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GNOSEOLOGIA E LINGUAGGIO
LA POESIA ABITA LA DISTANZA
ANTONIO MELILLO
La teoria della conoscenza rappresenta da sempre uno dei luoghi più complessi e stratificati della riflessione filosofica o, latu sensu, gnoseologica. Tuttavia, ai fini euristici del presente saggio, possono essere individuati almeno due grandi modelli di lungo periodo, quello iconico e quello proposizionale[1].
Per il primo modello, che ha origine nello stoicismo e prevale nella filosofia europea del Seicento per arrivare fino a Kant e all’idealismo tedesco, la conoscenza è un’immagine mentale adeguata dell’oggetto di conoscenza. Per il secondo modello, cha da Aristotele attraversa la filosofia medievale e torna con forza nel positivismo e nel Novecento, una conoscenza è una proposizione vera. Quest’ultimo modello è sicuramente più adeguato per la conoscenza scientifica, in quanto oggetto del conoscere non sono soltanto le cose, ma anche e soprattutto le loro relazioni. Il modello iconico, invece, apre a forme di conoscenza più ampie, nelle quali anche la poesia può ritagliarsi uno spazio, dal momento che si fa riferimento ad immagini e che i prototipi del modello sono la percezione e la memoria; inoltre, il modello iconico, proprio nella riflessione filosofica più recente[2], consente di tematizzare un nodo concettuale, quello della distanza, che è centrale al piano della nostra meditazione sul rapporto tra poesia e conoscenza. Nel modello iconico la questione della distanza emerge come profondità tra l’atto cognitivo e la cosa conosciuta, come diaframma tra soggetto conoscente ed oggetto della conoscenza: luogo e spazio concettuale, di volta in volta, da superare, ridurre, percorrere, colmare o misurare, la distanza assurge, in tale prospettiva, a trascendentale della conoscenza. Essa merita, pertanto, di essere elevata a cifra costitutiva dell’interrogazione che coinvolge, in questo scritto, la poesia ed il poeta, considerato allora quale soggetto conoscente: sarà il poeta a servirsi della poesia quale strumento privilegiato per la ricerca di conoscenza.
Se la distanza costituisce, dunque, la leva logica e l’istanza tematica della nostra analisi e riflessione, occorre investigarla entro il dettato poetico di autori che abbiano costruito, proprio a partire dalla problematica che il tema della distanza sa aprire, nella particolare accezione cui abbiamo fatto poco sopra riferimento. In tale ottica, analizzeremo l’esperienza di due scrittori, lontani tra loro e per questo almeno in parte difficilmente accostabili, Tommaso Landolfi e Friedrich Hölderlin. Esponente del Novecento italiano con la sua prosa ricercata e originale il primo, poeta tedesco, tra i massimi della letteratura mondiale, il secondo, entrambi accomunati da un rispetto sacro per la parola ed entrambi traduttori. Essi confidano nella capacità della poesia di aprire una porta su un mondo sconosciuto e vedono nella parola poetica la fonte di una conoscenza ulteriore. Landolfi è ossessionato dalla ricerca del linguaggio puro, originario, ancora non ingabbiato dal significato, il quale, legando la parola all’oggetto, spoglia la prima della sua forza vera ed intrinseca. Hölderlin vede la parola come un involucro capace di contenere il fuoco divino e la poesia come potenziale strumento per la conoscenza di Dio. In entrambi, dunque, la poesia può consentire di trascendere i limiti dell’esperienza umana ed in questo senso portare alla conoscenza. Qui la lontananza tra i due sembra assottigliarsi, ed in questo spazio, solo in questo, centriamo la nostra analisi.
La parola, tinta di sacralità, verso la quale si prova timore reverenziale, è la realtà per Landolfi, più materiale degli stessi oggetti che designa[3]; la parola quindi diviene l’oggetto e, in Hölderlin, persino l’uomo stesso; attraverso la parola poetica, inoltre, si raggiungerà l’unione etica ed estetica e il “colloquio” diverrà “canto”[4]; solo allora la storia terminerà e si realizzerà una coscienza universale dell’umanità, la quale diverrà linguaggio comune e colloquio comune. In Landolfi la parola poetica è una parola prebabelica in grado di aprire forme nuove di comprensione e comunicazione, in grado di essere ripetuta[5].
Ci troviamo davanti a due traduttori, e non è un caso. Chi assegna un ruolo così centrale alla parola, si trova inevitabilmente a lottare per ricercarla nella purezza della sua origine; tradurre diventa un modo per unire due lingue creandone una terza[6], comune, che mantiene integri i tratti distintivi di due tradizioni[7]: così Hölderlin, che nelle traduzioni in tedesco dei classici greci tenta di mantenere vivo il fuoco della grecità e la razionalità occidentale e così Landolfi, che nella sua opera autobiografica ci confessa che da ragazzo avrebbe voluto inventare una lingua personale: “mi pareva necessario cominciare di lì; una lingua vera e propria, con tutte le sue regole”[8].
La poesia, come fonte di comunicazione e conoscenza, è dunque oggetto di profonde ricerche. Ci proponiamo qui di indagare le modalità di questa ricerca e le possibili conseguenze. A cosa può portare una ricerca di questo tipo?
Hölderlin e la necessitàSanto è Dio, che vuole essere conosciuto ed è conosciuto dai suoi.
Corpus Hermeticum, I, 31
Poesia e conoscenza divengono, nell’opera di Hölderlin, parole indissolubili fin dai primi scritti; già nell’Iperione infatti si pone la conoscenza come potenzialmente raggiungibile soltanto fuggendo dai limiti umani e unendosi alla natura; mediante tale unione si perviene all’armonia tra mondo terreno e celeste, stabilendo così l’ordine cosmico[9]; l’atto dell’uomo è l’abbandono nella natura, essere una cosa sola con tutto ciò che vive, e rientrare nel tutto che la natura è[10]. La smania di ritorno all’interno della vita unica, eterna e ardente è un movimento gioioso condotto attraverso l’ispirazione poetica.
