora suggestiva dell’incapacità di comprensione (e di percezione, va da sé) di società che giudichiamo superate, e tuttavia non sempre abbiamo inteso. Come certi amori, a ben guardare.
L’amore spaventa e fa rabbia quando non si riesce a controllarlo; il primo amore è una tempesta che confonde, è malinconia e sogno e desiderio e tutto va ibridandosi e non s’attenua e non si mitiga; scivola nel tempo e lascia cicatrici che niente cancella. E tante immagini che tendono a non scolorire. Basta non voltarsi indietro.
Landolfi racconta tutto questo – racconta la sua terra reale e il suo retroterra immaginario – con esemplare lingua letteraria, sublime capacità descrittiva – tratto fondante del suo stile, come altrove s’annotava – e non episodica adozione del prosimetro; meno felice nei versi e negli indovinelli che nella narrazione e nello sviluppo della trama, conosce picchi di emozionante capacità nel cristallizzare scene e memorie trasfigurate per pennellate intense, ripetute e incisive. Già in quest’opera s’intravedono prodromi, sintomi e segni di quella inclinazione al fantastico che vergherà il nome dello scrittore di Pico Farnese nella storia del nostro Novecento; inclinazione al fantastico che pretende tuttavia, almeno in questo caso, una sensibile ricostruzione della realtà trasfigurata con tanta classe e tanta pazzia, prima che cenere della realtà rimanga nei nostri cuori di lettori, a soffocarci. Dovremmo cercare significati e sensi, a dispetto del balenio stupendo e accecante del gioco e dell’invenzione.
E così l’ideale era quel balenio degli occhi di lei, “ombrati da lunghe cigli(…); i capelli che ella pettina son corti lisci e un po’ gonfi, il sommo delle sue spalle e del suo seno, le sue braccia nude, abbagliano fra l’ambra come latte in una coppa di topazio, come alabastro al di qua d’un fuoco, come perle fra l’oro, come neve tra campi dorati d’autunno… in una parola: Gurù” – con la G maiuscola, s’intende; le altre gurù non s’avvicinavano nemmeno, neppure quando si spingevano oltre il consentito, tra le montagne, là dove la realtà era fantasia e le persone sia animali che uomini. Capra o fanciulla, capra e fanciulla; lunare e volubile, si lascia guardare ma l’ideale non si lascia possedere: nemmeno nel ricordo. Muta d’aspetto e tuttavia sfugge.
Splendido. Come le fantasie che cavalcano a briglia sciolta, sradicando tutto quel che è plausibile e logico. È il segreto alchemico della gaia scienza
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.
Tommaso Landolfi, “La pietra lunare”, Mondadori, Milano, 1968.
Prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1939.
Alla prima edizione seguirono quella del 1944 (ancora Vallecchi), quindi quella esaminata, Mondadori, Milano, 1968; quindi Rizzoli, Milano, 1990 con nota di Zanzotto; infine Adelphi, Milano, 1995, con nota di Idolina Landolfi.
TRADUZIONI DI TOMMASO LANDOLFI
Nikolaj Leskov Il viaggiatore incantato
cura di Idolina Landolfi
Traduzione di Tommaso Landolfi
gli Adelphi
Su un battello che naviga sul lago Ladoga, il «viaggiatore incantato», dalla «gradevole e manierata voce di basso», racconta le peripezie della sua esistenza: avventure mai cercate, che sembrano precipitare su di lui come eventi della natura. E presto ci accorgiamo che potremmo ascoltare senza fine le storie di quest’uomo che «aveva molto veduto» e non pretendeva di sapere. Storie dove entrano ed escono di scena vagabondi e prostitute, padroni e mercanti, principi e cavalieri nomadi, e la zingara Gruša, simile a «una serpe lucente». Storie che assomigliano a un pulviscolo vorticoso.
Traduzione di Tommaso Landolfi
gli Adelphi
Su un battello che naviga sul lago Ladoga, il «viaggiatore incantato», dalla «gradevole e manierata voce di basso», racconta le peripezie della sua esistenza: avventure mai cercate, che sembrano precipitare su di lui come eventi della natura. E presto ci accorgiamo che potremmo ascoltare senza fine le storie di quest’uomo che «aveva molto veduto» e non pretendeva di sapere. Storie dove entrano ed escono di scena vagabondi e prostitute, padroni e mercanti, principi e cavalieri nomadi, e la zingara Gruša, simile a «una serpe lucente». Storie che assomigliano a un pulviscolo vorticoso.
