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IATLO CALVINO E CARLO BO SU LANDOLFI
Carlo Bo
Tommaso Landolfi
Italo Calvino, nella sua Postfazione all'antologia del 1982, indica una parentela letteraria tra le opere di Landolfi e quelle di Barbey d'Aurevilly e di Villiers de l'Isle-Adam, mentre Carlo Bo ha dichiarato più volte che Landolfi è il primo scrittore dopo D'Annunzio ad avere il dono di giocare con la lingua italiana e di poterne fare ciò che vuole.
Landolfi ha un vero interesse per le possibilità della lingua, seppure non sia uno scrittore d'avanguardia ma piuttosto un conservatore: per esempio, nel racconto La passeggiata[4], che alla persona dotata di un vocabolario medio pare un racconto astruso e incomprensibile, Landolfi fa sfilare una serie di vocaboli desueti, o gergali, ma tutti presenti sul dizionario. Una glossolalia, la sua, come direbbe Agamben[5], da leggere con una continua sorpresa, dizionario alla mano (il suo era uno Zingarelli, ma usava anche il Tommaseo-Bellini)
Italo Calvino, nella sua Postfazione all'antologia del 1982, indica una parentela letteraria tra le opere di Landolfi e quelle di Barbey d'Aurevilly e di Villiers de l'Isle-Adam, mentre Carlo Bo ha dichiarato più volte che Landolfi è il primo scrittore dopo D'Annunzio ad avere il dono di giocare con la lingua italiana e di poterne fare ciò che vuole.
Landolfi ha un vero interesse per le possibilità della lingua, seppure non sia uno scrittore d'avanguardia ma piuttosto un conservatore: per esempio, nel racconto La passeggiata[4], che alla persona dotata di un vocabolario medio pare un racconto astruso e incomprensibile, Landolfi fa sfilare una serie di vocaboli desueti, o gergali, ma tutti presenti sul dizionario. Una glossolalia, la sua, come direbbe Agamben[5], da leggere con una continua sorpresa, dizionario alla mano (il suo era uno Zingarelli, ma usava anche il Tommaseo-Bellini)
PROFESSOR FRANCESCO LAMENDOLA ARTICOLO SU LANDOLFI
Dal capitolo undicesimo del «Racconto d'autunno» di Tommaso Landolfi (Milano, Rizzoli, 1975, pp. 87-91):
«Decisi di por mano al secondo zolfanello, e lo accesi con infinita precauzione, poiché il terzo volevo assolutamente serbare per il ritorno. La breve luce mi rivelò un'angusta grotta, le cui pareti mostravano, peraltro, qua e là, la mano dell'uomo in rinforzi di muratura, in blocchi di pietra inseriti a forza nei fessi della roccia e in altre opere intese a rendere più sicuro il luogo contro ogni tentativo d'evasione di chi vi fosse rinchiuso. Esse pareti poi, e particolarmente il suolo e il cielo, presentavano il più curioso e tetro spettacolo che io abbia mai veduto, erano cioè coperti di palle, filamenti, vesciche, bozzoli, bubboni (e non so più come chiamarli) di varie dimensioni, bianchi e boffici, che presi dapprima per funghi, che erano invece mostruosi fiori di muffa; che, ad afferrarli, si dissolvevano totalmente in un velo d'umidità sulla palma.
Quegli schifosi vegetali avevano distratta la mia attenzione al punto che solo quando lo zolfanello languì, e subito si spinse con un ultimo bagliore dello stecchino carbonizzato, affigurato l'oggetto più interessante di quel carcere. Dico che, alla mia sinistra contro la prete, vidi fuggevolmente un grosso anello di ferro da cui pendeva un pezzo di catena massiccia e rugginosa, e fin qui nulla di strano; lo strano si era invece che su quest'anello poggiava qualcosa come un mazzolino di fiori, disposti approssimativamente a corona. Fiori dì dentro? E, per colmo di sorpresa, a toccarli sembravano freschi.
Ero infra due, incerto cioè se sacrificare anche il terzo zolfanello e affidarmi unicamente al tatto per il ritorno, o se abbandonare la mia indagine. Ma questo elemento di essa appariva troppo impensato e importante: senza esitare, accesi.
Erano fiori davvero e davvero freschi, roselline d'autunno selvatiche o inselvatichite, quelle che contemplavo con religioso terrore; rammentai infatti vagamente d'aver veduto, nel giardino di Renzo davanti alla casa, due o tre di tali cespi. Che cosa pensare di ciò? Era quanto non sapevo in nessuna maniera. E ormai il silenzio e l'aria d'avello di quel sotterraneo, coi suoi misteri, principiavano a toccarmi non per burla i nervi: mi ritirai in gran fretta..
Le mie emozioni di quel mattino non erano però finite. Abbandonando l'incerto chiarore laggiù diffusa dalla crepa, dovevo ora percorrere, come si rammenta, nella più completa oscurità un tratto piuttosto lungo e non poco accidentato. Ebbene, avevo appena cominciato a salire l'infima scaletta, che mi parve di udire un leggerissimo scalpiccio in cima a questa. Di nuovo il vecchio o, peggio ancora, i suoi cani, spintisi per un caso fin lì? M'inorecchii: sembrava pesta umana, benché non di persona in babbucce. E se non il vecchio, di bel nuovo, chi? E se il vecchio; perché pareva adesso fuggire innanzi a me? E, se s'era avanzato fino a un certo punto di quel sotterraneo, fino a pochi passi da me, per qualche sua ragione e ignaro del tutto della mia presenza, perché non lo avevo udito primo? Non sapevo ad ogni modo se ripiegare nella galleria dove sarei stato almeno assistito da quella scarsa luce, per il caso che avessi dovuto difendermi contro qualcuno o qualche cosa; soprattutto ero incapace di formulare un'ipotesi qualunque. Ma la pesta si era rapidamente allontanata e, considerando quest'unico fatto positivo, decise di proseguire, colla più grande cautela.
Raggiunto finalmente il sommo della scala, udii daccapo il rumore. Stavolta non potevo aver dubbi: era una pesta umana, che con sorda eco il cubicolo in pendio ripercoteva di parete in parete. Essa suonava assai frequente, come la persona corresse, e assai lieve, come questa fosse di poco peso. Particolarità che mi stupirono: quello, non l'avrei detto il passo d'un vecchio, sia pure ben portante qual'era il mio ospite.
Lo scalpiccio non pareva precedermi di gran tratto, sebbene potesse in ciò ingannarmi la suddetta eco e, se mi fermavo, si faceva meno frequente, per arrestarsi poco dopo del tutto; se procedevo, serrava il ritmo. Esso era inoltre alquanto vario, fatta anche la parte al rimbombo e alla natura del terreno; quasi la persona corresse, come dire?, con una certa volubilità. Se almeno avessi avuto ancora i miei zolfanelli! Ché certo li avrei accesi, malgrado tutto. La mia curiosità infatti, o quello che poteva essere, per la cecità medesima in cui mi dibattevo, era diventata furiosa e disperata, aggressiva. Sconvolto, dico e incurante degli eventuali pericoli, mi buttai a corsa anch'io, in punta di piedi, coll'idea di afferrare la persona fuggente.
Ma costei, oltre a conoscere il luogo, doveva essere molto di me più agile, perché udii la pesta allontanarsi rapidamente verso l'alto, e quindi spengersi; la mia intenzione, in ogni caso, era stata penetrata. Sbollito e stordito, giunsi a cervello e mani vuote a pie' della seguente scaletta, dove si sa che arrivava un po' di luce dalla canova soprastante.
La mia avventura, o meglio la prima parte di essa, era finita senza che io cavassi un ragno dal buco. Persistendo ora a credere che il fuggitivo fosse il mio ospite, che senso, in nome di Dio, poteva avere quella folle corsa nelle tenebre? Né era più da pensare che egli corresse per i fatti propri; evidente invece era apparso che fuggiva e mi sfuggiva.
Rimandai le considerazioni a miglior tempo; cominciava infatti dell'avventura la seconda parte, la quale anche mi serbava una scoperta, se così si può chiamare un ritrovamento da cui (come da tutti gli altri) non seppi cavare alcun preciso costrutto. Dovevo adesso rifare il cammino percorso in principio, ma senza ricalcarlo pari pari, al fine d'evitare le stanze abitate allora occorsemi; o, meglio, cercare indipendentemente altra via verso l'esterno, donde rientrando mi sarebbe stato più facile giustificare la mia assenza.
Qui sì che mi persi in un laberinto di stanze e di passaggi e ripostigli e corridoi e scale, alcuni palesi, altre segrete o che lo erano state un tempo. Basti dire che mi ritrovai un paio di volte nella soffitta, un suggestivo luogo pieno di vetusti oggetti, inutili e curiosi, , e una addirittura sul terrazzo merlato. Mi sembrò infine d'aver trovati il filo d'Arianna, e comincia a seguire certo cammino che mi pareva il giusto. E a questo punto incappai nuovamente in una camera che pareva abitata, una minuscola camera, o gabinetto, al secondo piano.
Anche di quella, come dell'altro dov'ero stato sorpreso dal vecchi, il general colore era il giallo; ma i pochi mobili e le tappezzerie apparivano meglio conservati. Su un tavolino lucido, con uno specchio di Venezia e un pastorello di Capodimonte, giaceva un terzo oggetto che attrasse alla prima i miei sguardi: un vezzo di topazi. E stavolta lo conobbi senza esitare.
Stavolta, però, non indugiai a contemplarlo: a che sarebbe servito? Dovevo invece evitare altre sorprese e serbarmi la maggior libertà d'azione che potessi. Così quella donna inafferrabile (inafferrabile anche in me stesso) mi forniva un'altra testimonianza del suo soggiorno, attuale o passato, nel cupo maniero. Che potevo fare, sul momento, se non accoglierla con devozione? E in cuscinetto di raso azzurro ricamato, da parar gli urti dell'uscio contro il muro, pendeva dalla maniglia che ora impugnavo, e un mazzetto di fiori appassiti era infilato fra i cordoncini. Il caso sembrava mandarmi sempre più accosto alla fonte prima se mi è permesso esprimermi così, di quel giallore, in luoghi sempre più impregnati di lei; e anche del suo profumo, lì più forte. Ma, a ben fiutarlo: profumo di persona vivente o di cose morte?
Languido e commosso, ancor più smarrito pervenni da ultimo all'atrio dov'era la scala di legno che tutti i giorni salivo e scendevo, in posti dunque a me familiari; donde mi riuscì raggiungere il cortiletto di pietra e infine, scavalcando un muro, l'esterno. Rientrai con un gran giro e comparvi nella sala; il vecchio, che era già a tavola, mi lanciò un lungo sguardo sospettoso, ma non disse parola.»
Queste poche pagine possono dare un'idea dell'atmosfera di cupo mistero e di angosciosa solitudine che percorrono tutto il «Racconto d'autunno» di Tommaso Landolfi, uno dei maggiori outsider della nostra letteratura e l'unico che abbia coltivato principalmente il filone gotico e del mistero; nonché fornire un saggio della sua scrittura, strana e volutamente arcaica, quasi legnosa, che ben riflette quella dimensione atemporale e indefinibile che connota lo stile del Nostro.
Cupa, disperatamente triste e oscuramente minacciosa è l'atmosfera che pervade il breve romanzo, scritto nel 1947, con la ferita nel cuore ancora fresca della scellerata distruzione, da parte delle artiglierie americane, della millenaria abbazia di Montecassino e dei luoghi più cari dell'infanzia di Landolfi, che egli visse (è un'espressione che ricorre, appunto, in quest'opera) come una vera e propria profanazione.
Inoltre, si tratta di un'opera da cui è del tutto assente l'ironia, che, negli altri romanzi e racconti di Landolfi (a cominciare dalle prime due opere, il «Dialogo dei massimi sistemi», del 1937, e «La pietra lunare», del 1939 (quest'ultimo, probabilmente, il più noto al grande pubblico), alleggerisce il clima allucinato e sdrammatizza le situazioni.
La trama è piuttosto scarna.
Nell'autunno del 1943, mentre un esercito «detto liberatore» avanza da una parte, e un altro, «chiamato occupante», si insedia dall'altra (ma sia l'anno, che l'identità dei due esercito, pur facilmente identificabili, non vengono detti esplicitamente), il protagonista, che è lo stesso io narrante, giunge, girovagando per le montagne di una regione imprecisata, ad una strana e cupa dimora, che sorge isolata in luogo discosto da ogni centro abitato. Un sottile filo di fumo, uscendo dal camino, sembra indicare che qualcuno deve trovarsi all'interno.
Renitente alla leva e membro, sia pure saltuario, delle bande partigiane, il giovane - che è appena sfuggito ad un rastrellamento -, esausto e inzuppato dalla pioggia, bussa più volte per chiedere ospitalità per la notte; ma nessuno gli apre. Fatto il giro della casa, constata che non esistono porte o finestre che possano cedere ai suoi sforzi; solo, da una finestra protetta da una inferriata - l'unica illuminata - scorge una stanza ammobiliata, con un piatto fumante in tavola, e due giganteschi cani che montano la guardia.
L'uomo torna a bussare ai vetri, ma con il solo risultato di provocare una rabbiosa reazione da parte dei due cani, negli occhi dei quali - tuttavia - gli sembra di leggere, oltre alla ferocia, una cupa tristezza, anzi, una vera e propria disperazione.
Nessuno compare e, per parecchio tempo, egli almanacca su come liberarsi di quei due animali per poter penetrare nella casa, ormai pervaso da una sorta di orgasmo e deciso a qualunque gesto pur di farsi accogliere dai misteriosi abitanti di essa. Finalmente, dopo molti tentativi e molta incertezza, il fuggiasco, che è armato di un fucile da caccia, riesce a forzare un ingresso e si trova all'interno: i cani stanno per slanciarsi contro di lui, allorché vengono trattenuti da un vecchio di circa settant'anni, la figura ancora eretta, l'aria triste e diffidente, che gli domanda chi egli sia e perché sia entrato a forza in casa sua. Il suo modo di esprimersi, i suoi abiti e le sue abitudini rivelano che deve trattarsi di un nobile, che vive isolato lassù, lontano dal mondo.
Il giovane si presenta e domanda ospitalità, spiegando la difficile situazione nella quale si trova; e il vecchio, sia pure a malincuore, accetta di ospitarlo per quella notte.