Nell’abbandono è implicito un desiderio di morte, centrale anche nell’Empedocle hölderliniano[11], tragedia della prima maturità. Qui la conoscenza è volontà d’irrompere nel mondo degli Invisibili, unirsi all’elemento del fuoco per raggiungere l’intimità della comunicazione con il divino e la poesia indica la via da seguire per raggiungere quel mondo[12]. Si potrebbe dire, come Olof Lagercrantz scrive per Dante, che Hölderlin pone il poeta come mediatore tra il divino e l’umano; Dio diviene così un segno da interpretare ed è compito del poeta ricercare le tracce per tradurle[13]. Soltanto per intercessione del vate i mortali possono partecipare ai doni divini e solo il poeta è in grado di ridurre la forza distruttiva della folgore avvolgendola nel canto, come un nuovo Orfeo, nell’involucro protettore della parola: “Questo apporto umano alla poesia ispirata dagli dei è esso stesso dono divino e nell’involucro appunto consiste il vero miracolo della poesia”[14].
Nella tragedia dell’Empedocle conduce alla morte la volontà di conoscere la vita nella sua essenza, volontà che permette di raggiungere l’unitezza e di passare dal sentimento alla conoscenza[15]. Ciò implica un’inversione che presuppone uno scambio di ruoli e di forze: l’umano, e quindi l’organico, acquisisce le forze illimitate, irrazionali, estatiche, della divinità, mentre il divino, l’aorgico[16], acquisisce il limite dell’uomo; più questa inversione è intima, più è violento lo scontro fra il divino e l’umano. La lotta è però impari: il lottatore divino è di gran lunga più forte, quindi il tentativo di simbiosi conduce alla constatazione lucida e tragica nello stesso tempo, dell’abisso che allontana dei e mortali: la vicinanza tra le due sfere è illusoria. La conoscenza così viene ad essere il riflesso della distanza più che dell’unione. Qui è già implicito lo scarto compiuto da Hölderlin nella maturità degli Inni, dove i poeti sono invitati a non abbandonarsi smisuratamente alla volontà empedocliana, alla vertigine e al bagliore del fuoco; la conoscenza e la comunicazione non è più assicurata dal poeta mediatore, ma deve compiersi tramite il mantenimento della distinzione delle due sfere, divina e umana. Anche la natura, amata, cantata, educatrice per eccellenza, diviene negli Inni l’eterna nemica dell’uomo, giacché essa lo attira aldilà di questo mondo[17].
L’uomo deve distogliersi dal mondo divino e dall’appello dell’ultimo Dio, il Cristo, che è scomparso con lo stesso gesto degli dei, i quali, assenti e infedeli, costringono l’uomo a interrogarsi sul senso sacro di questa infedeltà; quindi il poeta consapevole di tale senso sacro diviene il garante di questa separazione, della distinzione che deve essere fermamente mantenuta attraverso la purezza del ricordo divino. La poesia, che così diviene esclusivamente rimembranza, può disporre di un unico mezzo conoscitivo: la memoria di Dio; infatti Hölderlin afferma, in diversi punti della sua opera critica, che Dio e l’uomo, affinché il corso del mondo non abbia lacune e affinché il ricordo dei celesti non si perda, entrano in comunicazione sotto la forma dell’infedeltà in cui vi è l’oblio di tutto. A tal proposito possiamo rifarci all’Edipo Re, tragedia improntata, secondo Hölderlin, sull’allontanamento degli dei: il protagonista è costretto a trattenersi in disparte, a sopportare una doppia separazione, dal divino e dall’uomo, a serbare un luogo vuoto aperto alla misura della distanza, caratterizzata dall’infedeltà degli dei e degli uomini; tale spazio è da mantenere puro e vacante, affinché sia assicurata la distinzione delle sfere secondo l’esigenza espressa da Hölderlin[18].
L’esperienza ottenibile dall’abbandono al fuoco del cielo, non è solo pericolosa, ma anche falsa, in quanto pretende di essere comunicazione diretta con l’immediato, con il divino; l’immediato è impossibile ai mortali, infatti l’uomo, con la facoltà di conoscenza, può solo distinguere mondi diversi, perché la conoscenza è resa possibile esclusivamente dall’opposizione dei contrari. La poesia si deve far portatrice dell’opposizione e il poeta, non più il mediatore al quale era domandato di tenersi eretto dinnanzi a Dio, deve porsi di fronte all’assenza di Dio, deve istituirsi custode della lontananza senza smarrirsi in essa, deve accogliere, preservare l’infedeltà divina, la quale apre uno iato che costituisce il rapporto essenziale dei due mondi, deve resistere all’ispirazione degli dei che scompaiono e che lo attraggono nella loro sparizione, deve mantenere distinte le due sfere, vivendo la separazione come il luogo vuoto in cui si viene a formare il sacro, deve, attraverso il poetare, “misurare il ritiro”[19]. Se scomparisse la misura data dalla distanza, svanirebbe la possibilità di raffigurare e conoscere la divinità; essa si volta e si ritrae, come il gesto della Laura di Petrarca, ma tale atto, sebbene sia terribile, privi della presenza benevola degli dei, della familiarità della parola ispirata, respinga e faccia cadere nell’angoscia di un tempo svuotato, non è negativo, in quanto il poeta sosta davanti al desiderio che lo attrae verso la divinità e s’impone il dovere di contenersi per mantenere distinte le sfere. Nel formarsi di tale spazio, si ha il sacro[20].
Il poeta diviene l’eroe che mantiene la misura della distanza e l’uomo, per mantenere la sua integrità, non deve tentare d’issarsi verso la divinità:
[…] Ai Celesti infatti non aggrada
Se qualcuno non serba l’anima
Trattenendosi, ma egli deve.[21]
Anche Cristo, allontanandosi dalla terra, invita gli uomini a rimanere nella distanza e quindi nella non conoscenza: “Io ho anchora cose assai a dirvi, ma voi non le potete hora portare”[22]. L’uomo non può cogliere la divinità neppure attraverso la mediazione della poesia, pertanto è costretto a cadere nelle tenebre, le quali appaiono come il volto severo di una madre; l’uomo deve lietamente prendere congedo dal giorno dove si spande il divino e il poeta non risulta più essere l’annunciatore del legame tra il mondo della luce e quello della notte[23].