Nikolaj Gogol’ Racconti di Pietroburgo
A cura di Idolina Landolfi
Traduzione di Tommaso Landolfi
Biblioteca Adelphi
Un barbiere si sveglia di buon’ora, si alza dal letto, spezza il pane appena sfornato, vi scorge dentro «qualcosa di biancheggiante»: un naso. Prende così avvio uno dei racconti più celebri della letteratura di tutti i tempi, affiancato in questa raccolta da altri quattro, non meno significativi e famosi: Il ritratto, dove un dipinto porta con sé, nel trascorrere degli anni, tutto il male che era nell’animo del personaggio rappresentato; La Prospettiva, storia di incontri e di passioni fatali o fugaci sullo sfondo mutevole, e talora inquietante, del Nevskij Prospekt; Il giornale di un pazzo, diario di un uomo solo e del suo precipitare nella follia; Il mantello, dramma di un povero impiegato che subisce il furto del cappotto nuovo acquistato avvezzando una vita già misera a ulteriori, patetiche restrizioni. Scrive Tommaso Landolfi, traduttore mirabile di queste pagine: «... in compenso della realtà e del commercio umani che perennemente dovevano sfuggirgli, fu a Gogol’ concessa altra, più terribile ma ugualmente plausibile realtà: quella dei morti e dei fantasmi. Questi suoi personaggi immersi in una luce crepuscolare, lividi o torvi, amorfi talvolta o difformi, vagano tuttavia ormai per il mondo, né il mondo saprebbe ignorarli». La versione landolfiana dei Racconti di Pietroburgo di Gogol’ (1809-1852) è apparsa per la prima volta nel 1941.
Traduzione di Tommaso Landolfi
Biblioteca Adelphi
Un barbiere si sveglia di buon’ora, si alza dal letto, spezza il pane appena sfornato, vi scorge dentro «qualcosa di biancheggiante»: un naso. Prende così avvio uno dei racconti più celebri della letteratura di tutti i tempi, affiancato in questa raccolta da altri quattro, non meno significativi e famosi: Il ritratto, dove un dipinto porta con sé, nel trascorrere degli anni, tutto il male che era nell’animo del personaggio rappresentato; La Prospettiva, storia di incontri e di passioni fatali o fugaci sullo sfondo mutevole, e talora inquietante, del Nevskij Prospekt; Il giornale di un pazzo, diario di un uomo solo e del suo precipitare nella follia; Il mantello, dramma di un povero impiegato che subisce il furto del cappotto nuovo acquistato avvezzando una vita già misera a ulteriori, patetiche restrizioni. Scrive Tommaso Landolfi, traduttore mirabile di queste pagine: «... in compenso della realtà e del commercio umani che perennemente dovevano sfuggirgli, fu a Gogol’ concessa altra, più terribile ma ugualmente plausibile realtà: quella dei morti e dei fantasmi. Questi suoi personaggi immersi in una luce crepuscolare, lividi o torvi, amorfi talvolta o difformi, vagano tuttavia ormai per il mondo, né il mondo saprebbe ignorarli». La versione landolfiana dei Racconti di Pietroburgo di Gogol’ (1809-1852) è apparsa per la prima volta nel 1941.
Jakob Grimm, Wilhelm GrimmFiabe
A cura di Idolina Landolfi
Traduzione di Tommaso Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
Basta prendere in mano le fiabe dei Grimm per perdersi in quelle pagine come in uno specchio. Allora ci si potrà far guidare dal sovrano arbitrio che ha indotto Tommaso Landolfi a scegliere le fiabe a lui più congeniali. Con un linguaggio di alta espressività, denso di quelle parole capaci di dare nerbo al testo volto in italiano, Landolfi ci conduce fra padri che per sottrarsi al demonio mozzano alla diletta prole entrambe le mani (del resto rimpiazzate da argentei moncherini) e tremendi uomini selvatici, fra guerrieri di ferro e «guatteri» dai capelli d’oro zecchino, fra quel «capobigio» del Lupo e i «botri» di selve incantate dai quali spuntano braccia che trascinano giù, nel fondo dell’abisso e della metamorfosi. Le fiabe raccolte da Jakob Karl e Karl Wilhelm Grimm (1785-1863 e 1786-1859) furono pubblicate fra il 1812 e il 1822. Le traduzioni di Landolfi furono incluse nella celebre antologia Germanica, apparsa nel 1942 presso Bompiani.
Traduzione di Tommaso Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
Basta prendere in mano le fiabe dei Grimm per perdersi in quelle pagine come in uno specchio. Allora ci si potrà far guidare dal sovrano arbitrio che ha indotto Tommaso Landolfi a scegliere le fiabe a lui più congeniali. Con un linguaggio di alta espressività, denso di quelle parole capaci di dare nerbo al testo volto in italiano, Landolfi ci conduce fra padri che per sottrarsi al demonio mozzano alla diletta prole entrambe le mani (del resto rimpiazzate da argentei moncherini) e tremendi uomini selvatici, fra guerrieri di ferro e «guatteri» dai capelli d’oro zecchino, fra quel «capobigio» del Lupo e i «botri» di selve incantate dai quali spuntano braccia che trascinano giù, nel fondo dell’abisso e della metamorfosi. Le fiabe raccolte da Jakob Karl e Karl Wilhelm Grimm (1785-1863 e 1786-1859) furono pubblicate fra il 1812 e il 1822. Le traduzioni di Landolfi furono incluse nella celebre antologia Germanica, apparsa nel 1942 presso Bompiani.