Il mattino dopo, svegliatosi dopo un profondo sonno riparatore, il giovane fa capire al vecchio, più che mai impaziente di vederlo partire, che desidera potersi trattenere qualche altro tempo in quella casa: un forza misteriosa ve lo tiene avvinto, insieme alla consapevolezza che un enigma deve nascondersi fra quei muri antichi, in quella stanze buie, avvolti da una atmosfera senza tempo, che è al tempo stesso inquietante e affascinante.
Passano i giorni e il protagonista, ignorando l'evidente insofferenza del vecchio, che scambia con lui solo pochissime parole ma, in compenso, lo sorveglia continuamente, come se temesse di vederlo violare un qualche suo indicibile segreto, sempre più ha la certezza che la casa sia abitata anche da altre presenze.
Un meraviglioso ritratto femminile (reminiscenza dell'omonimo racconto di Puškin), in particolare, esercita su di lui una inspiegabile attrazione; che diventa oscura certezza dell'esistenza della donna raffigurata, allorché, sparsi nelle varie stanze, egli vede alcuni dei gioielli e degli ornamenti che adornano la dama misteriosa.
Senonché, gli abiti non lasciano dubbi sul fatto che il ritratto di quella splendida giovane, che sembra guardare con occhi indecifrabili l'osservatore, risale almeno a mezzo secolo prima; e, inoltre, alcuni indizi sconcertanti lasciano pensare che ella, se pure è viva, non sia una creatura di carne e ossa, ma di altra natura.
Una notte, ad esempio, il giovane, destatosi dal sonno, ode come un respiro nella stanza buia (nella casa non vi sono lumi, tranne l'unica lucerna, che il vecchio tiene sempre con sé) e alcuni inspiegabili rumori; levatosi, non trova nessuno, e tuttavia è certo di non essersi sbagliato. Il mattino dopo, con la luce del giorno, egli tenta di penetrare nella stanza accanto, della quale, però, non trova l'ingresso; e, solo dopo un incerto andirivieni lungo stanze disabitate e tristi corridoi, riesce ad entrarvi, scoprendo così che una finta parete dà accesso alla camera nella quale egli dorme, per mezzo di un antico armadio.
Il vecchio, frattanto, assume, giorno dopo giorno, un atteggiamento sempre più sospettoso e sempre più preoccupato.
Dopo aver chiesto inutilmente al giovane di andarsene, subisce la sua decisione di trattenersi ancora, appellandosi tuttavia - con un linguaggio magniloquente e, nello stesso tempo, fin troppo evidentemente sincero, per non dire angosciato - al suo senso dell'onore, affinché rispetti gli obblighi dell'ospitalità; e gli fa intendere, con velate parole, di non osare immischiarsi in cose che non lo riguardano.
Ma, ormai, la partita in corso fra i due uomini è divenuta quasi a carte scoperte: l'ospite intuisce che una presenza femminile si cela in quella dimora, al punto che, talvolta, può perfino percepirne l'odore; il vecchio, per contro, sempre più si chiude in se stesso e si apparta per lunghe ore in qualche misterioso recesso; contemporaneamente, però, tenendo d'occhio le mosse del suo indesiderato e invadente inquilino.
Poco alla volta, la tremenda verità si rivela allo stupefatto e atterrito protagonista: il vecchio è un negromante che pratica la magia e l'evocazione dei morti; e che, nel corso di una blasfema cerimonia nelle stanze più interne della casa, supplica la donna misteriosa - evidentemente morta da molto tempo - di ritornare a lui.
Ci fermiamo qui, per non sciupare al lettore, che non avesse ancora accostato questo libro di Tommaso Landolfi, il piacere della scoperta e l'emozione della drammatica, inattesa conclusione. Ci limitiamo a dire che una presenza femminile abita realmente l'antico palazzo, e che essa segnerà in maniera indelebile la vita del protagonista; ma non aggiungiamo altro.
Le pagine che abbiamo ritenuto di presentare, quali invito alla lettura integrale del romanzo, si riferiscono alla scoperta casuale, da parte del protagonista, dei sotterranei della dimora, nei quali finisce per penetrare mentre, esplorando le stanze interne, vede sopraggiungere il vecchio con i suoi temibili cani e, temendo di essere scoperto, si rifugia, una camera dopo l'altra, fin nelle scale che conducono in basso, nelle viscere della montagna.
Laggiù, quasi completamente al buio, egli ode dei passi rapidi e leggeri e si rende conto che qualcuno - qualcuno o qualcosa - si trova laggiù, insieme a lui, a poca distanza da lui; che, probabilmente, lo sta osservando, lo sta spiando; che la soluzione del mistero è, dunque, quasi a portata di mano: e, tuttavia, gli sfugge inesorabilmente, mentre un senso di oscuro malessere s'impossessa di lui e lo riempie di un arcano sgomento.
Si tratta di un racconto ricco di significati allegorici, a cominciare dalla guerra, metafora della crudele insensatezza degli uomini, alla casa stessa, simbolo del labirinto e, quindi, anche del faticoso peregrinare dell'uomo nei meandri dell'esistenza, nei quali si muove a tentoni come un cieco, senza riuscire a intravedere un raggio di luce.
E tutta la vicenda, più in generale, si direbbe una allegria della precarietà della condizione umana: giacché questo è sempre stato il tema più caro alla poetica di Landolfi, insieme alla nostalgia dell'amore perfetto, appagante, rasserenante - di cui pure, nel «Racconto d'autunno», vi è un esplicito rimando nella elusiva presenza femminile che impregna di sé tutta la casa e che il protagonista insegue disperatamente, a rischio di smarrire la ragione, nella sua disperata e affannosa ricerca.
Concludiamo questo invito alla lettura di Tommaso Landolfi riportando alcuni passaggi della «Nota introduttiva» di Carlo Bo, uno dei maggiori critici letterari italiani del secolo appena trascorso (Op. cit., pp. III-IV):
«A Landolfi è riuscita un'impresa che possiamo ben dire unica ai nostri tempi: non fa parte di nessuna istituzione, non ha un mestiere se non quello dello scrittore e, per giunta, esercitato in quella maniera artigianale e aristocratica come poteva fare per l'appunto un Barbey d'Aurevilly, non obbedisce a nessun codice, non segue riti di nessun genere, un solitario, uno che vive davvero in un'isola e ogni tanto affida al mare dei piccoli messaggi sotto forma di divertimento, fra l'irrisione e la disperazione ma sempre con un intento ben preciso, proteggere la propria libertà, in modo da consumare fino in fondo la propria desolazione., C'è una grossa prete di gelosia in questa lunga caccia al minimo, in questo disegno di perfetta riduzione al nulla e in tale ambito trova la sua sede naturale il grande sentimento, il sentimento primo della sua vita: l'amore Nel "Racconto" questo sottofondo musicale è fin troppo evidente, si direbbe che l'intera favola si muova per questo scopo, fra chi vuole impedirgli di toccare la sponda dell'amore e chi invece riesce a darglielo. Il primo Landolfi non fa che girare intorno a questo problema capitale, legare l'amore, fuori del tempo, all'idea dell'unica libertà consentita agli uomini (…) Landolfi è uno di quegli scrittori che si divertono a nascondere lo scopo della loro navigazione e però insistono sui particolari, sul clima, sugli eventi, puntando direttamente sull'esasperazione, quasi volesse lasciare intendere che si tratta di uno scherzo; uno scherzo adeguati alla vanità del tutto e all'inutilità dei nostri sforzi. Non è così, c'è infatti ne romanticismo landolfiano una ben più forte coscienza della vita di quella che, di proposito, ha eluso o velato nei suoi racconti: si può dire tutto, si può tirare avanti con proposte mistificanti, con atteggiamenti, basta non toccare il punti vitale , basta non prendere la mano della disperazione senza scampo. Non inganni però questo prezioso giuoco d'artifizio; nella famosa fotografia che per anni ha accompagnato i libri di Landolfi, in quell'uomo che nasconde la faccia dietro la mano, c'è una grande verità appena giuocata, c'è il segno del segreto.»
Possiamo quindi concludere dicendo che Landolfi (nato a Pico, in provincia di Frosinone, nel 1908 e morto a Roma nel 1979), sulla scia dei suoi amati maestri russi - Gogol' specialmente - e di altri scrittori del misterioso e del grottesco, come Poe, Kafka e Rabelais, ha saputo trattare con rara incisività e con assoluta coerenza il tema dell'incontro e dello scontro fra istinti e ragione, tra inconscio e consapevolezza.
Pochi altri scrittori italiani, tutti presi dall'urgenza di problemi ritenuti ben più urgenti e vitali - come quelli politico-sociali, cari alla stagione neorealista e, in genere, alla concezione dell'intellettuale organico di gramsciana memoria (come se per essere 'organici' si dovesse essere per forza realisti) - hanno avuto lo stesso coraggio della solitudine e dell'aspra sincerità, pur dissimulata dietro un gioco allusivo di labirintici rimandi e corrispondenze.
E, se non altro per questo coraggio della solitudine, impermeabile a tutte le mode e tetragono a tutte le parole d'ordine, Landolfi spicca in un panorama di scrittori che, al contrario, hanno cercato fin troppo spesso il plauso facile e carezzato i gusti più corrivi di un pubblico dal palato grosso (si pensi, per citare un titolo fra i tanti, a «Io e lui» di Alberto Moravia, vero inno alla pornografia da quattro soldi, contrabbandata da trasgressione libertaria e, magari, intelligentemente ironica).
«Decisi di por mano al secondo zolfanello, e lo accesi con infinita precauzione, poiché il terzo volevo assolutamente serbare per il ritorno. La breve luce mi rivelò un'angusta grotta, le cui pareti mostravano, peraltro, qua e là, la mano dell'uomo in rinforzi di muratura, in blocchi di pietra inseriti a forza nei fessi della roccia e in altre opere intese a rendere più sicuro il luogo contro ogni tentativo d'evasione di chi vi fosse rinchiuso. Esse pareti poi, e particolarmente il suolo e il cielo, presentavano il più curioso e tetro spettacolo che io abbia mai veduto, erano cioè coperti di palle, filamenti, vesciche, bozzoli, bubboni (e non so più come chiamarli) di varie dimensioni, bianchi e boffici, che presi dapprima per funghi, che erano invece mostruosi fiori di muffa; che, ad afferrarli, si dissolvevano totalmente in un velo d'umidità sulla palma.
Quegli schifosi vegetali avevano distratta la mia attenzione al punto che solo quando lo zolfanello languì, e subito si spinse con un ultimo bagliore dello stecchino carbonizzato, affigurato l'oggetto più interessante di quel carcere. Dico che, alla mia sinistra contro la prete, vidi fuggevolmente un grosso anello di ferro da cui pendeva un pezzo di catena massiccia e rugginosa, e fin qui nulla di strano; lo strano si era invece che su quest'anello poggiava qualcosa come un mazzolino di fiori, disposti approssimativamente a corona. Fiori dì dentro? E, per colmo di sorpresa, a toccarli sembravano freschi.
Ero infra due, incerto cioè se sacrificare anche il terzo zolfanello e affidarmi unicamente al tatto per il ritorno, o se abbandonare la mia indagine. Ma questo elemento di essa appariva troppo impensato e importante: senza esitare, accesi.
Erano fiori davvero e davvero freschi, roselline d'autunno selvatiche o inselvatichite, quelle che contemplavo con religioso terrore; rammentai infatti vagamente d'aver veduto, nel giardino di Renzo davanti alla casa, due o tre di tali cespi. Che cosa pensare di ciò? Era quanto non sapevo in nessuna maniera. E ormai il silenzio e l'aria d'avello di quel sotterraneo, coi suoi misteri, principiavano a toccarmi non per burla i nervi: mi ritirai in gran fretta..
Le mie emozioni di quel mattino non erano però finite. Abbandonando l'incerto chiarore laggiù diffusa dalla crepa, dovevo ora percorrere, come si rammenta, nella più completa oscurità un tratto piuttosto lungo e non poco accidentato. Ebbene, avevo appena cominciato a salire l'infima scaletta, che mi parve di udire un leggerissimo scalpiccio in cima a questa. Di nuovo il vecchio o, peggio ancora, i suoi cani, spintisi per un caso fin lì? M'inorecchii: sembrava pesta umana, benché non di persona in babbucce. E se non il vecchio, di bel nuovo, chi? E se il vecchio; perché pareva adesso fuggire innanzi a me? E, se s'era avanzato fino a un certo punto di quel sotterraneo, fino a pochi passi da me, per qualche sua ragione e ignaro del tutto della mia presenza, perché non lo avevo udito primo? Non sapevo ad ogni modo se ripiegare nella galleria dove sarei stato almeno assistito da quella scarsa luce, per il caso che avessi dovuto difendermi contro qualcuno o qualche cosa; soprattutto ero incapace di formulare un'ipotesi qualunque. Ma la pesta si era rapidamente allontanata e, considerando quest'unico fatto positivo, decise di proseguire, colla più grande cautela.
Raggiunto finalmente il sommo della scala, udii daccapo il rumore. Stavolta non potevo aver dubbi: era una pesta umana, che con sorda eco il cubicolo in pendio ripercoteva di parete in parete. Essa suonava assai frequente, come la persona corresse, e assai lieve, come questa fosse di poco peso. Particolarità che mi stupirono: quello, non l'avrei detto il passo d'un vecchio, sia pure ben portante qual'era il mio ospite.
Lo scalpiccio non pareva precedermi di gran tratto, sebbene potesse in ciò ingannarmi la suddetta eco e, se mi fermavo, si faceva meno frequente, per arrestarsi poco dopo del tutto; se procedevo, serrava il ritmo. Esso era inoltre alquanto vario, fatta anche la parte al rimbombo e alla natura del terreno; quasi la persona corresse, come dire?, con una certa volubilità. Se almeno avessi avuto ancora i miei zolfanelli! Ché certo li avrei accesi, malgrado tutto. La mia curiosità infatti, o quello che poteva essere, per la cecità medesima in cui mi dibattevo, era diventata furiosa e disperata, aggressiva. Sconvolto, dico e incurante degli eventuali pericoli, mi buttai a corsa anch'io, in punta di piedi, coll'idea di afferrare la persona fuggente.
Ma costei, oltre a conoscere il luogo, doveva essere molto di me più agile, perché udii la pesta allontanarsi rapidamente verso l'alto, e quindi spengersi; la mia intenzione, in ogni caso, era stata penetrata. Sbollito e stordito, giunsi a cervello e mani vuote a pie' della seguente scaletta, dove si sa che arrivava un po' di luce dalla canova soprastante.