Nella poesia Al Dio del sole Hölderlin fa riferimento all’epoca notturna, buia, dovuta alla scomparsa della divinità visibile; il poeta durante il tempo della distanza deve preparare un nuovo ritorno della divinità, attraverso la poesia che ha il compito di conservare e seguire le tracce di Dio[24], finché Egli non sia attuale:
E ancora adesso il mio sguardo lo insegue;
Ma lontano, da popoli devoti
Che lo adorano ancora, se n’è andato.
[…] finché non torna l’amato
E si accende in noi lo spirito e la vita.[25]
Così il poeta, di questo consapevole, deve volgere lo sguardo verso il basso ed “essere del mondo”[26], deve mantenere uno spirito mondano (Weltlich), ricordando nella poesia la misura della lontananza. Nell’inno Germania, Hölderlin formula il dovere della parola poetica, parola che non appartiene né al giorno né alla notte, ma sempre si pronuncia tra notte e giorno e una sola volta dice il vero e lo lascia inespresso; quindi la parola poetica è capace di comunicare e far conoscere il vero, ma lo lascia inespresso: lo dice, ma non lo esprime per mantenere intatta la distanza:
Ma quando più traboccante di purissime fonti
È l’oro e grave è diventata l’ira nel cielo
Deve fra giorno e notte
Finalmente un vero apparire.
Circoscrivilo con parole tre volte,
Ma ineffabile, com’è ora,
Deve restare, fanciulla innocente.[27]
Landolfi e l’impossibilitàScendiamo dunque e confondiamo la loro lingua,
perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro.
Gn, 11, 7
Il concetto hölderliniano di lontananza vive nelle pagine di Tommaso Landolfi, autore ossessionato dalla volontà di eliminare la distanza che separa l’uomo dalla parola poetica pura, in grado di aprire a nuove forme di comunicazione e conoscenza. Landolfi trasferisce i fallimenti di questa ricerca in capo ai protagonisti delle sue prose, accomunati dalle stesse fobie, dalla medesima incapacità di possedere una conoscenza che vada al di là dell’esperienza già chiusa del loro mondo.
I primi tentativi poetici e le due raccolte di poesie pubblicate negli ultimi anni di vita, hanno un’incidenza ridottissima sulla produzione letteraria di Landolfi, quasi interamente dedicata alla prosa. Nonostante questo, nelle opere narrative è presente, in modo ossessivo, la ricerca ideale della parola poetica: raffigurazione carnale di essa sono le figure femminili, caratterizzate da un linguaggio oscuro, incomprensibile; sono personaggi in grado di oltrepassare la barriera del significato e accedere ad un linguaggio più profondo, capace di scavare la realtà, naturale nel senso che non si ferma alla semplice descrizione dell’immagine, ma capace di andare oltre, cogliere quello che si nasconde, insomma dare la pura conoscenza di un qualcosa di non solo inesplicabile, ma financo recesso: la voce femminile a questo punto può essere interpretata come un’allegoria, la quale, basandosi anche su cosa ci suggerisce Gadamer sul piano teologico, viene usata per portare alla luce verità valide, ma nascoste.
Citiamo alcune di queste figure per comprendere il loro valore di portatrici di una conoscenza nuova. Nella prima raccolta di racconti compare una figura femminile la cui forza allegorica non può essere taciuta: la donna della pozzanghera in La piccola apocalisse. È bionda, dalle labbra carnose e accoglienti, appare all’improvviso ad un gruppo di amici ed accompagna uno di questi in una passeggiata dai toni onirici; il protagonista maschile avverte che tra loro vi è lontananza, una distanza non tanto fisica, ma provocata da un difetto, nella figura maschile, di comprensione: usano codici linguistici completamente differenti; per la donna il segreto delle cose è contenuto nei colori e nella luce che emanano, nell’uomo, anche se non è esplicito nel racconto di Landolfi ma è intuibile, le cose appaiono così come sono, non hanno quasi il bisogno di essere descritte aldilà della loro apparenza:
“Non so che siano la bontà e la protervia, l’orgoglio e l’umiltà: degli uomini e delle cose conosco solo i colori, o piuttosto le luci (giacché ciascuna luce ha un colore). Non intendo l’espressione dei loro volti, i loro gesti, ma il colore degli abiti e delle pelli […] Ciò che gli uomini chiamano avarizia e gioia, dolore e terrore, sono per me luci azzurre o verdi, rosee o gialle. […] E di colori ce n’è tanti, quante sono le stelle del cielo. Dio mio, come farti capire?”[28]
L’uomo rimane, nonostante l’incomprensione, ammaliato dal suono malinconico della voce di lei, le sue parole vengono avvertite, soltanto udite, si poggiano dentro di lui come “falde leggere”, ma non danno nessuno scarto in avanti per raggiungere la conoscenza che possiede la figura femminile; lei allora, per ovviare all’incomunicabilità, cerca di adottare un codice linguistico a lui affine, ma questo depotenziamento non porta alla comprensione:
“Ho imparato, tuttavia, il linguaggio degli altri e perché tu, che non conosci ancora bene il mio, possa capirmi meglio, me ne servirò, sebbene imperfettamente, con te. Ma tradurre una luce o un colore è impossibile, e sappi anche che niente si può tradurre perché niente ha due significati o due vite”.[29]
Emblema di questa incomprensione è la passeggiata notturna, quando la donna descrive, in maniera del tutto opposta al senso comune, i fatti nei quali s’imbatte: parla d’amore infelice e corruzione davanti a due giovani innamorati, di opulenza e fasto terreno davanti ad una madre coperta di stracci con il figlio malato, di purezza per una prostituta, di amore felice per una coppia che si dice addio, di gioia e serenità davanti ad una madre che muore; ai dubbi dell’uomo davanti a tali affermazioni, la donna risponde:
“Credi che mi sia sbagliata. Tanto peggio, allora: t’avevo prevenuto che né dalla mia né da alcun’altra lingua si può tradurre. […] quando capirete dunque che non ci sono al mondo esseri più puri delle donne agli angoli delle strade; che non c’è cosa più bella (e gioia più grande) della morte di nostra madre?”[30]
Quella della donna è una voce che svela sensi nascosti, che annulla le distanze del tempo, che conosce colori e luci. “È una voce che non distingue e non attribuisce, non elegge e non sentenzia: è la voce di una lingua edenica, la lingua intatta dal peccato originale, al di là del bene e del male, prima che il nome intervenisse a segnare le differenze, a interrompere la corrente osmotica in cui tutto si comunica, a portare ordine apparente e anche a gettare le premesse di babele”[31]. La donna manifesta un linguaggio che riesce ad essere fonte di conoscenza aldilà del significato; la voce femminile, allegoria della poesia, è metafora della possibilità di fuggire dall’inganno del significato, il quale risulta essere un elemento aggiunto dopo Babele per tentare di nuovo la comprensione, ma questa risulta mediata dal significato stesso e non è più frutto di una comunicazione immediata e naturale.