Aleksandr Puškin La dama di picche
A cura di Idolina Landolfi
Traduzione di Tommaso Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
«La camera era piena di morti. La luna illuminava per le finestre i loro visi gialli e violacei, le bocche cavernose, gli occhi foschi e semichiusi, i nasi sporgenti ... le morte in cuffie e gale, i morti maschi, se funzionari, in uniforme ... i mercanti col caffettano della festa»: il fabbricante di bare ha invitato a cena i suoi clienti e Puškin può serrare in una morsa la materia indocile dell’esistenza, e con la sua prosa geometrica e trasparente, asciutta e protocollare, ma anche biblica e concreta, renderne il mistero e la concitazione. E se poi nel Mastro di postacommuovono per il loro silenzio le sventurate sorti che l’autore non descrive ma riflette in un sorvegliato gioco di allusioni sociali e in un finale inaspettatamente felice, è con La dama di picche che fantastico e reale arrivano a toccarsi e scambiarsi di ruolo. Strutturato sul contrasto tra due epoche, tra due classi e tra due atteggiamenti dello spirito, il racconto è considerato il più famoso e il più cifrato del poeta, il suo racconto «sfinge». Tommaso Landolfi, che chiamava Puškin «folleggiante e capriccioso genio universale», riversa nella traduzione italiana la febbrile ricerca di novità e perfezione verbale del testo russo. La versione landolfiana di questi tre racconti di Puškin (1799-1837) apparve nel 1948 – insieme ad altre traduzioni da Turgenev, Gogol’, Tolstoj, Dostoevskij, Cechov e Bunin – nell’ambito dell’antologia Narratori russi curata dallo stesso Landolfi per l’editore Bompiani; nel 1960 queste stesse traduzioni furono riproposte da Vallecchi nel volume Racconti russi.
Traduzione di Tommaso Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
«La camera era piena di morti. La luna illuminava per le finestre i loro visi gialli e violacei, le bocche cavernose, gli occhi foschi e semichiusi, i nasi sporgenti ... le morte in cuffie e gale, i morti maschi, se funzionari, in uniforme ... i mercanti col caffettano della festa»: il fabbricante di bare ha invitato a cena i suoi clienti e Puškin può serrare in una morsa la materia indocile dell’esistenza, e con la sua prosa geometrica e trasparente, asciutta e protocollare, ma anche biblica e concreta, renderne il mistero e la concitazione. E se poi nel Mastro di postacommuovono per il loro silenzio le sventurate sorti che l’autore non descrive ma riflette in un sorvegliato gioco di allusioni sociali e in un finale inaspettatamente felice, è con La dama di picche che fantastico e reale arrivano a toccarsi e scambiarsi di ruolo. Strutturato sul contrasto tra due epoche, tra due classi e tra due atteggiamenti dello spirito, il racconto è considerato il più famoso e il più cifrato del poeta, il suo racconto «sfinge». Tommaso Landolfi, che chiamava Puškin «folleggiante e capriccioso genio universale», riversa nella traduzione italiana la febbrile ricerca di novità e perfezione verbale del testo russo. La versione landolfiana di questi tre racconti di Puškin (1799-1837) apparve nel 1948 – insieme ad altre traduzioni da Turgenev, Gogol’, Tolstoj, Dostoevskij, Cechov e Bunin – nell’ambito dell’antologia Narratori russi curata dallo stesso Landolfi per l’editore Bompiani; nel 1960 queste stesse traduzioni furono riproposte da Vallecchi nel volume Racconti russi.