La mia avventura, o meglio la prima parte di essa, era finita senza che io cavassi un ragno dal buco. Persistendo ora a credere che il fuggitivo fosse il mio ospite, che senso, in nome di Dio, poteva avere quella folle corsa nelle tenebre? Né era più da pensare che egli corresse per i fatti propri; evidente invece era apparso che fuggiva e mi sfuggiva.
Rimandai le considerazioni a miglior tempo; cominciava infatti dell'avventura la seconda parte, la quale anche mi serbava una scoperta, se così si può chiamare un ritrovamento da cui (come da tutti gli altri) non seppi cavare alcun preciso costrutto. Dovevo adesso rifare il cammino percorso in principio, ma senza ricalcarlo pari pari, al fine d'evitare le stanze abitate allora occorsemi; o, meglio, cercare indipendentemente altra via verso l'esterno, donde rientrando mi sarebbe stato più facile giustificare la mia assenza.
Qui sì che mi persi in un laberinto di stanze e di passaggi e ripostigli e corridoi e scale, alcuni palesi, altre segrete o che lo erano state un tempo. Basti dire che mi ritrovai un paio di volte nella soffitta, un suggestivo luogo pieno di vetusti oggetti, inutili e curiosi, , e una addirittura sul terrazzo merlato. Mi sembrò infine d'aver trovati il filo d'Arianna, e comincia a seguire certo cammino che mi pareva il giusto. E a questo punto incappai nuovamente in una camera che pareva abitata, una minuscola camera, o gabinetto, al secondo piano.
Anche di quella, come dell'altro dov'ero stato sorpreso dal vecchi, il general colore era il giallo; ma i pochi mobili e le tappezzerie apparivano meglio conservati. Su un tavolino lucido, con uno specchio di Venezia e un pastorello di Capodimonte, giaceva un terzo oggetto che attrasse alla prima i miei sguardi: un vezzo di topazi. E stavolta lo conobbi senza esitare.
Stavolta, però, non indugiai a contemplarlo: a che sarebbe servito? Dovevo invece evitare altre sorprese e serbarmi la maggior libertà d'azione che potessi. Così quella donna inafferrabile (inafferrabile anche in me stesso) mi forniva un'altra testimonianza del suo soggiorno, attuale o passato, nel cupo maniero. Che potevo fare, sul momento, se non accoglierla con devozione? E in cuscinetto di raso azzurro ricamato, da parar gli urti dell'uscio contro il muro, pendeva dalla maniglia che ora impugnavo, e un mazzetto di fiori appassiti era infilato fra i cordoncini. Il caso sembrava mandarmi sempre più accosto alla fonte prima se mi è permesso esprimermi così, di quel giallore, in luoghi sempre più impregnati di lei; e anche del suo profumo, lì più forte. Ma, a ben fiutarlo: profumo di persona vivente o di cose morte?
Languido e commosso, ancor più smarrito pervenni da ultimo all'atrio dov'era la scala di legno che tutti i giorni salivo e scendevo, in posti dunque a me familiari; donde mi riuscì raggiungere il cortiletto di pietra e infine, scavalcando un muro, l'esterno. Rientrai con un gran giro e comparvi nella sala; il vecchio, che era già a tavola, mi lanciò un lungo sguardo sospettoso, ma non disse parola.»
Queste poche pagine possono dare un'idea dell'atmosfera di cupo mistero e di angosciosa solitudine che percorrono tutto il «Racconto d'autunno» di Tommaso Landolfi, uno dei maggiori outsider della nostra letteratura e l'unico che abbia coltivato principalmente il filone gotico e del mistero; nonché fornire un saggio della sua scrittura, strana e volutamente arcaica, quasi legnosa, che ben riflette quella dimensione atemporale e indefinibile che connota lo stile del Nostro.
Cupa, disperatamente triste e oscuramente minacciosa è l'atmosfera che pervade il breve romanzo, scritto nel 1947, con la ferita nel cuore ancora fresca della scellerata distruzione, da parte delle artiglierie americane, della millenaria abbazia di Montecassino e dei luoghi più cari dell'infanzia di Landolfi, che egli visse (è un'espressione che ricorre, appunto, in quest'opera) come una vera e propria profanazione.
Inoltre, si tratta di un'opera da cui è del tutto assente l'ironia, che, negli altri romanzi e racconti di Landolfi (a cominciare dalle prime due opere, il «Dialogo dei massimi sistemi», del 1937, e «La pietra lunare», del 1939 (quest'ultimo, probabilmente, il più noto al grande pubblico), alleggerisce il clima allucinato e sdrammatizza le situazioni.
La trama è piuttosto scarna.
Nell'autunno del 1943, mentre un esercito «detto liberatore» avanza da una parte, e un altro, «chiamato occupante», si insedia dall'altra (ma sia l'anno, che l'identità dei due esercito, pur facilmente identificabili, non vengono detti esplicitamente), il protagonista, che è lo stesso io narrante, giunge, girovagando per le montagne di una regione imprecisata, ad una strana e cupa dimora, che sorge isolata in luogo discosto da ogni centro abitato. Un sottile filo di fumo, uscendo dal camino, sembra indicare che qualcuno deve trovarsi all'interno.
Renitente alla leva e membro, sia pure saltuario, delle bande partigiane, il giovane - che è appena sfuggito ad un rastrellamento -, esausto e inzuppato dalla pioggia, bussa più volte per chiedere ospitalità per la notte; ma nessuno gli apre. Fatto il giro della casa, constata che non esistono porte o finestre che possano cedere ai suoi sforzi; solo, da una finestra protetta da una inferriata - l'unica illuminata - scorge una stanza ammobiliata, con un piatto fumante in tavola, e due giganteschi cani che montano la guardia.
L'uomo torna a bussare ai vetri, ma con il solo risultato di provocare una rabbiosa reazione da parte dei due cani, negli occhi dei quali - tuttavia - gli sembra di leggere, oltre alla ferocia, una cupa tristezza, anzi, una vera e propria disperazione.
Nessuno compare e, per parecchio tempo, egli almanacca su come liberarsi di quei due animali per poter penetrare nella casa, ormai pervaso da una sorta di orgasmo e deciso a qualunque gesto pur di farsi accogliere dai misteriosi abitanti di essa. Finalmente, dopo molti tentativi e molta incertezza, il fuggiasco, che è armato di un fucile da caccia, riesce a forzare un ingresso e si trova all'interno: i cani stanno per slanciarsi contro di lui, allorché vengono trattenuti da un vecchio di circa settant'anni, la figura ancora eretta, l'aria triste e diffidente, che gli domanda chi egli sia e perché sia entrato a forza in casa sua. Il suo modo di esprimersi, i suoi abiti e le sue abitudini rivelano che deve trattarsi di un nobile, che vive isolato lassù, lontano dal mondo.
Il giovane si presenta e domanda ospitalità, spiegando la difficile situazione nella quale si trova; e il vecchio, sia pure a malincuore, accetta di ospitarlo per quella notte.
Il mattino dopo, svegliatosi dopo un profondo sonno riparatore, il giovane fa capire al vecchio, più che mai impaziente di vederlo partire, che desidera potersi trattenere qualche altro tempo in quella casa: un forza misteriosa ve lo tiene avvinto, insieme alla consapevolezza che un enigma deve nascondersi fra quei muri antichi, in quella stanze buie, avvolti da una atmosfera senza tempo, che è al tempo stesso inquietante e affascinante.
Passano i giorni e il protagonista, ignorando l'evidente insofferenza del vecchio, che scambia con lui solo pochissime parole ma, in compenso, lo sorveglia continuamente, come se temesse di vederlo violare un qualche suo indicibile segreto, sempre più ha la certezza che la casa sia abitata anche da altre presenze.
Un meraviglioso ritratto femminile (reminiscenza dell'omonimo racconto di Puškin), in particolare, esercita su di lui una inspiegabile attrazione; che diventa oscura certezza dell'esistenza della donna raffigurata, allorché, sparsi nelle varie stanze, egli vede alcuni dei gioielli e degli ornamenti che adornano la dama misteriosa.
Senonché, gli abiti non lasciano dubbi sul fatto che il ritratto di quella splendida giovane, che sembra guardare con occhi indecifrabili l'osservatore, risale almeno a mezzo secolo prima; e, inoltre, alcuni indizi sconcertanti lasciano pensare che ella, se pure è viva, non sia una creatura di carne e ossa, ma di altra natura.
Una notte, ad esempio, il giovane, destatosi dal sonno, ode come un respiro nella stanza buia (nella casa non vi sono lumi, tranne l'unica lucerna, che il vecchio tiene sempre con sé) e alcuni inspiegabili rumori; levatosi, non trova nessuno, e tuttavia è certo di non essersi sbagliato. Il mattino dopo, con la luce del giorno, egli tenta di penetrare nella stanza accanto, della quale, però, non trova l'ingresso; e, solo dopo un incerto andirivieni lungo stanze disabitate e tristi corridoi, riesce ad entrarvi, scoprendo così che una finta parete dà accesso alla camera nella quale egli dorme, per mezzo di un antico armadio.
Il vecchio, frattanto, assume, giorno dopo giorno, un atteggiamento sempre più sospettoso e sempre più preoccupato.
Dopo aver chiesto inutilmente al giovane di andarsene, subisce la sua decisione di trattenersi ancora, appellandosi tuttavia - con un linguaggio magniloquente e, nello stesso tempo, fin troppo evidentemente sincero, per non dire angosciato - al suo senso dell'onore, affinché rispetti gli obblighi dell'ospitalità; e gli fa intendere, con velate parole, di non osare immischiarsi in cose che non lo riguardano.
Ma, ormai, la partita in corso fra i due uomini è divenuta quasi a carte scoperte: l'ospite intuisce che una presenza femminile si cela in quella dimora, al punto che, talvolta, può perfino percepirne l'odore; il vecchio, per contro, sempre più si chiude in se stesso e si apparta per lunghe ore in qualche misterioso recesso; contemporaneamente, però, tenendo d'occhio le mosse del suo indesiderato e invadente inquilino.
Poco alla volta, la tremenda verità si rivela allo stupefatto e atterrito protagonista: il vecchio è un negromante che pratica la magia e l'evocazione dei morti; e che, nel corso di una blasfema cerimonia nelle stanze più interne della casa, supplica la donna misteriosa - evidentemente morta da molto tempo - di ritornare a lui.
Ci fermiamo qui, per non sciupare al lettore, che non avesse ancora accostato questo libro di Tommaso Landolfi, il piacere della scoperta e l'emozione della drammatica, inattesa conclusione. Ci limitiamo a dire che una presenza femminile abita realmente l'antico palazzo, e che essa segnerà in maniera indelebile la vita del protagonista; ma non aggiungiamo altro.
Le pagine che abbiamo ritenuto di presentare, quali invito alla lettura integrale del romanzo, si riferiscono alla scoperta casuale, da parte del protagonista, dei sotterranei della dimora, nei quali finisce per penetrare mentre, esplorando le stanze interne, vede sopraggiungere il vecchio con i suoi temibili cani e, temendo di essere scoperto, si rifugia, una camera dopo l'altra, fin nelle scale che conducono in basso, nelle viscere della montagna.
Laggiù, quasi completamente al buio, egli ode dei passi rapidi e leggeri e si rende conto che qualcuno - qualcuno o qualcosa - si trova laggiù, insieme a lui, a poca distanza da lui; che, probabilmente, lo sta osservando, lo sta spiando; che la soluzione del mistero è, dunque, quasi a portata di mano: e, tuttavia, gli sfugge inesorabilmente, mentre un senso di oscuro malessere s'impossessa di lui e lo riempie di un arcano sgomento.
Si tratta di un racconto ricco di significati allegorici, a cominciare dalla guerra, metafora della crudele insensatezza degli uomini, alla casa stessa, simbolo del labirinto e, quindi, anche del faticoso peregrinare dell'uomo nei meandri dell'esistenza, nei quali si muove a tentoni come un cieco, senza riuscire a intravedere un raggio di luce.
E tutta la vicenda, più in generale, si direbbe una allegria della precarietà della condizione umana: giacché questo è sempre stato il tema più caro alla poetica di Landolfi, insieme alla nostalgia dell'amore perfetto, appagante, rasserenante - di cui pure, nel «Racconto d'autunno», vi è un esplicito rimando nella elusiva presenza femminile che impregna di sé tutta la casa e che il protagonista insegue disperatamente, a rischio di smarrire la ragione, nella sua disperata e affannosa ricerca.
Concludiamo questo invito alla lettura di Tommaso Landolfi riportando alcuni passaggi della «Nota introduttiva» di Carlo Bo, uno dei maggiori critici letterari italiani del secolo appena trascorso (Op. cit., pp. III-IV):
«A Landolfi è riuscita un'impresa che possiamo ben dire unica ai nostri tempi: non fa parte di nessuna istituzione, non ha un mestiere se non quello dello scrittore e, per giunta, esercitato in quella maniera artigianale e aristocratica come poteva fare per l'appunto un Barbey d'Aurevilly, non obbedisce a nessun codice, non segue riti di nessun genere, un solitario, uno che vive davvero in un'isola e ogni tanto affida al mare dei piccoli messaggi sotto forma di divertimento, fra l'irrisione e la disperazione ma sempre con un intento ben preciso, proteggere la propria libertà, in modo da consumare fino in fondo la propria desolazione., C'è una grossa prete di gelosia in questa lunga caccia al minimo, in questo disegno di perfetta riduzione al nulla e in tale ambito trova la sua sede naturale il grande sentimento, il sentimento primo della sua vita: l'amore Nel "Racconto" questo sottofondo musicale è fin troppo evidente, si direbbe che l'intera favola si muova per questo scopo, fra chi vuole impedirgli di toccare la sponda dell'amore e chi invece riesce a darglielo. Il primo Landolfi non fa che girare intorno a questo problema capitale, legare l'amore, fuori del tempo, all'idea dell'unica libertà consentita agli uomini (…) Landolfi è uno di quegli scrittori che si divertono a nascondere lo scopo della loro navigazione e però insistono sui particolari, sul clima, sugli eventi, puntando direttamente sull'esasperazione, quasi volesse lasciare intendere che si tratta di uno scherzo; uno scherzo adeguati alla vanità del tutto e all'inutilità dei nostri sforzi. Non è così, c'è infatti ne romanticismo landolfiano una ben più forte coscienza della vita di quella che, di proposito, ha eluso o velato nei suoi racconti: si può dire tutto, si può tirare avanti con proposte mistificanti, con atteggiamenti, basta non toccare il punti vitale , basta non prendere la mano della disperazione senza scampo. Non inganni però questo prezioso giuoco d'artifizio; nella famosa fotografia che per anni ha accompagnato i libri di Landolfi, in quell'uomo che nasconde la faccia dietro la mano, c'è una grande verità appena giuocata, c'è il segno del segreto.»