Un’altra donna emblematica in questo senso è Gurù, la ragazza con i piedi di capra de La pietra lunare. Anche lei, infatti, è lontana da una qualsivoglia comunicazione che si avvalga di significati; le forze della natura le parlano attraverso, componendo nenie incomprensibili, conosce le rocce e le piante del bosco dando prova di una profonda sapienza naturalistica:
“Sono mie amiche, non le calpestare” diceva con una certa leziosaggine. “Ecco là il piccolo erino, più in là il galanto, e il colchico, il colchico! E ancora il miagro, l’umbella, e c’è anche il psillo”…[32]
Gurù comprende il linguaggio degli animali e si esprime in un modo irrequieto, senza punteggiatura e associando frasi apparentemente prive di connessione logica. Gurù è donna di tante letture ed è, per la sua poliforme e libera natura, fonte e fucina di poesia: non a caso il compagno di lei invaghito, Giovancarlo, è un giovane poeta. Al termine di questo romanzo Landolfi inserisce un’appendice intitolata Dal giudizio del Signor Giacomo Leopardi sulla presente opera: si tratta di un sapiente montaggio di brani dello Zibaldone grazie al quale fa dire a Leopardi che la poesia ancora da scrivere ha irrimediabilmente divorziato dalla natura e che la letteratura può esistere solo con artifici in un tempo, quello moderno, troppo lontano dall’età dell’oro dei poeti. Gurù allegorizza dunque la poesia, libera e senza inibizioni, allo stato brado, ripristina i contatti usurati tra le persone e le cose, parla una lingua più coinvolgente e profonda, più autentica e duratura[33]; mentre Giovancarlo è il poeta di tutti i giorni che si esprime con la sola lingua degli uomini, consapevole di questo cerca di afferrare, senza riuscirvi, il tipo di linguaggio poetico di Gurù.
Sull’importanza allegorica delle figure femminili, si possono riportare almeno altri due esempi significativi che testimoniano la fedeltà di Landolfi a questo tema: i personaggi femminili di Racconto d’autunno[34] e La muta[35]. Nel primo, romanzo del ’47, troviamo una donna, Lucia, che abita in segreto, con l’anziano padre, lo spettrale maniero che ospita i fatti narrati. Dopo tanti anni passati in silenzio anche Lucia si abbandona ad un linguaggio cantilenante che ha la forza di un fiume in piena; lei conosce tutte le lingue, dice di sapere tante cose e di avere capacità straordinarie: riesce ad udire ciò che ancora non viene pronunciato, a sentire un rumore non ancora provocato, a riconoscere l’odore buono dei morti. La lingua che conosce e attraverso la quale si esprime è, però, una lingua in disuso, decadente. Lucia morirà, uccisa dai militari, prima di poter insegnare queste cose al narratore protagonista, da questo si presuppone con forza un altro elemento: il linguaggio poetico è irraggiungibile.
La giovane quindicenne protagonista de La muta, è un’appassionata di poesia e comunica con il narratore protagonista attraverso lo scritto e le letture che fanno in comune. Proprio la purezza della giovane, non contaminata dal linguaggio comune, scatenerà la follia del narratore che, per non infettarla attraverso una possessione fisica, la ucciderà.
Per tutte queste figure femminili, e dunque per le opere che le ospitano, l’interpretazione allegorica è imprescindibile. La voce che proviene dalla donna della pozzanghera, da Gurù e da Lucia è un canto, una nenia, un flusso musicale, un suono prima che una parola, qualcosa che sta prima e oltre il significato e che ha il potere di traghettare il lettore continuamente da un universo all’altro[36]; ma i protagonisti e i narratori, tutti uomini, non riusciranno mai a raggiungere la nuova dimensione del linguaggio e le storie si concludono, per costoro, sotto il segno dell’impotenza[37]: la bionda dalle labbra carnose sprofonda in una pozzanghera, Giovancarlo fa ritorno in città, alla sua vita di sempre, e non ha posseduto Gurù se non in sogno, Lucia muore e la giovane muta è uccisa proprio da colui che voleva averla. In Landolfi quindi è il desiderio di possessione a portare con sé l’idea di morte. Simone Weil ritiene che tale sentimento sia cattivo e menzognero: menzognero in quanto crea un legame e distorce la percezione, ricoprendo la cosa desiderata d’una coltre immaginaria di pensieri e aspettative che ne impediscono una visione obiettiva; cattivo in quanto il desiderio implica il possesso, la fagocitosi[38]. In Landolfi però esso non è né menzognero, né cattivo, semplicemente il desiderare l’oggetto implica la sua sparizione; dunque la distanza si manifesta attraverso un’impossibilità: nel momento in cui i protagonisti desiderano le figure femminili, esse scompaiono.