Lev Tolstoj
La morte di Ivan Il’ic - Tre morti
A cura di Idolina Landolfi
Traduzione di Tommaso Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
Se si vuole avere il senso immediato, incontrovertibile della grandezza di Tolstoj già in poche pagine, basta aprire questo libro. Storia apparentemente delle più comuni – un personaggio mediocre e senza profilo scopre, dopo un banale incidente casalingo, di essere affetto da una malattia mortale –, la vicenda di Ivan Il’ic è forse l’opera dove, più che mai, la morte diventa presenza, interlocutore, addirittura potenza evocatrice di una nuova realtà. E questo prodigio narrativo si manifesta a noi con l’impassibile sicurezza di cui Tolstoj aveva il segreto. Come accadde per i Ricordi dal sottosuolo di Dostoevskij, Landolfi volle cimentarsi con un testo fra i più alti di Tolstoj – e ne risultò una traduzione memorabile. Insieme alla Morte di Ivan Il’ic, il lettore troverà qui le altre versioni landolfiane da Tolstoj: il racconto lungo Tre morti, Palecek il giullare e un fascio di racconti brevi. Quale envoi per esse, potranno valere alcune felici parole che Landolfi dedicò una volta a Tolstoj: «Di fatto sta che egli, per motivi che alla più serrata analisi restano e devono restare oscuri, in quasi ogni suo scritto ci colpisce al cuore; e ci lascia, è vero, senza consolazioni e come vuoti (indice d’una forza eppure anche d’una debolezza), ma da quella stessa disperazione, da quel lavacro ciascuno potrà trarre nuova energia per procedere ovvero per tracciarsi daccapo la propria via, meglio ancora se diversa dalla sua». La Morte di Ivan Il’ic di Lev Tolstoj (1828-1910) apparve per la prima volta nel 1886.
Traduzione di Tommaso Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
Se si vuole avere il senso immediato, incontrovertibile della grandezza di Tolstoj già in poche pagine, basta aprire questo libro. Storia apparentemente delle più comuni – un personaggio mediocre e senza profilo scopre, dopo un banale incidente casalingo, di essere affetto da una malattia mortale –, la vicenda di Ivan Il’ic è forse l’opera dove, più che mai, la morte diventa presenza, interlocutore, addirittura potenza evocatrice di una nuova realtà. E questo prodigio narrativo si manifesta a noi con l’impassibile sicurezza di cui Tolstoj aveva il segreto. Come accadde per i Ricordi dal sottosuolo di Dostoevskij, Landolfi volle cimentarsi con un testo fra i più alti di Tolstoj – e ne risultò una traduzione memorabile. Insieme alla Morte di Ivan Il’ic, il lettore troverà qui le altre versioni landolfiane da Tolstoj: il racconto lungo Tre morti, Palecek il giullare e un fascio di racconti brevi. Quale envoi per esse, potranno valere alcune felici parole che Landolfi dedicò una volta a Tolstoj: «Di fatto sta che egli, per motivi che alla più serrata analisi restano e devono restare oscuri, in quasi ogni suo scritto ci colpisce al cuore; e ci lascia, è vero, senza consolazioni e come vuoti (indice d’una forza eppure anche d’una debolezza), ma da quella stessa disperazione, da quel lavacro ciascuno potrà trarre nuova energia per procedere ovvero per tracciarsi daccapo la propria via, meglio ancora se diversa dalla sua». La Morte di Ivan Il’ic di Lev Tolstoj (1828-1910) apparve per la prima volta nel 1886.
Charles Nodier Inés de Las Sierras
A cura di Idolina Landolfi
Traduzione di Tommaso Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
Catalogna, 24 dicembre 1812: tre ufficiali dell’esercito napoleonico in viaggio per Barcellona sono costretti a trascorrere la notte in un maniero abbandonato, dove secoli addietro un nobile di «mali costumi», Ghismondo de Las Sierras, ha pugnalato negli eccessi di un’orgia la giovane moglie Inés, colpevole di volerlo «richiamare a sentimenti umani». Ogni anno, proprio la notte di Natale, Inés torna «d’in seno ai morti» a consumare la sua vendetta: tocca il cuore di Ghismondo e dei suoi compagni di nequizie «colla sua mano ardente, e se ne ritorna alle fiamme del purgatorio dopo averli resi a quelle dell’inferno!». E ancora una volta Inés riappare, trascinando i tre ufficiali nel vortice di una vicenda alla quale uno solo di loro riuscirà a sopravvivere. Morboso e inquietante, percorso da fantasie necrofile e brividi gotici, questo conte de revenants sembra presiedere, come un nobile ritratto di antenato, a numerose filiazioni, che giungono sino alla Blixen e a Perutz. Così anche, non poteva che folgorare Landolfi, facendo leva su alcune delle sue più segrete ossessioni. Da questo incontro-simbiosi è nata una traduzione perfetta, dove il lettore ritroverà inalterata la seduzione del testo francese e insieme la prosa vibrante dei migliori racconti di Landolfi. La traduzione di Landolfi, apparsa in venti puntate sul «Nuovo Corriere» nel 1951, viene qui proposta per la prima volta in volume.