Possiamo quindi concludere dicendo che Landolfi (nato a Pico, in provincia di Frosinone, nel 1908 e morto a Roma nel 1979), sulla scia dei suoi amati maestri russi - Gogol' specialmente - e di altri scrittori del misterioso e del grottesco, come Poe, Kafka e Rabelais, ha saputo trattare con rara incisività e con assoluta coerenza il tema dell'incontro e dello scontro fra istinti e ragione, tra inconscio e consapevolezza.
Pochi altri scrittori italiani, tutti presi dall'urgenza di problemi ritenuti ben più urgenti e vitali - come quelli politico-sociali, cari alla stagione neorealista e, in genere, alla concezione dell'intellettuale organico di gramsciana memoria (come se per essere 'organici' si dovesse essere per forza realisti) - hanno avuto lo stesso coraggio della solitudine e dell'aspra sincerità, pur dissimulata dietro un gioco allusivo di labirintici rimandi e corrispondenze.
E, se non altro per questo coraggio della solitudine, impermeabile a tutte le mode e tetragono a tutte le parole d'ordine, Landolfi spicca in un panorama di scrittori che, al contrario, hanno cercato fin troppo spesso il plauso facile e carezzato i gusti più corrivi di un pubblico dal palato grosso (si pensi, per citare un titolo fra i tanti, a «Io e lui» di Alberto Moravia, vero inno alla pornografia da quattro soldi, contrabbandata da trasgressione libertaria e, magari, intelligentemente ironica).
il narratore della ricercatezza
Landolfi e V. Brancati
2008 Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Tommaso Landolfi, scrittore che ha saputo cogliere della realtà tutte le sfumature, sotto l’egida di una raffinata e fertile immaginazione poetica.
di Cinzia Bianchino
Percorsi nella Letteratura
È il 9 agosto del 1908. Tommaso Landolfi nasce a Pico, antico borgo assiepato su di un poggio che sorge tra Cassino e Gaeta. Attualmente Pico è un comune della provincia di Frosinone, ma a suo tempo era parte della provincia di Caserta e prima ancora del Regno delle Due Sicilie. Come ben illustrato in un racconto di Landolfi, “I contrafforti di Frosinone”, nel quale l'autore esprime con ironia il proprio disappunto per il passaggio amministrativo, avvenuto in pieno fascismo, delle sue terre natali dalla nobile Campania al più rustico Lazio, o più esattamente dalla Terra di Lavoro alla Ciociaria.
A Pico, nella casa paterna, l'antico Palazzo Landolfi, egli trascorre l’infanzia e gran parte dei momenti creativi di tutta la sua esistenza, perché, come osservò, in questo luogo la penna, che altrove “s’impunta”, corre. E su questo profondo e quasi viscerale legame tra la propria ispirazione letteraria e il paese nativo, lo stesso Landolfi si interroga: “A che si debba il fatto, se all’inchiostro, all’aria del luogo o a più seri e segreti motivi, non so”.
La solitudine del borgo, la forte suggestione della casa avita, e più in generale certi aspri paesaggi del Lazio meridionale, saranno perciò spesso presenti nella sua prosa come declinazione di immagini narrative. Nemmeno Pico ha mai dimenticato il legame con il grande scrittore e in occasione del centenario ha promosso la realizzazione di un francobollo da 60 centesimi di euro per celebrare il secolo trascorso dagli illustri natali.
L’APPRODO LETTERARIO. La formazione di Landolfi si snoda tra Roma e Firenze, dove conclude gli studi universitari iniziati nella capitale. Nel 1932 infatti si laurea all’Università di Firenze in lingua e letteratura russa con una tesi sulla poetessa Anna Achmatova. Inizia la sua attività di collaborazione con alcune riviste, come “Campo di Marte”, “Il Mondo” e “Letteratura”. A Firenze frequenta il caffè dei letterati “Le Giubbe rosse” ed entra in contatto, tra gli altri, con Carlo Bo, Alfonso Gatto edEugenio Montale. Quest’ultimo sarà anche ospite di Landolfi a Pico, e qui il grande poeta troverà ispirazione per la sua “Elegia di Pico Farnese”. Nel 1937 Landolfi pubblica la sua prima raccolta di racconti “Dialogo dei massimi sistemi”. In realtà l’esordio letterario di Tommaso Landolfi risale già al 1929, quando egli pubblica su “Vigilie letterarie” la bizzarra storia di Maria Giuseppa. Fin dai suoi primi componimenti narrativi emerge vivida la straordinaria eleganza della prosa landolfiana. In lui la ricercata impostazione stilistica, oltre che linguistica, diviene magistrale strumento di una feconda indagine letteraria, che affonda le radici negli aspetti più profondi della realtà e delle sue varie e intricate sfumature.TRA SURREALISMO E REALISMO. Landolfi è oramai riconosciuto come uno dei più grandi narratori italiani del Novecento, il cui particolare merito è quello di aver profilato uno scenario letterario inedito per il nostro Paese e di aver anticipato molti temi e forme letterarie, come quella del teatro dell’assurdo. Sulla sua ispirazione di narratore convergono le spinte di due diversi ambienti, quello ermetico di Firenze e quello realistico della Capitale, dove conosce e frequenta Massimo Bontempelli, oltre che Alberto Moravi a e Vitaliano Brancati. Landolfi focalizza la propria attenzione di narratore sulla condizione e sul destino dell’uomo, ma ne media l’analisi attraverso l’artificio del fantastico, del magico. La visione esistenzialistica è così in Landolfi filtrata da scenari immaginari, a volte visionari, altre autobiografici, altre ancora ironici, in cui agli uomini si affiancano gli animali, in una sorta di complessa e ingegnosa metafora della vita. E proprio in questo simbolismo esistenziale la sua produzione letteraria va inscritta in quella di più ampio respiro europeo, accanto ad autori quali Franz Kafka o Lewis Carroll con la sua “Alice nel Paese delle Meraviglie”, o ancora Edgar Allan Poe e Fedor Dostoevskij per la capacità di infondere mistero e inquietudine alla narrazione. Landolfi è sì prosatore fantastico, la cui feconda immaginazione è però protesa alla conoscenza della realtà, al di là della sua dimensione fenomenologica, e la cui vocazione poetica ha trovato costante alimento nella memoria ideale della madre, persa quando egli non aveva ancora due anni, nel suggestivo decadimento della casa paterna, nel senso di profonda desolazione e nella sua quasi totale estraniazione dalla vita. Landolfi, nonostante avesse frequentato a lungo letterati e scrittori vari, rimane pur sempre un artista e un uomo segnato dalla solitudine, aristocratico e bizzarro insieme, ricordato dagli abitanti di Pico per le sue passeggiate notturne, avvolto in un lungo mantello nero, alla stregua di uno dei personaggi dei suoi racconti. Non per niente l’autore fa dire a uno dei personaggi de “La pietra lunare”, il suo primo romanzo, pubblicato nel ’39, e considerato uno dei vertici della sua narrativa, mi pare impossibile che quando c'è la luna noi si dorma nelle nostre case”.
SPERIMENTAZIONE LINGUISTICA E LETTERARIA. Landolfi è un cantore di mondi remoti, la sua prosa è ricercata e ha il sapore di un tempo passato. Egli recupera dal patrimonio linguistico italiano termini talmente desueti che sembrano neologismi, e li usa con grande maestria, infondendo grazia ed eleganza ai propri testi. Nella sua articolata produzione non manca l’intreccio di differenti elementi narrativi. Ne “La bière du pêcheur” del ’53, e ancora in “Rien va” del ‘63 e in “Des mois” del ’67 egli elabora l’elemento metafisico e fantastico unitamente a spunti autobiografici, diaristici. Landolfi, poi, accurato conoscitore di più lingue straniere, è particolarmente concentrato sulla parola, e gioca con le sue ambiguità fonetiche e semantiche: “Des mois” può avere due interpretazioni “Dei mesi” e “Di me”; così come “La bière du pêcheur” (La birra del pescatore) può essere anche “La bara del peccatore”. Landolfi sperimenta così da un lato stile e registro linguistico e dall’altro lo stesso repertorio letterario. Dai racconti, come “Il mar delle blatte” del ’39, passa alle favole e romanzi per bambini, come “Il principe infelice” del ’43 e “La Raganella d’oro” del ’54, e poi alla poesia con il “Breve canzoniere” del ’71 e “Il tradimento” del ’77. Nel ’59 egli sperimenta anche la scrittura teatrale con il poema drammatico in sei atti di ambientazione altomedievale “Landolfo VI di Benevento”. Landolfi, personaggio complesso e poliedrico, è anche critico letterario e traduttore, soprattutto di autori russi come Dostoevskij, Gogol e Tolstoj. Nel contesto della letteratura italiana del Novecento, per la vena fantastica e misteriosa che percorre la sua produzione, Landolfi può essere accostato a Dino Buzzati, da cui lo distinguono però una più vasta cultura letteraria e filosofica, intrinsecamente riversata nella sua arte, e una più sicura raffinatezza linguistica.
IDOLINA. Tommaso Landolfi, in età matura, sposa una giovane donna di Pico. Dal loro matrimonio nasce Idolina. Scrittrice e critico letterario, Idolina ha vissuto tra Firenze e Parigi. Nel ’96 ha dato vita al Centro Studi Landolfiani, curando la produzione letteraria del padre. Si è occupata anche dell'organizzazione delle celebrazioni del centenario della nascita di Tommaso Landolfi senza però poter portare a termine il suo lavoro. Il 27 giugno scorso Idolina si è spenta a Firenze, prematuramente all'età di 49 anni, lasciando inedito il romanzo “Quando ero mio padre” e incompiuto il proposito di spostare il Centro Studi Landolfiani da Montespertoli (Fi) a Pico.
Cinzia Bianchino
IL FATO ED IL FATTO SI RICONGIUNGONO 30 ANNI DOPO
Roma, 8 lug 2009
Esattamente 30 anni fa, Roma ha dato l'ultimo saluto a Tommaso Landolfi, grande scrittore, poeta e traduttore italiano, legato agli ambienti surrealisti e autore di racconti e romanzi a metà tra il grottesco, il fantastico e il surreale come, ad esempio, "Racconto d'autunno" del 1947 o "La pietra lunare" del 1944.
Landolfi, nato il 9 agosto 1908, conobbe Roma quando, dopo aver lasciato la sua città natale, Pico Farnese (oggi in provincia di Frosinone, al suo tempo ancora in provincia di Caserta), si trasferì nella città eterna per frequentare l'università. Proseguì, poi, i suoi studi a Firenze, dove ebbe modo di entrare in contatto con altri intellettuali dell'epoca, come Alfonso Gatto ed Eugenio Montale, nell'ambiente del caffè letterario "Le Giubbe Rosse"; si laureò nel 1932 in lingua e letteratura russa, e, nel giro di qualche anno, tornò a lavorare a Roma. Negli anni seguenti, infatti, collaborò con alcune testate romane quali "Occidente", "L'Europa Orientale", "L'Italia Letteraria" e "Oggi" e, nel 1937, pubblicò la sua prima raccolta di racconti: "Dialogo dei massimi sistemi". Da questo punto in poi, la vita dell'artista si svolse, fatta eccezione per alcuni brevi viaggi all'estero, tra Roma, Pico Farnese e le case da gioco di San Remo; il luogo che è sempre stato la principale fonte di ispirazione dell'opera landolfiana è proprio il suo borgo natale del frusinate, che, con la sua solitudine e con la sua capacità di evocare emozioni, spinge lo stesso Landolfi a chiedersi se il motivo di questo fortissimo legame sia dovuto a "all'inchiostro, all'aria del luogo o a più seri e segreti motivi". Invece San Remo è un luogo importante nell'ambito della creazione di quel Landolfi-personaggio che il Contini definiva "notturno, di eccezionalità stravagante, dissipatore e inveterato giocatore", che si ricava e viene a tratti ostentato nelle sue opere. Infine, Roma è la città del lavoro in un senso più tecnico e meno creativo rispetto a Pico, è il luogo in cui la "penna s'impunta" e non scorre fluida e fantasiosa come nella sua città natale. Proprio a Roma, però, Landolfi trascorre gli anni che dalla vecchiaia lo prendono per mano fino a trascinarlo alla morte, che lo coglie lontano dalla sua Pico, lontano dalla casa paterna e da quei paesaggi aspri che spesso descrisse nelle sue opere non senza una punta di nostalgia.
Perfettamente in linea con il personaggio che si era costruito, l'atteggiamento con cui Landolfi comprende e analizza la realtà è scanzonato, leggero e divertito, ma allo stesso tempo è quell'atteggiamento profondo ed obiettivo di un uomo che, tra caratteristiche propriamente romantiche come la malinconia e lo spleen, mantiene sempre e comunque la sua coerenza e la forza delle sue idee; infatti, nel 1943, si oppose al regime fascista e fu incarcerato per un mese alle Murate, a Firenze. Il suo personaggio, l'uomo dominato dal demone del gioco è, poi, al centro anche delle sue opere diaristiche "La bière du pécheur", "Rien va" e "Des Mois", che, come le sue altre opere più importanti sono state ripubblicate, dopo il 1992, dalla casa editrice Adelphi sotto la supervisione della figlia Idolina Landolfi. Un altro lato fondamentale dell'opera landolfiana è il suo rapporto con la lingua, che non si identifica con la tipica "innovatrice" tipica delle avanguardie, ma, piuttosto, risulta essere una lingua più conservatrice volta a scoprire le possibilità espressive della parola, specialmente di quella desueta; in quest'ottica si pone, ad esempio, il racconto "La passeggiata", in cui lo scrittore frusinate ammassa una serie di termini non più usati ma, comunque, presenti nei dizionari. Proprio il dizionario, infatti, è l'arma di cui si deve servire il lettore per comprendere questo racconto, facendo nascere, così, una rapporto di collaborazione tra autore e lettore stesso che riesca a recuperare una serie di termini considerati "evocativi" e quindi non meritevoli di essere perduti.