ConclusioniSi comprehendis non est Deus.
Agostino, Sermo 52
Se la ricerca attraverso la poesia non porta a nessuna conoscenza, forse l’uomo non dovrebbe attuarla, in quanto risulterebbe tautologica.
Paolo nell’Areopago afferma che Dio creò il mondo perché l’uomo lo abitasse su tutta la sua estensione e i confini che vi sono servono per delimitare lo spazio in cui cercarLo. Tale discorso pare benedica l’atto della ricerca, nonostante condotto a tentoni; ma quelle parole hanno senso a questo punto della nostra esistenza, quando sembra che la ricerca si sia mostrata tautologica? Nell’era moderna viene da affermare che abbia soffiato troppo vento e che la buona novella si sia smentita, rendendo la sopravvivenza sopra la terra la più grande miseria[39]; si è schiavi di un mondo dal tempo annunciato finito, ma che continua eternamente[40], dove l’uomo è indaffarato in una ricerca inconcludente quanto il Principio d’indeterminazione di Heisenberg.
Un poeta ha riassunto nella sua ultima opera l’impossibilità della conoscenza attraverso la parola poetica, la quale descrive solo una ricerca tautologica. Egli è il Caproni de Il franco cacciatore e de Il Conte di Kevenhüller. Ci serviamo della sua esperienza poetica per riunire in una conclusione il discorso landolfiano dell’impossibilità di possedere la parola poetica in grado di aprire a nuove forme di conoscenza e il concetto hölderliniano della poesia intesa non come mezzo conoscitivo, ma come ricordo di una distanza.
Le due raccolte caproniane sono articolate intorno alla metafora venatoria, rifacendosi ad una tradizione risalente a Dante, il quale la desume dalle Sacre Scritture. La caccia è intesa come un atto di ricerca della conoscenza mediante la poesia, è il soggetto di azioni narrative cariche di teatralità e finzione, rese in scrittura tramite l’estremizzazione della decostruzione del verso. Enjambements, scalini, inceppamenti nella fluidità non tendono a mostrare l’essenzialità[41], ma dichiarano che la realtà, essendo inconoscibile, può soltanto essere indicata nella sua forma incompleta e spezzata, contornata poeticamente dall’immagine psicologica della nebbia. Temi elevati, quesiti religiosi sono svolti nell’arco di pochi versi, come fossero una battuta aforistica[42]; Caproni arriva in queste opere all’estrema frammentazione del verso attraverso la separazione dei cola costitutivi e tale frammentarietà ha un senso dato dalla volontà di rappresentare l’impossibilità di concludere la caccia, quindi la ricerca della conoscenza; caccia rivolta alla parola (Onoma, come si ritrova nelle poesie de Il Conte), a Dio e all’Io, ma che alla fine è incompiuta, non verificandosi l’uccisione della Bestia, giacché autoreferenziale: nel momento in cui il cacciatore ha sotto tiro la preda, preda diviene egli stesso.
Un certo equilibrio al testo poetico è dettato se si considera la rima come elemento di unità oltre la frammentarietà e gli spazi bianchi[43], ma è solo illusione, poiché quel che balza sempre agli occhi è la disarmonia del verso spezzato. Caproni frantuma come volesse tentare di sciogliere le parole versificate all’interno del bianco della pagina e annullarle, per disattivare la loro capacità negativa di dissolvere l’oggetto “come la nebbia gli alberi”[44]. Si pone in questi termini l’inattuabilità di trovare una parola poetica capace di portare alla conoscenza, ma si pone pure il tentativo ultimo di eliminare la parola, creatrice tra l’altro di finzioni, affinché si mostrino gli oggetti non sporcati dalla nominazione. Caproni posa la conoscenza non sulla ricerca di una parola originaria e prebabelica, ma oltre di essa, nel non detto, nella sua eliminazione. La frammentazione del verso quindi ha una duplice funzione: indicare l’incompletezza della realtà e mostrare la possibilità di dissolvere la parola e poter così cogliere, aldilà del nominare, l’oggetto nella sua essenzialità; ma tale azione risulta infruttuosa.
La caccia è una situazione di confine, la ricerca della parola, di Dio, dell’Io e quindi della conoscenza, porta il protagonista in luoghi di limite, oltre i quali non si riesce ad andare, costringendo l’azione ad un esito aporetico[45]. Tale impossibilita di risoluzione conduce Caproni a un nichilismo e ad una “ontologia negativa”[46]; il poeta livornese ci dimostra che la parola non può condurci in nessun altro luogo oltre quello in cui l’uomo sopravvive come in un limbo. Viene da affermare a questo punto che la poesia non può essere altro che rimembranza e non conoscenza: lo scarto in avanti che sarebbe frutto di una cognizione, non è possibile attraverso la parola poetica, perché essa è capace solo di comunicare frammenti e descrivere luoghi mediati da una situazione psicologica; l’unica possibilità di “trovare” la conoscenza sarebbe nel “non nominarla”[47] e negarla.
Il confine da dove nasce l’ispirazione poetica di Caproni pare un deserto da cui mandare delle lettere senza un destinatario, un mondo in cui ogni significato e ogni possibilità di conoscenza si è perduto definitivamente, lasciando solo la consapevolezza dell’impossibilità di uscire dalla prigione di un’esistenza nella quale le parole possono descrivere soltanto il poco di una realtà frammentata; Caproni non prende in nessun modo in considerazione la qualità biologica che permette all’uomo di comunicare attraverso il linguaggio[48].
La ricerca della conoscenza, rappresentata dalla caccia, è portata avanti da un protagonista che è in una condizione di totale inappartenenza ed estraniazione:
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.[49]
La caccia diviene un viaggio che non porta a nessuna conoscenza, non è il viaggio odisseo, e l’unica scoperta è quella di una mise en abîme del cacciatore che si ritrova cacciato, del predatore predato, dell’uccisore ucciso; questa è una tematica presente fin da Giordano Bruno, ma nel Nolano vi è comunque una possibilità di uscita, non espressa da Caproni: quella della palingenesi, della rinascita dopo la distruzione.