Traduzione di Tommaso Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
Catalogna, 24 dicembre 1812: tre ufficiali dell’esercito napoleonico in viaggio per Barcellona sono costretti a trascorrere la notte in un maniero abbandonato, dove secoli addietro un nobile di «mali costumi», Ghismondo de Las Sierras, ha pugnalato negli eccessi di un’orgia la giovane moglie Inés, colpevole di volerlo «richiamare a sentimenti umani». Ogni anno, proprio la notte di Natale, Inés torna «d’in seno ai morti» a consumare la sua vendetta: tocca il cuore di Ghismondo e dei suoi compagni di nequizie «colla sua mano ardente, e se ne ritorna alle fiamme del purgatorio dopo averli resi a quelle dell’inferno!». E ancora una volta Inés riappare, trascinando i tre ufficiali nel vortice di una vicenda alla quale uno solo di loro riuscirà a sopravvivere. Morboso e inquietante, percorso da fantasie necrofile e brividi gotici, questo conte de revenants sembra presiedere, come un nobile ritratto di antenato, a numerose filiazioni, che giungono sino alla Blixen e a Perutz. Così anche, non poteva che folgorare Landolfi, facendo leva su alcune delle sue più segrete ossessioni. Da questo incontro-simbiosi è nata una traduzione perfetta, dove il lettore ritroverà inalterata la seduzione del testo francese e insieme la prosa vibrante dei migliori racconti di Landolfi. La traduzione di Landolfi, apparsa in venti puntate sul «Nuovo Corriere» nel 1951, viene qui proposta per la prima volta in volume.
Michail Lermontov Liriche e poemi
Traduzione di Tommaso Landolfi
Biblioteca Adelphi
Michail Lermontov attraversò le lettere russe come una meteora. Più giovane di Puškin di quasi una generazione, crebbe in un mondo già lontano dai modelli classici e incapace di confrontarsi con la sua eccezionale opera poetica. Un’opera che, soprattutto nell’ultimo lustro, condurrà Lermontov ai vertici della lirica romantica, non solo russa.La vita breve, intensa, influenzata dal modello byroniano – che plasmò l’involucro esteriore dell’uomo, fatto di orgoglio luciferino e sprezzante cinismo –, si riflette in componimenti dominati da eroi solitari, da esclusi e proscritti alla costante ricerca di un riscatto. Le loro passioni titaniche vivono sullo sfondo di una natura visionaria che spazia dalle vette innevate e dai fiumi vorticosi del Caucaso alla Spagna di Don Juan o alla Scozia di Ossian, dalla Palestina ardente alla Russia dell’epos popolare, richiamando così le remote contrade care ai romantici inglesi e tedeschi.Summa degli eroi di Lermontov è il Demone, creatura ribelle e dannata che cerca la salvezza in un amore impossibile. All’eroe di tenebra per eccellenza, e agli altri mondi simbolici e paralleli che gli fanno da cornice in questa antologia – quello del gioco a carte, ovvero l’alea dell’esistenza; quello delle maschere, ovvero il vuoto delle apparenze; quello di un Oriente affocato, ovvero i deserti dell’anima –, Tommaso Landolfi, lui stesso «perenne forestiero» della vita, presta una prodigiosa vena lirica e un dettato di assoluta musicalità.
Biblioteca Adelphi
Michail Lermontov attraversò le lettere russe come una meteora. Più giovane di Puškin di quasi una generazione, crebbe in un mondo già lontano dai modelli classici e incapace di confrontarsi con la sua eccezionale opera poetica. Un’opera che, soprattutto nell’ultimo lustro, condurrà Lermontov ai vertici della lirica romantica, non solo russa.La vita breve, intensa, influenzata dal modello byroniano – che plasmò l’involucro esteriore dell’uomo, fatto di orgoglio luciferino e sprezzante cinismo –, si riflette in componimenti dominati da eroi solitari, da esclusi e proscritti alla costante ricerca di un riscatto. Le loro passioni titaniche vivono sullo sfondo di una natura visionaria che spazia dalle vette innevate e dai fiumi vorticosi del Caucaso alla Spagna di Don Juan o alla Scozia di Ossian, dalla Palestina ardente alla Russia dell’epos popolare, richiamando così le remote contrade care ai romantici inglesi e tedeschi.Summa degli eroi di Lermontov è il Demone, creatura ribelle e dannata che cerca la salvezza in un amore impossibile. All’eroe di tenebra per eccellenza, e agli altri mondi simbolici e paralleli che gli fanno da cornice in questa antologia – quello del gioco a carte, ovvero l’alea dell’esistenza; quello delle maschere, ovvero il vuoto delle apparenze; quello di un Oriente affocato, ovvero i deserti dell’anima –, Tommaso Landolfi, lui stesso «perenne forestiero» della vita, presta una prodigiosa vena lirica e un dettato di assoluta musicalità.