E', quindi, doveroso ricordare Landolfi, scrittore e letterato tra i più importanti del ‘900, sebbene, ancora sottovalutato per via della sua oscurità e, forse, per il suo gusto barocco nella scelta delle parole usate; è doveroso anche perché, negli ultimi anni, la sua figura si sta lentamente riaffermando come dimostrano le numerose iniziative, datate agosto 2008, che ne hanno celebrato i 100 anni dalla nascita: convegni, seminari, commemorazioni e perfino un francobollo da 60 centesimi emesso dal Comune di Pico.
Esattamente 30 anni fa, Roma ha dato l'ultimo saluto a Tommaso Landolfi, grande scrittore, poeta e traduttore italiano, legato agli ambienti surrealisti e autore di racconti e romanzi a metà tra il grottesco, il fantastico e il surreale come, ad esempio, "Racconto d'autunno" del 1947 o "La pietra lunare" del 1944.
Landolfi, nato il 9 agosto 1908, conobbe Roma quando, dopo aver lasciato la sua città natale, Pico Farnese (oggi in provincia di Frosinone, al suo tempo ancora in provincia di Caserta), si trasferì nella città eterna per frequentare l'università. Proseguì, poi, i suoi studi a Firenze, dove ebbe modo di entrare in contatto con altri intellettuali dell'epoca, come Alfonso Gatto ed Eugenio Montale, nell'ambiente del caffè letterario "Le Giubbe Rosse"; si laureò nel 1932 in lingua e letteratura russa, e, nel giro di qualche anno, tornò a lavorare a Roma. Negli anni seguenti, infatti, collaborò con alcune testate romane quali "Occidente", "L'Europa Orientale", "L'Italia Letteraria" e "Oggi" e, nel 1937, pubblicò la sua prima raccolta di racconti: "Dialogo dei massimi sistemi". Da questo punto in poi, la vita dell'artista si svolse, fatta eccezione per alcuni brevi viaggi all'estero, tra Roma, Pico Farnese e le case da gioco di San Remo; il luogo che è sempre stato la principale fonte di ispirazione dell'opera landolfiana è proprio il suo borgo natale del frusinate, che, con la sua solitudine e con la sua capacità di evocare emozioni, spinge lo stesso Landolfi a chiedersi se il motivo di questo fortissimo legame sia dovuto a "all'inchiostro, all'aria del luogo o a più seri e segreti motivi". Invece San Remo è un luogo importante nell'ambito della creazione di quel Landolfi-personaggio che il Contini definiva "notturno, di eccezionalità stravagante, dissipatore e inveterato giocatore", che si ricava e viene a tratti ostentato nelle sue opere. Infine, Roma è la città del lavoro in un senso più tecnico e meno creativo rispetto a Pico, è il luogo in cui la "penna s'impunta" e non scorre fluida e fantasiosa come nella sua città natale. Proprio a Roma, però, Landolfi trascorre gli anni che dalla vecchiaia lo prendono per mano fino a trascinarlo alla morte, che lo coglie lontano dalla sua Pico, lontano dalla casa paterna e da quei paesaggi aspri che spesso descrisse nelle sue opere non senza una punta di nostalgia.
Perfettamente in linea con il personaggio che si era costruito, l'atteggiamento con cui Landolfi comprende e analizza la realtà è scanzonato, leggero e divertito, ma allo stesso tempo è quell'atteggiamento profondo ed obiettivo di un uomo che, tra caratteristiche propriamente romantiche come la malinconia e lo spleen, mantiene sempre e comunque la sua coerenza e la forza delle sue idee; infatti, nel 1943, si oppose al regime fascista e fu incarcerato per un mese alle Murate, a Firenze. Il suo personaggio, l'uomo dominato dal demone del gioco è, poi, al centro anche delle sue opere diaristiche "La bière du pécheur", "Rien va" e "Des Mois", che, come le sue altre opere più importanti sono state ripubblicate, dopo il 1992, dalla casa editrice Adelphi sotto la supervisione della figlia Idolina Landolfi. Un altro lato fondamentale dell'opera landolfiana è il suo rapporto con la lingua, che non si identifica con la tipica "innovatrice" tipica delle avanguardie, ma, piuttosto, risulta essere una lingua più conservatrice volta a scoprire le possibilità espressive della parola, specialmente di quella desueta; in quest'ottica si pone, ad esempio, il racconto "La passeggiata", in cui lo scrittore frusinate ammassa una serie di termini non più usati ma, comunque, presenti nei dizionari. Proprio il dizionario, infatti, è l'arma di cui si deve servire il lettore per comprendere questo racconto, facendo nascere, così, una rapporto di collaborazione tra autore e lettore stesso che riesca a recuperare una serie di termini considerati "evocativi" e quindi non meritevoli di essere perduti.
E', quindi, doveroso ricordare Landolfi, scrittore e letterato tra i più importanti del ‘900, sebbene, ancora sottovalutato per via della sua oscurità e, forse, per il suo gusto barocco nella scelta delle parole usate; è doveroso anche perché, negli ultimi anni, la sua figura si sta lentamente riaffermando come dimostrano le numerose iniziative, datate agosto 2008, che ne hanno celebrato i 100 anni dalla nascita: convegni, seminari, commemorazioni e perfino un francobollo da 60 centesimi emesso dal Comune di Pico.
LANDOLFI E' ...LANDOLFI..
Landolfi
Giordano Bruno Guerri
Il più fedele a d’Annunzio è stato Tommaso Landolfi(a suo tempo collegiale del Cicognini, come d’Annunzio e Malaparte), di cui Giovanni Raboni ha scritto:«La sua prosa è di infaticabile bellezza, la più bella che si sia scritta in Italia dopo il D’Annunzio delle Faville del maglio». Gli dedicò un libro di poesie, Viola di morte, da lui apprese il valore sensuale della parola(“…l’uomo decade e involgarisce, si fa grosso e ottuso…quando decade in lui il valore religioso delle parole…”), come d’Annunzio fu un mantrugiatore di vocabolari(“se o si presume critico costui dovrà pur sapere che D’Annunzio ed io non inventiamo parole: ci basta e ci è più comodo prenderle dal nostro bell’idioma(con effetto più mortificante che i critici stessi)”. Carlo Bo, Oreste Macrì, Giacomo Debenedetti, Giovanni Raboni, Italo Calvino, Andrea Zanzotto, ammisero- bontà loro- l’influenza di d’Annunzio su Landolfi, ma altri no. Pietro Citati ha scovato una folla di ascendenti e di affini per lo scrittore di Pico Farnese, ma d’Annunzio è assente. Giuliano Gramigna, sedicente “adepto landolfiano”, nel recensire Un amore del nostro tempo lamenta che le belle doti dello scrittore sono stravolte in vizi “dal contagio dannunziano, che sembra difficilmente esorcizzabile nella nostra letteratura”. E nella manchettedello stesso libro Idolina Landolfi, figlia dello scrittore, avverte allarmata:”Il linguaggio alto…non è certo quello di Andrea Sperelli(delPiacere dannunziano)ma di un altro Sigismondo, quello di Calderòn nella Vita è sogno…” . La peste è scongiurata, figurarsi il sollievo del lettore. Ma c’ è un altro risvolto che la dice lunga sull’adamantinità dei nostri editori. Nel ’71 esce la raccolta di articoli letterari, Gogol a Roma, di Tommaso Landolfi, ma l’editore Vallecchi espunge un articolo a suo avviso iperelogiativo di d’Annunzio, che si concludeva con la parafrasi di due versi celebri di Tjutcev su Puskin:”Il cuore d’Italia non lo dimenticherà come non si dimentica il primo amore”. Lo stesso libro viene ristampato nel 2003 da Adelphi e la censura dannunziana rimane. Scrissi una lettera al raffinatissimo Roberto Calasso, gran patron della casa editrice, ma non ebbi risposta. C’è ancora chi ha paura di d’Annunzio? O teme che se ne parli bene?
Giordano Bruno Guerri
Il più fedele a d’Annunzio è stato Tommaso Landolfi(a suo tempo collegiale del Cicognini, come d’Annunzio e Malaparte), di cui Giovanni Raboni ha scritto:«La sua prosa è di infaticabile bellezza, la più bella che si sia scritta in Italia dopo il D’Annunzio delle Faville del maglio». Gli dedicò un libro di poesie, Viola di morte, da lui apprese il valore sensuale della parola(“…l’uomo decade e involgarisce, si fa grosso e ottuso…quando decade in lui il valore religioso delle parole…”), come d’Annunzio fu un mantrugiatore di vocabolari(“se o si presume critico costui dovrà pur sapere che D’Annunzio ed io non inventiamo parole: ci basta e ci è più comodo prenderle dal nostro bell’idioma(con effetto più mortificante che i critici stessi)”. Carlo Bo, Oreste Macrì, Giacomo Debenedetti, Giovanni Raboni, Italo Calvino, Andrea Zanzotto, ammisero- bontà loro- l’influenza di d’Annunzio su Landolfi, ma altri no. Pietro Citati ha scovato una folla di ascendenti e di affini per lo scrittore di Pico Farnese, ma d’Annunzio è assente. Giuliano Gramigna, sedicente “adepto landolfiano”, nel recensire Un amore del nostro tempo lamenta che le belle doti dello scrittore sono stravolte in vizi “dal contagio dannunziano, che sembra difficilmente esorcizzabile nella nostra letteratura”. E nella manchettedello stesso libro Idolina Landolfi, figlia dello scrittore, avverte allarmata:”Il linguaggio alto…non è certo quello di Andrea Sperelli(delPiacere dannunziano)ma di un altro Sigismondo, quello di Calderòn nella Vita è sogno…” . La peste è scongiurata, figurarsi il sollievo del lettore. Ma c’ è un altro risvolto che la dice lunga sull’adamantinità dei nostri editori. Nel ’71 esce la raccolta di articoli letterari, Gogol a Roma, di Tommaso Landolfi, ma l’editore Vallecchi espunge un articolo a suo avviso iperelogiativo di d’Annunzio, che si concludeva con la parafrasi di due versi celebri di Tjutcev su Puskin:”Il cuore d’Italia non lo dimenticherà come non si dimentica il primo amore”. Lo stesso libro viene ristampato nel 2003 da Adelphi e la censura dannunziana rimane. Scrissi una lettera al raffinatissimo Roberto Calasso, gran patron della casa editrice, ma non ebbi risposta. C’è ancora chi ha paura di d’Annunzio? O teme che se ne parli bene?
Landolfi: il gioco letterario del surreale
di Ludovica Colussi
Narratore atipico, uomo stravagante ed eccentrico, Landolfi rappresenta sicuramente un caso a sé all’interno della tradizione letteraria contemporanea.La sua produzione è caratterizzata da un’originalissima creatività, segno di un’invidiabile immaginazione, e da un’insolita fantasia che gli consentono di condurre se stesso e il lettore all’interno di atmosfere spesso assurde e al limite del reale. Landolfi è un letterato non comune che decide di “non appartenere” ad alcuna corrente, movimento o tanto meno avanguardia; uomo di straordinaria cultura, è profondo conoscitore dei classici e della letteratura europea, in particolare di quella russa di cui traduce numerosi autori (specialmente Gogol’). È attento osservatore e descrittore della realtà che però trasfigura, mostrandone gli aspetti più nascosti con immagini e atmosfere surreali: l’elemento fantastico si insinua nel realistico e viceversa.
La prosa raffinata e la lingua ricercata creano un gioco letterario che fa di Landolfi uno stilista e un ideatore di preziosità linguistiche, numerosi sono infatti i vocaboli rari e le forme obsolete. Già con il Dialogo dei massimi sistemi (1937) è evidente l’attenzione per situazioni dai risvolti assurdi. Qui lo strano caso di un uomo che crede di aver appreso il persiano – che si rivela successivamente una lingua inesistente di cui lui è il solo conoscitore e parlante – diviene un’allegoria del processo mentale: dal nulla si crea qualcosa che ci riporta al nulla. Di ambito surrealista è poi il Mar delle Blatte (1939), una sorta di viaggio onirico denso di simboli, una narrazione talmente coinvolgente da suscitare un certo fascino per immagini sgradevoli. Una produzione, la sua, di difficile classificazione ma indubbiamente ricca di valore letterario e colma di intuizioni interessanti.