Al poeta, secondo Caproni, hanno “fucilato / la bocca”[50] e gli è permesso solo riscrivere quello che gli altri già hanno scritto (argomento anche di Manzoni e Borges); è definitivamente così preclusa ogni conoscenza attraverso la poesia. La caccia rappresentata poeticamente, nonostante metafisica, manca di una voce speranzosa, la parola conduce su strade false, ad un linguaggio ingannevole e di spaesamento:
C’è anche chi ha preso,
pare, una strada falsa.
Chi è precipitato. È facile.[51]
L’ingannevolezza della parola è dettata soprattutto dal fatto che essa non permetta di giungere alla conoscenza e permetta solo di dire che Dio è come una statua di gesso che non si lascia conoscere[52]; il Dio di Caproni deve essere cercato paradossalmente dove non si trova: “cercatemi dove non mi trovo”[53] e la poesia non ha che la sola potenzialità di indicare una conoscenza che detta un’impossibilità di conoscenza; tale consapevolezza, leggendo anche Abbagnano, conduce Caproni a rappresentare poeticamente la mise en abîme della caccia e la solitudine dell’uomo[54]. Ad ogni modo la ricerca della conoscenza non viene interrotta dopo acquisita la consapevolezza sopradetta, anzi si protrae hölderlinianamente tra il giorno e la notte, tra “l’ultima rondine / e la prima nottola”[55], pur continuando ad essere vana[56]. La poesia di Caproni è incentrata sulla sua sfiducia verso la parola che non può essere l’aiuto per condurre l’uomo in una ricerca di conoscenza; questo è un sentimento nutrito prima che diventasse “di moda con Blanchot”[57] e che porta a descrivere il poeta come uno “spatriato”, “portato via / dal luogo della sua lingua”, in grado di poetare solo il brancolare e l’urlare, ritrovandosi “Peggio che se fosse muto”[58].
Concludendo: abbiamo visto che, essendo la poesia “impotente” nel raggiungimento della conoscenza, in Hölderlin il poeta ha il compito di mantenere la distanza attraverso il ricordo dei segni lasciati da Dio[59] e deve insegnare all’umanità la capacità per viverla al meglio, vi è insomma la necessità da parte del poeta di tenere la misura affinché non si perdano le tracce del divino. Anche in Landolfi la distanza s’impone come insuperabile e affinché resti il desiderio di possedere l’oggetto desiderato, tale distanza deve rimanere incolmabile, poiché “se la distanza tra il desiderio e il suo appagamento è per principio abolita, il desiderio scompare”[60], portando l’uomo ad una fine negativa che si esplicherebbe nell’abolizione totale del tentativo dell’atto di conoscenza; questo significherebbe la “cessazione dell’Azione” umana[61]. In entrambi gli autori, dunque, si evince che alla poesia resta dare il messaggio di abitare la distanza; essa è vissuta dal poeta in parte rassegnato e in parte consapevole della sua importanza:
Non sei forse congiunto a tutto ciò che vive?
[…]
E allora va’! va’ pure inerme
Lungo la vita e non temere nulla![62]
[1] Per questa distinzione cfr. voce Gnoseologia di D. Marconi, in Dizionario filosofico, Milano, Garzanti, 1993.
[2] Cfr. più ampiamente su tale prospettiva, J.-L. Marion, L'idolo e la distanza, Milano, Jaca Book, 1978. Sul concetto di distanza v. anche P. A. Rovatti, Abitare la distanza. Per una pratica della filosofia, Milano, Cortina Raffaello, 2007; F. Eugen, Prossimità e distanza. Saggi e discorsi fenomenologici, Pisa, ETS, 2006.
[3] “… allora io avevo una sorta di religioso e superstizioso, amore e terrore delle parole (che mi è rimasto poi a lungo), sulle quali concentravo tutta la carica di realtà, invero scarsa, che mi riusciva scoprire nei vari oggetti del mondo; più semplicemente, le parole erano quasi le mie sole realtà”. T. Landolfi, Prefigurazioni: Prato, in Ombre, Milano, Adelphi, 1994, p. 103.
[4] Nella lirica Festa di pace, dalla raccolta Elegie, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, Milano, Mondadori, 2001, p. 881, la natura intrinseca dell’uomo è essere un colloquio (vv. 92-3), questo perché la storia stessa dell’uomo è linguaggio, esperienza reciproca, ascolto e si conchiuderà con il raggiungimento della compiuta pienezza etica ed estetica; in questi termini è il linguaggio a determinare l’uomo, e non viceversa. Su questo concetto accenniamo qui alle posizioni diverse di Heidegger e Buber. Il primo afferma che “L’essere dell’uomo si fonda nel linguaggio: ma questo accade autenticamente solo nel colloquio. Quest’ultimo non è tuttavia soltanto un modo in cui il linguaggio si attua, bensì solo come colloquio il linguaggio è essenziale” (M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, Milano, Adelphi, 1994, p. 47). Per Heidegger il colloquio risulta essere l’autenticità del linguaggio e su di esso si fonda l’esistenza. Buber afferma che non vi è distinzione tra colloquio e linguaggio; quindi l’uomo non è in colloquio, ma è esso stesso colloquio: “Il nostro essere parlati è il nostro esserci” (M. Buber, in “Hölderlin Jahrbuch”, 11, 1958-60, p. 210).
[5] “A un solo patto un essere umano può ripetere una qualsivoglia parola: a patto che gli si avvizzisca tra le labbra. L’assiuolo invece ripete la sua sempre nuova […] Ma a noi che ascoltiamo e sappiamo, il fiato è mozzato a ogni nota: riuscirà, non riuscirà? […] Sembra, in una parola, che ogni volta l’assiuolo dimentichi ciò che ha detto un momento prima e che fra le note della sua evocazione abbia il tempo, ogni volta, di morire. […] l’uomo, se ripetesse tante volte una parola, anche l’uomo più fidente, non saprebbe serbare quel timbro gioioso e sereno e alla fine la ripeterebbe con tristezza”. Landolfi, “Night must fall”, in Dialogo dei massimi sistemi, Milano, Adelphi, 2007, pp. 169-70.