Aleksandr Puškin Teatro e Favole
Traduzione di Tommaso Landolfi
Biblioteca Adelphi
Tra il 1824 e il 1825, nella solitudine inquieta della tenuta di Michajlovskoe, dove è stato confinato dallo zar Alessandro I, Puškin concepisce il Boris Godunov, la prima «tragedia romantica» russa: nel far rivivere tumultuose vicende dinastiche della Moscovia dei secoli XVI e XVII, egli indaga la natura del potere, che, alimentandosi di sangue e violenza, si rivela inevitabilmente funesto. All’autunno del 1830 risalgono invece i quattro atti unici – o «piccole tragedie» – che mettono a fuoco i nuclei psicologici di altrettanti vizi umani: avarizia, invidia, lussuria, empietà. Le cornici storiche spaziano dalla Francia e dall’Inghilterra medievali alla Spagna del Secolo d’Oro all’Austria mozartiana, ma resta costante il confronto tra la libertà individuale e l’abbandono alla morale e ai costumi correnti, da cui il male germoglia.Altrettanto mirabili, anche se meno note, sono le Favole che Puškin scrisse nell’ultimo periodo della sua vita, amalgamando le tradizioni del folklore russo e il ricordo delle fiabe narrategli nell’infanzia dalla balia Arina Rodionova. Una Russia irreale disseminata di cupole d’oro; orti, giardini e arabescate architetture dai colori di smalto; capanne di tronchi sperdute nel folto di boschi secolari; seriche tende tra le montagne; e poi schiere di animali sapienti e di magici attrezzi: lo specchio parlante, la mela rosso-oro che ammalia, la corda che increspa le onde del mare facendone uscire schiere di diavoli ottusi...Una materia così densa e originale trova una rispondenza totale nell’estro sulfureo e guizzante di un traduttore d’eccezione, Tommaso Landolfi – il quale, capace di mediare magistralmente la nitida concisione del dettato puškiniano, e pur ribellandosi talvolta, per troppa congenialità, al suo soggetto, si trovò ad ammettere: «Questo capriccioso e folleggiante Puškin ... finisce coll’avere un certo piglietto da genio universale cui andrebbero ascritte molte posteriori ricognizioni».
Biblioteca Adelphi
Tra il 1824 e il 1825, nella solitudine inquieta della tenuta di Michajlovskoe, dove è stato confinato dallo zar Alessandro I, Puškin concepisce il Boris Godunov, la prima «tragedia romantica» russa: nel far rivivere tumultuose vicende dinastiche della Moscovia dei secoli XVI e XVII, egli indaga la natura del potere, che, alimentandosi di sangue e violenza, si rivela inevitabilmente funesto. All’autunno del 1830 risalgono invece i quattro atti unici – o «piccole tragedie» – che mettono a fuoco i nuclei psicologici di altrettanti vizi umani: avarizia, invidia, lussuria, empietà. Le cornici storiche spaziano dalla Francia e dall’Inghilterra medievali alla Spagna del Secolo d’Oro all’Austria mozartiana, ma resta costante il confronto tra la libertà individuale e l’abbandono alla morale e ai costumi correnti, da cui il male germoglia.Altrettanto mirabili, anche se meno note, sono le Favole che Puškin scrisse nell’ultimo periodo della sua vita, amalgamando le tradizioni del folklore russo e il ricordo delle fiabe narrategli nell’infanzia dalla balia Arina Rodionova. Una Russia irreale disseminata di cupole d’oro; orti, giardini e arabescate architetture dai colori di smalto; capanne di tronchi sperdute nel folto di boschi secolari; seriche tende tra le montagne; e poi schiere di animali sapienti e di magici attrezzi: lo specchio parlante, la mela rosso-oro che ammalia, la corda che increspa le onde del mare facendone uscire schiere di diavoli ottusi...Una materia così densa e originale trova una rispondenza totale nell’estro sulfureo e guizzante di un traduttore d’eccezione, Tommaso Landolfi – il quale, capace di mediare magistralmente la nitida concisione del dettato puškiniano, e pur ribellandosi talvolta, per troppa congenialità, al suo soggetto, si trovò ad ammettere: «Questo capriccioso e folleggiante Puškin ... finisce coll’avere un certo piglietto da genio universale cui andrebbero ascritte molte posteriori ricognizioni».