LANDOLFI
Landolfi Tommaso (Pico, Frosinone, 1908 - Roma 1979) scrittore italiano. Frequentò in gioventù la cerchia degli ermetici e collaborò, fra l’altro, a «Campo di Marte». Esordì come narratore nel 1937 col Dialogo dei massimi sistemi; in seguito pubblicò, numerosi altri libri di narrativa, tra cui: Il mar delle blatte e altre storie (1939), La pietra lunare* (1939), Cancroregina (1950), La bière du pécheur (1953), Ottavio di Saint Vincent (1958, premio Viareggio), Se non la realtà (1960), Rien va (1963), Racconti impossibili (1966), Le labrene (1974), A caso (1975, premio Strega). È anche autore di libri di poesia (Viola di morte, 1972; Il tradimento, 1977, premio Viareggio) e di un volume di critica letteraria (Gogol’ a Roma, 1971). Per il teatro ha scritto Landolfo VI di Benevento (1959), Scene della vita di Cagliostro (1963) e Faust ’67 (1969). Alimentato da infinite suggestioni letterarie (Rabelais, Gogol’, Poe, Kafka, i simbolisti ecc.), il sofisticato discorso narrativo di L. verte soprattutto sull’incontro-scontro tra istinti e ragione, tra inconscio e consapevolezza, registrato con ironia e controllato lirismo. Rinnovando continuamente la propria attenzione per gli uomini e per le cose (le cose quotidiane osservate con sguardo straniato), L. ha elaborato una poetica della «paura» umana di fronte al misterioso e al paradossale nel mondo.Fonte della voce: Enciclopedia della Letteratura Garzanti (III ed. - 1997)
ELOGIO DI LANDOLFI SCRITTORE INUTILE ‘IL FASCINO DELLA SUA PROSA SGARBATA’
Non ho mai conosciuto Tommaso Landolfi; ben pochi lo hanno conosciuto; oscuro ricordo di una sua fotografia – o mi sbaglio? I suoi libri recavano la bandella bianca, senza notizie sull’ autore o imbonimenti per il lettore; e quello spazio era bianco, era stampato per volontà dell’ autore. Quando vinse uno dei premi più mondani d’ Italia, il Premio Strega, egli pose una condizione: che in nessun caso si sarebbe presentato a ritirare il premio; e fu l’ editore ad andare. Fu uomo solitario, bizzarro, schivo non per timidezza, ma per una sorta di disdegno, di furore, di irrisione. Era nato a Pico, un borgo aspro, un poco banditesco, tra Roma e Napoli, ma poi era andato a vivere a Sanremo, dove poteva indulgere al suo grande e violento vizio, il gioco, che visse con ira e devozione dostoevskiane. Nella letteratura italiana di questo secolo è certo tra i massimi, con Savinio, finalmente scoperto, con Delfini, ancora da scoprire. Non è mai stato scrittore popolare, ma il suo prestigio tra chi ama la letteratura è sempre stato assai alto. Ebbe elogi anche da chi gli era criticamente e intellettualmente estraneo. Ebbe la gloria di essere uno scrittore inutile. I suoi libri affascinano perché contengono attente contraddizioni, e la sua prosa magra, senza sorriso, ma in nessun caso «parlata», si porta appresso immagini di orrore, di sgomento, di decadenza, di spregio. Il nucleo del discorso di Landolfi – e lo si vede da questo splendido Mar delle Blatte – è il disgusto, l’ escremento, qualcosa che partecipa, assurdamente, delle qualità del metallico e del cadaverico, del siliceo e del decomposto. Talora la sua prosa si inasprisce di parole rare, sgarbatamente precise, vecchie in modo che direi marinaresco, non dotto; sanno di catrame e non di dizionario; mi delizia, questa prosa, quando si finge casuale, distratta, giacché una delle squisitezze di Landolfi sta proprio in questo maneggiare sciatto, indifferente, il segno, la materia della decomposizione. Cambia il piano, il livello del racconto senza ricorrere ad un alcun artificio drammatico, quasi i suoi racconti procedessero per distrazione; e infatti mi accorgo d’ aver toccato uno dei segreti della sua arte di narrare, di coltivare una «distrazione di precisione», di non guardare mai l’ oggetto del racconto, ma di usarlo – e intendo la parola anche per i connotati un poco sudici, sudore e corpo – tangenzialmente, come se in verità egli dovesse parlare d’ altro, qualcosa di non parlabile. * * * In Des mois (Vallecchi) Tommaso Landolfi riprende e svolge il tema strutturale di Rien va: il diario; intendendo con questo termine non già un regesto di eventi o emozioni quotidiane, ma anzi una invenzione retorica capace di smentire il tempo, di eludere quello svolgimento che sempre regge una trascrizione di accadimenti, per quanto fantastici e astratti….. Landolfi non è, non è mai stato lieto o felice fruitore del proprio lavoro di scrittore: ma, volta a volta, neghittoso e precipitoso. «Non ho forse mai avuto la pazienza (ed è forse mio merito) di tirare davvero a pulimento certe pagine, che nondimeno parvero a taluno particolarmente ben tornite… Ma un bel giorno, sentendomi prigioniero entro i miei quasi fisici risentimenti nei riguardi della pagina, un bel giorno deliberai di allentare il controllo sulla medesima, anzi di lasciarle addirittura le briglie sul collo, e giunsi (facendo come al solito un solato troppo lungi) ad una positiva sciattezza. Ebbene, lo credereste? Non per tanto cessai od ho cessato di essere definito «stilista»». In questo simulato e veritiero diario, Landolfi esperimenta una maniera preziosamente discontinua. Riluttante alla «ambigua lode» che comporta quella vanitosa targa di «stilista», sceglie di scrivere con ineguale, mutevole attenzione, così da lasciare continuamente sulla frase, sulla pagina, il duro segno di una estraneità, l’ oltraggio di un ineliminabile disordine, un tocco di materia povera e sorda inserita in altra squisita e capziosa; e questa impetuosa goffaggine conferisce un risentito, inamabile sapore alla sua prosa, e insieme una violenta, anche stizzosa drammaticità. Questa invenzione stilistica, svolgendosi in spaziosa ed articolata metafora, rimanda al tema carissimo a Landolfi, che delicatamente inquina queste pagine: la impurità. Codesta impurità non è solo la sgarbata delizia del solecismo stilistico, ma anche il costante svelarsi di una maliziosa frattura negli oggetti, il manieristico sconnettersi delle strutture, i minuti indizi del disordine, la nobile putredine che insieme matura e consuma, le instabili crepe negli ostinati edifici dell’ intelligenza e degli affetti. Donde la pertinenza, l’ astuzia retorica dell’ invenzione diaristica, che per la sua imprecisione di confini è la più idonea ad accogliere gli aurorali segni del sordido, la tenera vegetazione della decadenza. Il diario taglia i personaggi secondo la vena del naturale, intrinseco disonore. Segno emblematico di codesta impurità è la morte («Ed ho potuto pensare di ingannare la morte è dimenticarla, di eludere il vero scopo di queste pagine!», aveva scritto in Rien va ). La morte è un sintomo deforme, sconcio, insensato, una sporcizia nelle e tra le cose, una tabe fatale ed amica. A Landolfi è affatto estranea ogni fantasia di oggetti, di figure in qualche modo nobili e armoniose; non solo scopre, ma sceglie il disordine, la malattia, l’ inesattezza. Nessuna sindacale complicità con l’ umanità («in che scambietti si casca, degni della beatezza contemporanea, delle sue dolciastre concezioni sull’ umanità sofferente e coalizzata contro il male ed anelante e amorosa»), disgusto di qualsivoglia discorso collettivo, un brusco scostare e scostarsi dai fratelli («O tracotanti assistenti sociali e simile impronta specie generata da un bestiale concetto di ignominiosa fratellanza… »). Gran parte di Des mois, come già Rien va, è il rapporto con i figli: una bimba di cinque-sei anni, un maschio tra il primo e il secondo compleanno. Sfidato da queste presenze, tra le più ricattatorie della socialità affettiva, lo scrittore è dilacerato tra una tragica sollecitudine e la coscienza della metafisica inanità di qualsiasi affettuoso intervento. La vergogna della paternità si mescola ad una smaniosa devozione, una tenera abiezione. Usciti dal «malevolo nulla» i figli sono una presenza miracolosa ed accusatrice: riscattano e insieme ribadiscono la intrinseca impurità degli oggetti.
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Scritto da GIORGIO MANGANELLI
Da La Repubblica Cultura 09 luglio 2009
a caso
Quando la cosa, a caso
parlava a Landolfi 2000
di Oretta Guidi
Il raffinatissimo Tommaso Landolfi, stilista prezioso, formatosi nella Firenze ermetica ed esclusiva degli anni Trenta, pur attingendo a piene mani dai classici italiani e da tutta la grande letteratura europea del Settecento e dell'Ottocento, non disdegna la cosiddetta paraletteratura, con predilezione per il genere noir, il poliziesco e il giallo. Lettore non snob, dunque, setaccia le sue gemme preziose in ogni territorio, contaminando, facendo la parodia, nascondendosi, con un gusto personalissimo del paradosso e con una eccezionale capacità critica e selettiva.
Per vocazione alla immedesimazione e al pastiche, quando da lettore si trasforma in scrittore, nel confondere le carte con i giochi linguistici e fantastici, spericolati quanto si vuole, non desidera essere lasciato solo nella percezione del tempo, minacciata e angosciante, per cui chiama in causa il lettore, testimone necessario da trascinare con sé nel nulla, o quanto meno, complice nel condividere la paura e l'angoscia.
Tutto questo si dice, per mettere in chiaro la sua particolare disposizione verso la letteratura, di sorniona consapevolezza e di ammiccante ironia: è vero, non esiste niente, nulla può avere senso... però, forse la parola ci salverà.
Con la poetica della parola entriamo nel suo mondo, nel suo particolarissimo rapporto con le categorie spazio e tempo, nei modi più complessi e sfuggenti della sua riflessione di uomo-scrittore.
L'analisi diventa ambigua, perché Tommaso Landolfi, come pochi, è ad un tempo dentro e fuori l'ambiente storico e sociale, come con affetto testimoniano gli amici "fiorentini", da Carlo Bo a Mario Luzi, rievocando la partecipazione alla vita culturale fiorentina, il comune laboratorio ermetico. L'analisi corrosiva di ogni idea e forse l'incapacità stessa di calarsi totalmente in un progetto anche elitario, ma comunque da dividersi con altri, impediscono a Landolfi l'adesione a qualunque attività o persona che potrebbero limitarlo o definirlo.
Se la cosa mi parla, che senso ha, anche sul piano conoscitivo ed artistico, il detto di Marco Porcio Catone: Rem tene, verba sequentur? Landolfi non può non ricusare la fondatezza della sentenza di Catone, attribuendo alla parola ogni priorità. Secondo lui, difatti: tenere la cosa altro non significa e non può significare che tenere le parole. Ebbene, la nostra vita è dominata dalla parola, che è anteriore a tutto e anche quando siamo incerti se attribuire la verità all'atto o alla parola, l'ultima definitiva conclusione spetta ad essa. Pur potendo le parole smentire gli atti, non meno che gli atti le parole, nessun sacrificio può sostituire la parola, essa sola è sacrificale e fecondatrice.Non siamo davanti ad una riproduzione del culto dannunziano per la parola: a Landolfi non interessa l'aspetto sensuale o cromatico o stilistico della pagina, poiché nelle parole coglie una sorta di espediente noumenico.
Mentre Tommaso Landolfi polemizza con gli sperimentatori che desiderano raggiungere l'inconoscibile e il cuore delle cose utilizzando gli attributi sensibili della parole, finisce, chiarendo in questo modo la sua posizione, per distaccarsi da coloro che pretendono di raggiungere l'astratto, attraverso il concreto, quando secondo lui mille concetti non producono l'astratto.
Un uomo impara soltanto ciò che sa, penso nessuno lo metta in dubbio. Questa citazione, spigolata dal diario Des mois, potrebbe farci propendere per un Landolfi "platonico" in ambito gnoseologico. Ma per ribellarsi alla condanna del tempo, per liberarsi da una salvezza e da una conoscenza già segnati nei nostri geni ab eterno, non gli resta che provocare l'enigma del caso con l'esperienza, pur sapendo che rincorrere la molteplice faccia dell'apparenza o tentare sistematicamente il caso non serve a nulla; tuttavia continua a raccogliere frammenti, scaglie di vita, immagini e visioni.
Meglio penetrare la varia vita con cui venivo occasionalmente e fugacemente a contatto: far provvista di fuggevoli esperienze è sempre stata la mia ridicola mania (ridicola perché le esperienze non sono mai utilizzabili).
L'arte dunque, nella sua ansia di rinnovamento, non è soltanto frutto di repentine illuminazioni, ma di una certo stato indifferenziato, nel quale è forse da ravvisare il diffuso sentimento del tempo che gli artisti colgono prima e più acutamente degli altri. L'arte non è suddita della necessità, anzi attinge generosamente al caso, in quanto essa non può che essere aperta, disponibile. Il caso, difatti, non è mai del tutto casuale, anzi a volte si rivela la cosa meno causale di questo mondo, la vera molla rivelatrice della vita, se è vero che la vita, a ben guardare, è mossa da atti in apparenza insignificanti, che poi si manifestano determinanti. Ma chi può scegliere, in una casistica senza fine gli atti umani veramente rappresentativi, gli indici, dei quali ciascuno riassume una categoria, o un ordine di fatti?Nelle sue riflessioni diaristiche Landolfi, non dimentico della lezione del surrealismo, cerca il punto in cui gli elementi contraddittori cessano di essere percepiti come tali. Per questo anche in lui vita e morte formano un tutt'uno, il reale e l'immaginario si confondono, il passato e il futuro si intrecciano e caso e necessità trovano un momento di convergenza. Il suo desiderio di scrivere a caso, come divivere a caso, diventa un modo per raggiungere finalmente il fondo segreto e inattingibile dell'io.
Se i surrealisti aspiravano a scrivere sotto l'impulso di un puro automatismo psichico, "al di fuori di qualsiasi controllo della ragione", al di fuori di esigenze estetiche o di preoccupazioni morali, Landolfi si spinge anche più oltre, affermando che vivere a caso è forse l'unico modo possibile di vivere.
Oretta Guidi
Convegno su Tommaso Landolfi Tommaso Landolfi, Opere, a cura di Idolina Landolfi, 2 vol., Milano, Rizzoli, 1991 e 1992.
parlava a Landolfi 2000
di Oretta Guidi
Il raffinatissimo Tommaso Landolfi, stilista prezioso, formatosi nella Firenze ermetica ed esclusiva degli anni Trenta, pur attingendo a piene mani dai classici italiani e da tutta la grande letteratura europea del Settecento e dell'Ottocento, non disdegna la cosiddetta paraletteratura, con predilezione per il genere noir, il poliziesco e il giallo. Lettore non snob, dunque, setaccia le sue gemme preziose in ogni territorio, contaminando, facendo la parodia, nascondendosi, con un gusto personalissimo del paradosso e con una eccezionale capacità critica e selettiva.
Per vocazione alla immedesimazione e al pastiche, quando da lettore si trasforma in scrittore, nel confondere le carte con i giochi linguistici e fantastici, spericolati quanto si vuole, non desidera essere lasciato solo nella percezione del tempo, minacciata e angosciante, per cui chiama in causa il lettore, testimone necessario da trascinare con sé nel nulla, o quanto meno, complice nel condividere la paura e l'angoscia.
Tutto questo si dice, per mettere in chiaro la sua particolare disposizione verso la letteratura, di sorniona consapevolezza e di ammiccante ironia: è vero, non esiste niente, nulla può avere senso... però, forse la parola ci salverà.
Con la poetica della parola entriamo nel suo mondo, nel suo particolarissimo rapporto con le categorie spazio e tempo, nei modi più complessi e sfuggenti della sua riflessione di uomo-scrittore.
L'analisi diventa ambigua, perché Tommaso Landolfi, come pochi, è ad un tempo dentro e fuori l'ambiente storico e sociale, come con affetto testimoniano gli amici "fiorentini", da Carlo Bo a Mario Luzi, rievocando la partecipazione alla vita culturale fiorentina, il comune laboratorio ermetico. L'analisi corrosiva di ogni idea e forse l'incapacità stessa di calarsi totalmente in un progetto anche elitario, ma comunque da dividersi con altri, impediscono a Landolfi l'adesione a qualunque attività o persona che potrebbero limitarlo o definirlo.