[6] Cfr. G. Steiner, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Milano, Garzanti, 2004.
[7] Sulla capacità della traduzione di creare una terza lingua v. J. Lotman, La Semiosfera, Venezia, Marsilio, 1985. Lotman intende la traduzione come passaggio da una semiosfera all’altra (p. 59). La semiosfera è quello spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile l’esistenza della semiosi” (p. 58). Concetto chiave in questo senso è quello di confine. Si tratta però di un limite “poroso”, che, come la guaina di una cellula, è permeabile, e dal punto di vista culturale va pensato come luogo di continui processi di traduzione: “il confine semiotico è la somma dei ‘filtri’ semiotici di traduzione. Passando attraverso questi, il testo viene tradotto in un’altra lingua (o lingue) che si trovano fuori dalla semiosfera data” (p. 59). La funzione del confine della semiosfera è dunque quella di limitare la penetrazione e filtrare e trasformare, quel che fa Holderlin, ciò che è esterno in interno; esso si caratterizza allora come uno spazio in cui vi è la potenzialità della commistione dei linguaggi, i quali, passando attraverso una loro destrutturazione e primitivizzazione, possono portare a processi di creolizzazione e ridenominazione che favoriscono la nascita di nuovi linguaggi (per quest’ultimo concetto cfr. P. Fabbri, Elogio di Babele, Roma, Meltemi, 2003).
[8] Landolfi, Des mois, in Opere II, Milano, Rizzoli, 1992, p. 681.
[9] Il concetto di armonia lo ricaviamo da L. Spitzer quando parla della Stimmung nel libro L’armonia del mondo, Bologna, Il Mulino, 2006.
[10] Cfr. Hölderlin, Iperione, Milano, Feltrinelli, 1981.
[11] La morte di Empedocle è il sacrificio espiatorio del filosofo di Agrigento che, sulla sommità del monte sacro, invoca arditamente la folgore dell’ispirazione profetica e si getta nel cratere infuocato dell’Etna, affinché l’umanità si rigeneri per effetto del suo olocausto. Empedocle è il poeta che si sacrifica per la rinascita umana sotto richiesta degli Dei, è il vate che, consapevole della propria missione, si offre come vittima alla divinità.
[12] Cfr. M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1975.
[13] O. Lagercrantz, Scrivere come Dio, Milano, Marietti, 1987, p. 88.
[14] L. Mittner, Storia della letteratura tedesca II – Tomo terzo, Torino, Einaudi, 2002, p. 722.
[15] R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, saggio introduttivo in F. Hölderlin, Sul tragico, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 27.
[16] Per una definizione di aorgico v. Note all'Antigone in Hölderlin, Sul tragico, Milano, SE, 2004, pp. 141-8; in sintesi possiamo dire che l’Universo è governato da due forze opposte, entrambe figlie della Natura: l’organico e l’aorgico. La prima è una forza che unisce e che determina le figure particolari; l’altra è quella che divide e che ha la potenza infinita e panica della natura ed è al di fuori d’ogni organizzazione che potrebbe dargli la coscienza e l’attività formatrice umana, cioè l’arte. L’organico, in termini categoriali, è il particolare, il limitato; l’aorgico è l’universale, l’illimitato; il primo è il principio d’ordine, il troppo formato, l’Allzuförmliches; il secondo è privo di ogni forma, è il Proteo della Natura, l’Unförmliches. L’aorgico è l’infinito di fronte al quale ci si sente perduti, ma nello stesso tempo attratti, è il Sublime della natura.
[17] Cfr. Marion, L'idolo e la distanza, cit.
[18] Note all’Edipo in Hölderlin, Sul tragico, Milano, SE, 2004, pp. 135-41.
[19] M. Heidegger, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976, p. 131.
[20] Il pericolo dovuto alla vicinanza dell’uomo al divino è presente anche nell’opera della mistica francese Simone Weil, la quale legge la lontananza come gesto d’amore di Dio per evitare hölderlinianamente all’uomo di rimanere arso: “E’ Dio che per amore si ritira da noi perché ci sia possibile amarlo. Perché se fossimo esposti ai raggi diretti del suo amore, senza la protezione dello spazio, del tempo e della materia, saremmo evaporati come l’acqua al sole”. In S. Weil, L’ombra e la grazia, Milano, Bompiani, 2002, p. 59.
[21] Mnemosine, da Quaderno in folio di Homburg, in Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 1111.
[22] Gv. 16, 12.
[23] Qui si fa riferimento agli Inni alla notte di Novalis, nei quali si afferma sì la volontà lieta di allontanarsi dal giorno, ma anche che il poeta è colui che lega i due mondi, notturno e diurno, umano e divino, affermazione opposta all’ultima stagione hölderliniana.
[24] Le tracce che sono lasciate all’uomo come doni sono il pane e il vino della celebrazione eucaristica, v. Pane e vino (v. 132), da Quaderno in folio di Homburg, in Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 931.
[25] Al Dio del sole, da Manoscritto per Schiller – 30 giugno 1798, in Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 683. Si parla di Apollo dai riccioli d’oro, dio del sole che, partendo, lascia l’uomo nel lutto e nelle tenebre in attesa di una rinnovata venuta.
[26] L’unico, da Quaderno in folio di Homburg, in Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 973.
[27] Germania, da Quaderno in folio di Homburg, in Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 1029.
[28] Landolfi, La piccola apocalisse, in Dialogo dei massimi sistemi, cit., pp. 123-24.
[29] ivi, p. 124.
[30] ivi, p. 135.
[31] M. Carlino, Landolfi e il fantastico, Roma, Lithos, 1998, p. 99.
[32] Landolfi, La pietra lunare, Milano, Adelphi, 1995, p. 83.