Ivan Turgenev Mumù
Traduzione di Tommaso Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
La bellezza, la maestria di una lingua di straordinaria trasparenza che si adagia sulle cose aderendovi come una seconda, radiosa pelle, apparentano questi tre racconti che Turgenev scrisse in anni diversi, per occasioni diverse, e che vengono qui pubblicati nella successione che Tommaso Landolfi volle scegliere per l’antologia Narratori russi. Il prato di Bezin entrò a far parte di quelle Memorie di un cacciatore (1851) che diedero a Turgenev fama di maestro del realismo e primo cantore del mondo fino ad allora muto dei contadini, dei servi della gleba; puro oggetto di bellezza, prediletto da Henry James tra gli scritti turgeneviani, è gremito di ombre, presenze demoniache, inquietanti esseri fantastici – spiriti dei boschi e delle acque, russalche, fantasmi di annegati –, e tuttavia emana poesia e non sgomento. In La reliquia vivente (1874), apparso in una più tarda edizione delle Memorie di un cacciatore, restiamo ammirati e straziati di fronte alla semplice, spoglia sacralità di una creatura devastata dalla malattia, ridotta a povero e dolorante oggetto, e tuttavia viva come un fiore, un albero, un profumo della natura russa che tanto deve all’amore e alla sapienza narrativa di Turgenev. L’orrore pervade infine il breve e tremendo capolavoro Mumù (1854), storia di un povero servitore sordomuto costretto dalla padrona a sopprimere il cagnolino divenuto per lui ragione di vita, amore, felicità. E ogni volta, leggendo questi racconti, tornano alla memoria le parole che a Turgenev scrisse un suo vero amico e illuminato lettore, Gustave Flaubert: «Quanto più vi studio, tanto più il vostro talento mi sbalordisce. Ammiro quella vostra maniera al tempo stesso veemente e trattenuta, quella simpatia che scende fino agli esseri più infimi e dà un pensiero ai paesaggi».
Piccola Biblioteca Adelphi
La bellezza, la maestria di una lingua di straordinaria trasparenza che si adagia sulle cose aderendovi come una seconda, radiosa pelle, apparentano questi tre racconti che Turgenev scrisse in anni diversi, per occasioni diverse, e che vengono qui pubblicati nella successione che Tommaso Landolfi volle scegliere per l’antologia Narratori russi. Il prato di Bezin entrò a far parte di quelle Memorie di un cacciatore (1851) che diedero a Turgenev fama di maestro del realismo e primo cantore del mondo fino ad allora muto dei contadini, dei servi della gleba; puro oggetto di bellezza, prediletto da Henry James tra gli scritti turgeneviani, è gremito di ombre, presenze demoniache, inquietanti esseri fantastici – spiriti dei boschi e delle acque, russalche, fantasmi di annegati –, e tuttavia emana poesia e non sgomento. In La reliquia vivente (1874), apparso in una più tarda edizione delle Memorie di un cacciatore, restiamo ammirati e straziati di fronte alla semplice, spoglia sacralità di una creatura devastata dalla malattia, ridotta a povero e dolorante oggetto, e tuttavia viva come un fiore, un albero, un profumo della natura russa che tanto deve all’amore e alla sapienza narrativa di Turgenev. L’orrore pervade infine il breve e tremendo capolavoro Mumù (1854), storia di un povero servitore sordomuto costretto dalla padrona a sopprimere il cagnolino divenuto per lui ragione di vita, amore, felicità. E ogni volta, leggendo questi racconti, tornano alla memoria le parole che a Turgenev scrisse un suo vero amico e illuminato lettore, Gustave Flaubert: «Quanto più vi studio, tanto più il vostro talento mi sbalordisce. Ammiro quella vostra maniera al tempo stesso veemente e trattenuta, quella simpatia che scende fino agli esseri più infimi e dà un pensiero ai paesaggi».
Novalis Enrico di Ofterdingen
Traduzione di Tommaso Landolfi
Biblioteca Adelphi
Filosofo della natura, rabdomante dei misteri della notte, Friedrich von Hardenberg, alias Novalis (1772-1801), apparve e scomparve come una folgore nel firmamento del romanticismo tedesco, lasciando dietro di sé un bagliore che seguitò a rischiarare l’immaginario poetico fino a oggi. Il fiore azzurro che per tutto l’Ottocento varrà come cifra della poesia sboccia nel suo romanzo Enrico di Ofterdingen (1802), storia di un’iniziazione alla parola poetica in cui il viaggio del protagonista attraverso una Germania dall’aura medioevale è allegoria di un cammino alla conquista della verità del sogno. La discesa fra i segreti del grembo della terra e del libro della natura, l’incontro con il bel volto di Mathilde e la sapienza di Klingsohr segnano le tappe di un progresso dell’anima, di un itinerario poetico dove soltanto la visione disserra gli arcani dell’essere. Alchimia di una prosa che fluisce liquida come le acque azzurre in cui sprofonda il sogno di Enrico e di uno stile perennemente in bilico fra l’incanto della fiaba e la lucidità della speculazione. Enrico di Ofterdingen rappresenta la suprema realizzazione di ciò che Novalis intendeva per poesia: «una follia secondo regola e con piena consapevolezza». La prima versione landolfiana dell’Enrico di Ofterdingen, ovvero di parte di esso (capp. I, II, V, VI, VII, VIII) risale al 1942, anno in cui il romanzo uscì presso Bompiani nell’ambito della raccolta Germanica, a cura di Leone Traverso. L’intero testo, che qui presentiamo (pochissime le varianti relative ai capitoli già editi), fu poi pubblicato da Vallecchi nel 1962.