Se la cosa mi parla, che senso ha, anche sul piano conoscitivo ed artistico, il detto di Marco Porcio Catone: Rem tene, verba sequentur? Landolfi non può non ricusare la fondatezza della sentenza di Catone, attribuendo alla parola ogni priorità. Secondo lui, difatti: tenere la cosa altro non significa e non può significare che tenere le parole. Ebbene, la nostra vita è dominata dalla parola, che è anteriore a tutto e anche quando siamo incerti se attribuire la verità all'atto o alla parola, l'ultima definitiva conclusione spetta ad essa. Pur potendo le parole smentire gli atti, non meno che gli atti le parole, nessun sacrificio può sostituire la parola, essa sola è sacrificale e fecondatrice.Non siamo davanti ad una riproduzione del culto dannunziano per la parola: a Landolfi non interessa l'aspetto sensuale o cromatico o stilistico della pagina, poiché nelle parole coglie una sorta di espediente noumenico.
Mentre Tommaso Landolfi polemizza con gli sperimentatori che desiderano raggiungere l'inconoscibile e il cuore delle cose utilizzando gli attributi sensibili della parole, finisce, chiarendo in questo modo la sua posizione, per distaccarsi da coloro che pretendono di raggiungere l'astratto, attraverso il concreto, quando secondo lui mille concetti non producono l'astratto.
Un uomo impara soltanto ciò che sa, penso nessuno lo metta in dubbio. Questa citazione, spigolata dal diario Des mois, potrebbe farci propendere per un Landolfi "platonico" in ambito gnoseologico. Ma per ribellarsi alla condanna del tempo, per liberarsi da una salvezza e da una conoscenza già segnati nei nostri geni ab eterno, non gli resta che provocare l'enigma del caso con l'esperienza, pur sapendo che rincorrere la molteplice faccia dell'apparenza o tentare sistematicamente il caso non serve a nulla; tuttavia continua a raccogliere frammenti, scaglie di vita, immagini e visioni.
Meglio penetrare la varia vita con cui venivo occasionalmente e fugacemente a contatto: far provvista di fuggevoli esperienze è sempre stata la mia ridicola mania (ridicola perché le esperienze non sono mai utilizzabili).
L'arte dunque, nella sua ansia di rinnovamento, non è soltanto frutto di repentine illuminazioni, ma di una certo stato indifferenziato, nel quale è forse da ravvisare il diffuso sentimento del tempo che gli artisti colgono prima e più acutamente degli altri. L'arte non è suddita della necessità, anzi attinge generosamente al caso, in quanto essa non può che essere aperta, disponibile. Il caso, difatti, non è mai del tutto casuale, anzi a volte si rivela la cosa meno causale di questo mondo, la vera molla rivelatrice della vita, se è vero che la vita, a ben guardare, è mossa da atti in apparenza insignificanti, che poi si manifestano determinanti. Ma chi può scegliere, in una casistica senza fine gli atti umani veramente rappresentativi, gli indici, dei quali ciascuno riassume una categoria, o un ordine di fatti?Nelle sue riflessioni diaristiche Landolfi, non dimentico della lezione del surrealismo, cerca il punto in cui gli elementi contraddittori cessano di essere percepiti come tali. Per questo anche in lui vita e morte formano un tutt'uno, il reale e l'immaginario si confondono, il passato e il futuro si intrecciano e caso e necessità trovano un momento di convergenza. Il suo desiderio di scrivere a caso, come divivere a caso, diventa un modo per raggiungere finalmente il fondo segreto e inattingibile dell'io.
Se i surrealisti aspiravano a scrivere sotto l'impulso di un puro automatismo psichico, "al di fuori di qualsiasi controllo della ragione", al di fuori di esigenze estetiche o di preoccupazioni morali, Landolfi si spinge anche più oltre, affermando che vivere a caso è forse l'unico modo possibile di vivere.
Oretta Guidi
Convegno su Tommaso Landolfi Tommaso Landolfi, Opere, a cura di Idolina Landolfi, 2 vol., Milano, Rizzoli, 1991 e 1992.
Tommaso Landolfi: scrittore da riscoprire
Di Mario Bonelli
Cancroregina
Tommaso Landolfi e la sua storia bizzarra nel racconto Cancroregina
di Nunzia Attardi
I protagonisti del romanzo di Landolfi, Cancroregina, sono due: da un lato c’è uno scrittore fallito, pieno di debiti e con la voglia di evadere da una routine noiosa e solitaria; dall’altro c’è uno scienziato folle, uscito da poco da un manicomio che invita lo scrittore a prendere parte, insieme a lui, ad un’avventura bizzarra e lontana dalle sue abitudini che consiste nel fare un viaggio, o meglio un volo verso la luna a bordo di un’astronave di sua creazione chiamata Cancroregina.
Già da questi pochi elementi è chiaro come Landolfi abbia voluto mescolare motivi di reportario assai familiari nella letteratura: la noia di una situazione statica, la possibilità di evadere e fare una nuova esperienza presentata da una figura ambigua a metà tra il Mefistofole del Faust e il genio della lampada della favola di Aladdin e infine il viaggio.
Proprio il viaggio, organizzato all’improvviso e figlio di disperazione, speranza e follia insieme, si trasforma in un incubo: quando le cose sembrano andare bene, lo scienziato rivela la sua natura folle (sebbene già fossero evidenti i suoi squilibri mentali) esasperando lo scrittore e addirittura accusandolo di impedire, con il suo peso, la normale andatura del viaggio.
Dal momento che i due “esploratori” sanno poco l’uno dell’altro e sono mossi da motivazioni assai diverse le liti e le incomprensioni arrivano ad un livello di tensione tale che lo scrittore per difendersi dal folle scienziato lo scaraventa letteralmente fuori dalla navicella.
Lo scrittore crede così di essere solo; in realtà lo scienziato Filano si è aggrappato alla navicella e continua a far parte del viaggio e a seguire la sua navicella nello spazio.
Landolfi a questo punto del romanzo trasforma completamente la sua storia: da un racconto iniziale, strutturato a norma (benche la presenza di elementi bizzarri), si passa ad una sorta di diario di bordo in prima persona, un flusso di parole dello scrittore che riflette sul senso di vacuità e di insoddisfazione della sua vita e della condizione dell’uomo in generale.
A mio avviso Landolfi, trova con una maniera innovativa e stramba di riflettere sui temi dell’uomo, come già era successo in passato e su uno in particolare: la pazzia.
La pazzia pervade l’opera del Landolfi, con sfaccettature diverse nei due personaggi e anche nella stessa navicella: abbandonato il comune progetto di conquistare la luna e trovatosi solo, lo scrittore diventa vittima di Cancroregina, la navicella si ribella, per un guasto tecnico, impazzisce appunto e si ferma, lontana dalla luna, lontana dalla terra, bloccata nell’orbita dello spazio e il protagonista con lei.
Sergio Givone, filosofo italiano, a proprosito di Cancroregina definisce il romanzo
Un viaggio al fondo della disperazione. Quale disperazione? La disperazione assoluta; ossia la disperazione di chi dispera perfino di far giungere a qualcuno la propria voce, il proprio grido…. prigionierio di una navicella spaziale è un morto in vita, anzi è un morto che non può morire
Il viaggio cominciato con lo scienziato Filano, per sfuggire ad una vita nella quale si sentiva bloccato senza via d’uscita, si rivela essere una nuova prigione per lo scrittore
La provvista di cibo era per due, tre anni: se però fossimo stati in due. Sono solo invece e poi non mangio…quasi più. Per cui basterà magari eternamente per la mia vita senza fondo.Ma come si può vivere così senza nulla, senza nemmeno una lontana speranza? E’ vero ed io in realtà aspetto qualcosa: aspetto il coraggio di morire
di Nunzia Attardi
I protagonisti del romanzo di Landolfi, Cancroregina, sono due: da un lato c’è uno scrittore fallito, pieno di debiti e con la voglia di evadere da una routine noiosa e solitaria; dall’altro c’è uno scienziato folle, uscito da poco da un manicomio che invita lo scrittore a prendere parte, insieme a lui, ad un’avventura bizzarra e lontana dalle sue abitudini che consiste nel fare un viaggio, o meglio un volo verso la luna a bordo di un’astronave di sua creazione chiamata Cancroregina.
Già da questi pochi elementi è chiaro come Landolfi abbia voluto mescolare motivi di reportario assai familiari nella letteratura: la noia di una situazione statica, la possibilità di evadere e fare una nuova esperienza presentata da una figura ambigua a metà tra il Mefistofole del Faust e il genio della lampada della favola di Aladdin e infine il viaggio.
Proprio il viaggio, organizzato all’improvviso e figlio di disperazione, speranza e follia insieme, si trasforma in un incubo: quando le cose sembrano andare bene, lo scienziato rivela la sua natura folle (sebbene già fossero evidenti i suoi squilibri mentali) esasperando lo scrittore e addirittura accusandolo di impedire, con il suo peso, la normale andatura del viaggio.
Dal momento che i due “esploratori” sanno poco l’uno dell’altro e sono mossi da motivazioni assai diverse le liti e le incomprensioni arrivano ad un livello di tensione tale che lo scrittore per difendersi dal folle scienziato lo scaraventa letteralmente fuori dalla navicella.
Lo scrittore crede così di essere solo; in realtà lo scienziato Filano si è aggrappato alla navicella e continua a far parte del viaggio e a seguire la sua navicella nello spazio.
Landolfi a questo punto del romanzo trasforma completamente la sua storia: da un racconto iniziale, strutturato a norma (benche la presenza di elementi bizzarri), si passa ad una sorta di diario di bordo in prima persona, un flusso di parole dello scrittore che riflette sul senso di vacuità e di insoddisfazione della sua vita e della condizione dell’uomo in generale.
A mio avviso Landolfi, trova con una maniera innovativa e stramba di riflettere sui temi dell’uomo, come già era successo in passato e su uno in particolare: la pazzia.
La pazzia pervade l’opera del Landolfi, con sfaccettature diverse nei due personaggi e anche nella stessa navicella: abbandonato il comune progetto di conquistare la luna e trovatosi solo, lo scrittore diventa vittima di Cancroregina, la navicella si ribella, per un guasto tecnico, impazzisce appunto e si ferma, lontana dalla luna, lontana dalla terra, bloccata nell’orbita dello spazio e il protagonista con lei.
Sergio Givone, filosofo italiano, a proprosito di Cancroregina definisce il romanzo
Un viaggio al fondo della disperazione. Quale disperazione? La disperazione assoluta; ossia la disperazione di chi dispera perfino di far giungere a qualcuno la propria voce, il proprio grido…. prigionierio di una navicella spaziale è un morto in vita, anzi è un morto che non può morire
Il viaggio cominciato con lo scienziato Filano, per sfuggire ad una vita nella quale si sentiva bloccato senza via d’uscita, si rivela essere una nuova prigione per lo scrittore
La provvista di cibo era per due, tre anni: se però fossimo stati in due. Sono solo invece e poi non mangio…quasi più. Per cui basterà magari eternamente per la mia vita senza fondo.Ma come si può vivere così senza nulla, senza nemmeno una lontana speranza? E’ vero ed io in realtà aspetto qualcosa: aspetto il coraggio di morire
SCUOLE SEGRETE
STORIA CONTEMPORANEA n.44: Tommaso Landolfi e i suoi lettori. “Scuole segrete. Il Novecento italiano e Tommaso Landolfi”, a cura di Andrea CortellessaPubblicato da giuseppepanella su giugno 7, 2010
Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaire Dreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei.(G.P)
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di Giuseppe Panella
Tommaso Landolfi e i suoi lettori. Scuole segrete. Il Novecento italiano e Tommaso Landolfi, a cura di Andrea Cortellessa, Torino, Nino Aragno Editore, 2009
A Tommaso Landolfi non sono mai andate troppo (o del tutto) le simpatie dei lettori. Infatti, egli è rimasto (quasi sempre) uno “scrittore per scrittori”, amato per lo stile ma non per il carattere, per certe sue invenzioni verbali e non per la potenza espressiva di trame e pathos scrittorio. In buona sostanza, Landolfi è uno scrittore che piaceva (e probabilmente piace ancora) a chi ama la scrittura e il suo gioco di incastro sulla pagina, non a chi legge perché appassionato e/o avido soltanto di sapere come un libro (specie un romanzo) vada a finire…
I lettori migliori del grande scrittore di Pico sono stati anche i suoi recensori (come Giuseppe Dessì su “Primato” nel 1940 o Franco Fortini o Andrea Zanzotto), i redattori di antologie di suoi scritti (come Italo Calvino), i suoi seguaci sulla strada rischiosa ed entusiasmante della sperimentazione linguistica e morale. Ci sono stati ovviamente anche suoi lettori meno agguerriti ma non per questo incapaci di apprezzarne la forza dello stile (in un’occasione non recente, Roberto Benigni mi parlò con apprezzamento del Landolfi di Cancroregina ma lo definì, con bella espressione icastica, uno scrittore “non naturale” cogliendone in parte la verità e il dramma autoriale). E di Landolfi in questo senso non si finirebbe più di parlare… Il fatto è che di lui finora non si è mai parlato abbastanza.
Questa raccolta sul filo dell’ingombrante per il suo spessore ma curata in maniera ottimale da Andrea Cortellessa e salvata dal rischio dell’accademismo dalla leggerezza del suo approccio è di grande utilità per capire chi sia stato “veramente” Tommaso Landolfi.
Come scrive il regista dell’operazione nella sua Introduzione al volume partendo proprio dalla qualifica di “scrittore per scrittori”:
«La qualifica ominosa risuona esplicita nella conversazione di Alfredo Giuliani con Luigi Fontanella. Dice quest’ultimo che “è stato più amato dagli scrittori che dalla critica, o dal pubblico”, Landolfi. E ha ragione. Com’è noto, fatti salvi i primi, pressoché unanimi battimani – al rapinoso start di Dialogo dei massimi sistemi, Pietra lunare e Mar delle blatte – anche la critica “di coppella”, per dirla con una sua espressione, s’è visibilmente discostata dal “caso” legato al suo nome (il decorso, conosciuto, degli apprezzamenti continiani è, al riguardo, eloquente cartina di tornasole); magari per riaccostarglisi, postumamente, non senza resipiscente amarezza (meno noto, ma altrettanto eloquente, il caso di Luigi Baldacci; lo stesso andamento delle quotazioni da parte di Giuliani, come si vedrà, è assai meno lineare di quanto farebbe pensare la stazione d’arrivo). Mentre, a scorrere il dossierin nostro possesso, quel “pubblico” tutto particolare che è la platea dei colleghi, dal 1938 al 2008, non ha mai cessato di seguire a occhi sgranati le acrobatiche evoluzioni di Landolfi sulla corda tesa. Qualcuno, magari, col sadismo sottile di segretamente augurarsi che l’insolente virtuoso facesse, una buona volta, il passo più lungo della gamba; la maggior parte, invece, con ammirazione sincera e, il più delle volte, quasi fanatica. E’ interessante il motivo, di tutto questo. Dice Giuliani, sempre nel sugosissimo dialogo con Fontanella, che forse il lettore ideale di Landolfi è uno scrittore perché, per apprezzarlo, si deve ”restare anche affascinati dal modo di raccontare e di scrivere”. In realtà, pur non essendo per esempio io uno scrittore, è esattamente questo il motivo per cui l’ho sempre venerato» (pp. VII-VIII).