Biblioteca Adelphi
Filosofo della natura, rabdomante dei misteri della notte, Friedrich von Hardenberg, alias Novalis (1772-1801), apparve e scomparve come una folgore nel firmamento del romanticismo tedesco, lasciando dietro di sé un bagliore che seguitò a rischiarare l’immaginario poetico fino a oggi. Il fiore azzurro che per tutto l’Ottocento varrà come cifra della poesia sboccia nel suo romanzo Enrico di Ofterdingen (1802), storia di un’iniziazione alla parola poetica in cui il viaggio del protagonista attraverso una Germania dall’aura medioevale è allegoria di un cammino alla conquista della verità del sogno. La discesa fra i segreti del grembo della terra e del libro della natura, l’incontro con il bel volto di Mathilde e la sapienza di Klingsohr segnano le tappe di un progresso dell’anima, di un itinerario poetico dove soltanto la visione disserra gli arcani dell’essere. Alchimia di una prosa che fluisce liquida come le acque azzurre in cui sprofonda il sogno di Enrico e di uno stile perennemente in bilico fra l’incanto della fiaba e la lucidità della speculazione. Enrico di Ofterdingen rappresenta la suprema realizzazione di ciò che Novalis intendeva per poesia: «una follia secondo regola e con piena consapevolezza». La prima versione landolfiana dell’Enrico di Ofterdingen, ovvero di parte di esso (capp. I, II, V, VI, VII, VIII) risale al 1942, anno in cui il romanzo uscì presso Bompiani nell’ambito della raccolta Germanica, a cura di Leone Traverso. L’intero testo, che qui presentiamo (pochissime le varianti relative ai capitoli già editi), fu poi pubblicato da Vallecchi nel 1962.
Fëdor Dostoevskij Ricordi dal sottosuolo
Traduzione di Tommaso Landolfi
Piccola Biblioteca Adelphi
Con questo libro, apparso nel 1864, affiora e si disegna uno spazio innominato della letteratura e dell’anima: il sottosuolo, luogo di tutto ciò che la coscienza tenta vanamente di accantonare. Ed è come l’improvviso emergere di un continente: nessuno, dopo averlo esplorato, riuscirà più a dimenticare la voce stridula, penetrante, spudorata che parla in queste pagine e pone domande che fanno ammutolire. Siamo davvero «convinti che soltanto il normale e il positivo, insomma soltanto il benessere, sia vantaggioso per l’uomo? Che non abbia a sbagliarsi, la ragione, a proposito di codesti vantaggi? Non sarebbe poi possibile che all’uomo non piaccia soltanto lo star bene? Che gli piaccia anzi altrettanto la sofferenza? Che lo star male gli sia di vantaggio giusto quanto lo star bene?». Difficile pensare a un testo più congeniale a Landolfi, che su di esso ha dato una prova magistrale della sua arte di traduttore. I Ricordi dal sottosuolodi Fëdor Dostoevskij (1821-1881) apparvero per la prima volta sulla rivista «Epocha» nel 1864. La versione landolfiana fu pubblicata nel 1948 nell’ambito di un’antologia di Narratori russi curata dallo stesso Landolfi per l’editore Bompiani.
Piccola Biblioteca Adelphi
Con questo libro, apparso nel 1864, affiora e si disegna uno spazio innominato della letteratura e dell’anima: il sottosuolo, luogo di tutto ciò che la coscienza tenta vanamente di accantonare. Ed è come l’improvviso emergere di un continente: nessuno, dopo averlo esplorato, riuscirà più a dimenticare la voce stridula, penetrante, spudorata che parla in queste pagine e pone domande che fanno ammutolire. Siamo davvero «convinti che soltanto il normale e il positivo, insomma soltanto il benessere, sia vantaggioso per l’uomo? Che non abbia a sbagliarsi, la ragione, a proposito di codesti vantaggi? Non sarebbe poi possibile che all’uomo non piaccia soltanto lo star bene? Che gli piaccia anzi altrettanto la sofferenza? Che lo star male gli sia di vantaggio giusto quanto lo star bene?». Difficile pensare a un testo più congeniale a Landolfi, che su di esso ha dato una prova magistrale della sua arte di traduttore. I Ricordi dal sottosuolodi Fëdor Dostoevskij (1821-1881) apparvero per la prima volta sulla rivista «Epocha» nel 1864. La versione landolfiana fu pubblicata nel 1948 nell’ambito di un’antologia di Narratori russi curata dallo stesso Landolfi per l’editore Bompiani.