Questa qualità della scrittura di Landolfi come fascino non poi tanto segreto riverberato sull’ammirazione dei suoi critici/lettori rimbalza e si ritrova, omnes et singulatim, in ognuno dei testi riprodotti nel volume. A partire da Alfonso Gatto per finire con l’ultimo, ma non certo il peggiore, il regista Luca Archibugi in Il teatro dei lemuri del 2008, cui appartiene questo folgorante lemma che l’antologia viene a chiudere. Dopo aver figurato che il teatro sia il vero fil rouge dell’apoteosi landolfiana del linguaggio, l’autore del saggio candisce nel finale:
«Così è dal regno delle ombre che ci parla Landolfi, un Ade costellato di astri, donne, piaceri, gioco, eleganza, perché oltre la morte ci sarà sempre un’altra ombra di cui potremmo udire la voce, un cammino purissimo fatto di lemuri vaganti che non godranno appieno della carne, ma sapranno trarsi in salvo in una striscia di terra immaginaria, sapranno guardare a ciglio asciutto al sembiante che si vanifica, privi di memoria, erratici e beffardi. A capo dell’orda di fantasmi del mondo sarà Tommaso Landolfi, inappuntabile, vestito di scuro, e il suo incedere trasformerà in contegno il claudicante passo dei molti, e con un semplice inchino resterà avvolto dal sipario che s’apre e si chiude, in un gesto ripetuto in eterno con le luci di sala ancora spente, in fuga dalle fattezze di un reale che non è mai esistito» (p. 331).
Si sarebbe tentati di aggiungere in limine: il resto è silenzio a mo’ di unica chiosa teatrale.
Le recensioni, i testi letterari, i saggi e le note relative all’opera di Landolfi sono tutte contrassegnate dallo stupore relativo alla capacità della sua scrittura di riuscire ad andare oltre le naturali sperimentazioni della letteratura, la sua decisione nel superarla quale forma apparentemente già consolidata dell’apparire del linguaggio e del suo considerarsi lingua già formata. Quella dello scrittore di Pico è, invece, sempre in progress, in attesa di diventare altro, in perpetua metamorfosi dall’antico al nuovo e dal nuovo all’antico, dal passato non più presente al presente che rischia di non diventare futuro neppure remoto.
Quando Moravia dice in un suo Ricordo di Tommaso Landolfi:
«Tornando a Landolfi, io credo di vedere il rapporto che c’è fra Landolfi e i prosatori italiani prima di lui, probabilmente, principalmente Leopardi, secondo me. Ora questo innesto, questa volontà di ri-scrivere la prosa italiana, veniva fuori da una certa distanza. Direi che Landolfi non cessava mai di essere filosofo e qui viene fuori il senso del pastiche di Landolfi, cioè l’ironia non si esercitava soltanto verso la realtà ma anche verso la sua professione di scrittore, verso quello che scriveva lui stesso, non tranne Landolfi, e questa è la cosa divertente. C’è un’affermazione e c’è al tempo stesso la negazione di questa affermazione o, per lo meno, la sua relativizzazione, con l’ironia che a un certo punto distrugge proprio quello che fa. E’ una tela di Penelope continua» (p. 148)
coglie in realtà proprio questo aspetto. Lo stesso avviene quando Pavese scrive nel suo diario di scrittore, quel Mestiere di vivere pubblicato postumo nel 1952:
«18 novembre [1939]. Compreso, leggendo Landolfi, che il tuo motivo del caprone era il motivo del nesso tra l’uomo e il naturale-ferino. Di qua il tuo gusto della preistoria: il tempo in cui s’intravede una promiscuità dell’uomo con la natura-belva. Di qui la tua ricerca dell’origine dell’immagine in quei tempi: la promiscuità di un primo termine (solitamente umano) con un secondo (solitamente naturale) che sarebbe qualcosa di più di un semplice fantastico: una testimonianza di un nesso vivo» (p. 5).
In questa dichiarazione c’è tutta la capacità espressa da Landolfi (soprattutto quello della prima fase letteraria) di andare oltre la letteratura mediante la letteratura stessa, attivandone il “nesso vivo” tra lingua e forza espressiva dell’immagine (questo elemento è ben presente nella congiunzione umano-ferina che è al fondo di La pietra lunare).
E qui nel citare si potrebbe andare avanti per pagine e pagine, non la si finirebbe mai con Landolfi (come Pietro Paolo Trompeo ha scritto della ricerca critica su Stendhal). Ma, a differenza dello scrittore di Grenoble che era “adorabile” (come lo definisce Sciascia tra gli altri), Landolfi non lo era affatto. Era terribile e/o sublime, capace di affondi, fendenti e lampi scintillanti, di tagli umani feroci e di straziati abbandoni alla poesia.
Questa antologia curata da Cortellessa, allora, restituisce certo con luce radente e impatto mirato ma sempre con integrità critica e prospettiva storica lungimirante, il fascino esercitato da Landolfi sul Novecento italiano e le sue propaggini tra sperimentazione linguistica e culto della scrittura. Il suo merito è indubbio come pure la qualità della ricerca compiuta.
Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaire Dreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei.(G.P)
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di Giuseppe Panella
Tommaso Landolfi e i suoi lettori. Scuole segrete. Il Novecento italiano e Tommaso Landolfi, a cura di Andrea Cortellessa, Torino, Nino Aragno Editore, 2009
A Tommaso Landolfi non sono mai andate troppo (o del tutto) le simpatie dei lettori. Infatti, egli è rimasto (quasi sempre) uno “scrittore per scrittori”, amato per lo stile ma non per il carattere, per certe sue invenzioni verbali e non per la potenza espressiva di trame e pathos scrittorio. In buona sostanza, Landolfi è uno scrittore che piaceva (e probabilmente piace ancora) a chi ama la scrittura e il suo gioco di incastro sulla pagina, non a chi legge perché appassionato e/o avido soltanto di sapere come un libro (specie un romanzo) vada a finire…
I lettori migliori del grande scrittore di Pico sono stati anche i suoi recensori (come Giuseppe Dessì su “Primato” nel 1940 o Franco Fortini o Andrea Zanzotto), i redattori di antologie di suoi scritti (come Italo Calvino), i suoi seguaci sulla strada rischiosa ed entusiasmante della sperimentazione linguistica e morale. Ci sono stati ovviamente anche suoi lettori meno agguerriti ma non per questo incapaci di apprezzarne la forza dello stile (in un’occasione non recente, Roberto Benigni mi parlò con apprezzamento del Landolfi di Cancroregina ma lo definì, con bella espressione icastica, uno scrittore “non naturale” cogliendone in parte la verità e il dramma autoriale). E di Landolfi in questo senso non si finirebbe più di parlare… Il fatto è che di lui finora non si è mai parlato abbastanza.
Questa raccolta sul filo dell’ingombrante per il suo spessore ma curata in maniera ottimale da Andrea Cortellessa e salvata dal rischio dell’accademismo dalla leggerezza del suo approccio è di grande utilità per capire chi sia stato “veramente” Tommaso Landolfi.
Come scrive il regista dell’operazione nella sua Introduzione al volume partendo proprio dalla qualifica di “scrittore per scrittori”:
«La qualifica ominosa risuona esplicita nella conversazione di Alfredo Giuliani con Luigi Fontanella. Dice quest’ultimo che “è stato più amato dagli scrittori che dalla critica, o dal pubblico”, Landolfi. E ha ragione. Com’è noto, fatti salvi i primi, pressoché unanimi battimani – al rapinoso start di Dialogo dei massimi sistemi, Pietra lunare e Mar delle blatte – anche la critica “di coppella”, per dirla con una sua espressione, s’è visibilmente discostata dal “caso” legato al suo nome (il decorso, conosciuto, degli apprezzamenti continiani è, al riguardo, eloquente cartina di tornasole); magari per riaccostarglisi, postumamente, non senza resipiscente amarezza (meno noto, ma altrettanto eloquente, il caso di Luigi Baldacci; lo stesso andamento delle quotazioni da parte di Giuliani, come si vedrà, è assai meno lineare di quanto farebbe pensare la stazione d’arrivo). Mentre, a scorrere il dossierin nostro possesso, quel “pubblico” tutto particolare che è la platea dei colleghi, dal 1938 al 2008, non ha mai cessato di seguire a occhi sgranati le acrobatiche evoluzioni di Landolfi sulla corda tesa. Qualcuno, magari, col sadismo sottile di segretamente augurarsi che l’insolente virtuoso facesse, una buona volta, il passo più lungo della gamba; la maggior parte, invece, con ammirazione sincera e, il più delle volte, quasi fanatica. E’ interessante il motivo, di tutto questo. Dice Giuliani, sempre nel sugosissimo dialogo con Fontanella, che forse il lettore ideale di Landolfi è uno scrittore perché, per apprezzarlo, si deve ”restare anche affascinati dal modo di raccontare e di scrivere”. In realtà, pur non essendo per esempio io uno scrittore, è esattamente questo il motivo per cui l’ho sempre venerato» (pp. VII-VIII).
Questa qualità della scrittura di Landolfi come fascino non poi tanto segreto riverberato sull’ammirazione dei suoi critici/lettori rimbalza e si ritrova, omnes et singulatim, in ognuno dei testi riprodotti nel volume. A partire da Alfonso Gatto per finire con l’ultimo, ma non certo il peggiore, il regista Luca Archibugi in Il teatro dei lemuri del 2008, cui appartiene questo folgorante lemma che l’antologia viene a chiudere. Dopo aver figurato che il teatro sia il vero fil rouge dell’apoteosi landolfiana del linguaggio, l’autore del saggio candisce nel finale:
«Così è dal regno delle ombre che ci parla Landolfi, un Ade costellato di astri, donne, piaceri, gioco, eleganza, perché oltre la morte ci sarà sempre un’altra ombra di cui potremmo udire la voce, un cammino purissimo fatto di lemuri vaganti che non godranno appieno della carne, ma sapranno trarsi in salvo in una striscia di terra immaginaria, sapranno guardare a ciglio asciutto al sembiante che si vanifica, privi di memoria, erratici e beffardi. A capo dell’orda di fantasmi del mondo sarà Tommaso Landolfi, inappuntabile, vestito di scuro, e il suo incedere trasformerà in contegno il claudicante passo dei molti, e con un semplice inchino resterà avvolto dal sipario che s’apre e si chiude, in un gesto ripetuto in eterno con le luci di sala ancora spente, in fuga dalle fattezze di un reale che non è mai esistito» (p. 331).
Si sarebbe tentati di aggiungere in limine: il resto è silenzio a mo’ di unica chiosa teatrale.
Le recensioni, i testi letterari, i saggi e le note relative all’opera di Landolfi sono tutte contrassegnate dallo stupore relativo alla capacità della sua scrittura di riuscire ad andare oltre le naturali sperimentazioni della letteratura, la sua decisione nel superarla quale forma apparentemente già consolidata dell’apparire del linguaggio e del suo considerarsi lingua già formata. Quella dello scrittore di Pico è, invece, sempre in progress, in attesa di diventare altro, in perpetua metamorfosi dall’antico al nuovo e dal nuovo all’antico, dal passato non più presente al presente che rischia di non diventare futuro neppure remoto.
Quando Moravia dice in un suo Ricordo di Tommaso Landolfi:
«Tornando a Landolfi, io credo di vedere il rapporto che c’è fra Landolfi e i prosatori italiani prima di lui, probabilmente, principalmente Leopardi, secondo me. Ora questo innesto, questa volontà di ri-scrivere la prosa italiana, veniva fuori da una certa distanza. Direi che Landolfi non cessava mai di essere filosofo e qui viene fuori il senso del pastiche di Landolfi, cioè l’ironia non si esercitava soltanto verso la realtà ma anche verso la sua professione di scrittore, verso quello che scriveva lui stesso, non tranne Landolfi, e questa è la cosa divertente. C’è un’affermazione e c’è al tempo stesso la negazione di questa affermazione o, per lo meno, la sua relativizzazione, con l’ironia che a un certo punto distrugge proprio quello che fa. E’ una tela di Penelope continua» (p. 148)
coglie in realtà proprio questo aspetto. Lo stesso avviene quando Pavese scrive nel suo diario di scrittore, quel Mestiere di vivere pubblicato postumo nel 1952:
«18 novembre [1939]. Compreso, leggendo Landolfi, che il tuo motivo del caprone era il motivo del nesso tra l’uomo e il naturale-ferino. Di qua il tuo gusto della preistoria: il tempo in cui s’intravede una promiscuità dell’uomo con la natura-belva. Di qui la tua ricerca dell’origine dell’immagine in quei tempi: la promiscuità di un primo termine (solitamente umano) con un secondo (solitamente naturale) che sarebbe qualcosa di più di un semplice fantastico: una testimonianza di un nesso vivo» (p. 5).
In questa dichiarazione c’è tutta la capacità espressa da Landolfi (soprattutto quello della prima fase letteraria) di andare oltre la letteratura mediante la letteratura stessa, attivandone il “nesso vivo” tra lingua e forza espressiva dell’immagine (questo elemento è ben presente nella congiunzione umano-ferina che è al fondo di La pietra lunare).
E qui nel citare si potrebbe andare avanti per pagine e pagine, non la si finirebbe mai con Landolfi (come Pietro Paolo Trompeo ha scritto della ricerca critica su Stendhal). Ma, a differenza dello scrittore di Grenoble che era “adorabile” (come lo definisce Sciascia tra gli altri), Landolfi non lo era affatto. Era terribile e/o sublime, capace di affondi, fendenti e lampi scintillanti, di tagli umani feroci e di straziati abbandoni alla poesia.
Questa antologia curata da Cortellessa, allora, restituisce certo con luce radente e impatto mirato ma sempre con integrità critica e prospettiva storica lungimirante, il fascino esercitato da Landolfi sul Novecento italiano e le sue propaggini tra sperimentazione linguistica e culto della scrittura. Il suo merito è indubbio come pure la qualità della ricerca compiuta.