[33] Cfr. Carlino, Landolfi e il fantastico, cit., pp. 111-12.
[34] Landolfi, Racconto d’autunno, Firenze, Vallecchi, 1947.
[35] Landolfi, La muta, in Tre racconti, Firenze, Vallecchi, 1964.
[36] Cfr. R. Sacchettini, L’oscuro rovescio. Previsione e pre-visione della morte nella narrativa di Tommaso Landolfi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, p. 163.
[37] Cfr. Carlino, Landolfi e il fantastico, cit., p. 104.
[38] Cfr. S. Weil, Quaderni 1, Milano, Adelphi, 1982, p. 117. Sul concetto di desiderio v. anche C. Dumoulié, Il desiderio: storia e analisi di un concetto, Torino, Einaudi, 2002; R. Barbaras, Le désir et la distance, Vrin, Paris, 1999.
[39] Cfr. S. Kierkegaard, Diario, Brescia, Morcelliana, 1948.
[40] Cfr. S. Quinzio, Diario profetico, Milano, Adelphi, 1996, p. 65.
[41] Cfr. P. V. Mengaldo, Per la poesia di Giorgio Caproni, introduzione a G. Caproni, L’opera in versi, Milano, Mondadori, 1998, p. XXXIX.
[42] Cfr. A. Dei, Aforismi in versi, in Gli anni ’60 e ’70 in Italia. Due decenni di ricerca poetica, a cura di S. Giovannuzzi, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2003, p. 291.
[43] Cfr. S. Pastore, La frammentarietà, la continuità, la metrica. Aspetti metrici della poesia del secondo ‘900, Pisa – Roma, Istituti editoriali poligrafici internazionali, 1999, p. 26.
[44] Caproni, Le parole, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 460.
[45] “Dove non si può più dire / … / chi sia il perseguitato / e chi il persecutore”, in Geometria, ivi, p. 484. Si rappresenta un’azione in cui il soggetto agente non riesce mai ad accedere all’oggetto della sua ricerca ed in cui egli stesso si ritrova come oggetto.
[46] I. Calvino, Il taciturno ciarliero (per Giorgio Caproni) in Saggi, Milano, Mondadori, 1995, p. 1024.
[47] Caproni, Versi controversi, in Il Conte di Kevenhüller, in Id., L’opera in versi, cit., p. 622.
[48] Tale capacità è descritta, dal punto di vista antropologico, da R. Dunbar, in Dalla nascita del linguaggio alla Babele delle lingue, Milano, Longanesi, 1998.
[49] Caproni, Biglietto lasciato prima di non andar via, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 427.
[50] Caproni, Il murato, in Il muro della terra, in Id., L’opera in versi, cit., p. 341.
[51] Caproni, All’alba, in Il muro della terra, in Id., L’opera in versi, cit., p. 321. Anche il verbo “pare” connota maggiormente il significato della falsità. Parere qui non ha più il significato dantesco di Tanto gentile e tanto onesta pare, ma il significato di falso ed ingannevole, a tal proposito si può guardare G. Contini, Un’idea di Dante, Einaudi, Torino, 1976, pp. 21-31.
[52] Caproni, Telemessa, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 405. Qui in nota poniamo solo come citazione comparativa il Landolfi di Un dio di gesso, da Il tradimento, Milano, Rizzoli, 1977.
[53] Caproni, Indicazione sicura, o: Bontà della guida, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 438.
[54] Cfr. N. Abbagnano, Fra il tutto e il nulla, Milano, Rizzoli, 1973.
[55] Caproni, L’ultimo borgo, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 436.
[56] Cfr. Caproni, Falsa pista, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 433.
[57] Vedi in particolare i seguenti articoli di Caproni: Scrittura prefabbricata e linguaggio, Il quadrato della verità e La precisione dei vocaboli ossia Babele, apparsi sulla “Fiera letteraria”, ristampati in Caproni, La scatola nera, Milano, Garzanti, 1996.
[58] Caproni, Lo spatriato, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 461.
[59] “Pane è della terra il frutto, ma è benedetto dalla luce, / E dal Dio che tuona viene la gioia del vino.” Da Pane e vino, da Quaderno in folio di Homburg, in Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 957.
[60] F. Ciaramelli, La distruzione del desiderio, Bari, Edizioni Dedalo, 2000, p. 71.
[61] Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, Adelphi, 1996, p. 541.
[62] Hölderlin, Coraggio del poeta, da Odi – Fascicolo di Stoccarda, in Id., Tutte le liriche, cit., p. 795.
La teoria della conoscenza rappresenta da sempre uno dei luoghi più complessi e stratificati della riflessione filosofica o, latu sensu, gnoseologica. Tuttavia, ai fini euristici del presente saggio, possono essere individuati almeno due grandi modelli di lungo periodo, quello iconico e quello proposizionale[1].
Per il primo modello, che ha origine nello stoicismo e prevale nella filosofia europea del Seicento per arrivare fino a Kant e all’idealismo tedesco, la conoscenza è un’immagine mentale adeguata dell’oggetto di conoscenza. Per il secondo modello, cha da Aristotele attraversa la filosofia medievale e torna con forza nel positivismo e nel Novecento, una conoscenza è una proposizione vera. Quest’ultimo modello è sicuramente più adeguato per la conoscenza scientifica, in quanto oggetto del conoscere non sono soltanto le cose, ma anche e soprattutto le loro relazioni. Il modello iconico, invece, apre a forme di conoscenza più ampie, nelle quali anche la poesia può ritagliarsi uno spazio, dal momento che si fa riferimento ad immagini e che i prototipi del modello sono la percezione e la memoria; inoltre, il modello iconico, proprio nella riflessione filosofica più recente[2], consente di tematizzare un nodo concettuale, quello della distanza, che è centrale al piano della nostra meditazione sul rapporto tra poesia e conoscenza. Nel modello iconico la questione della distanza emerge come profondità tra l’atto cognitivo e la cosa conosciuta, come diaframma tra soggetto conoscente ed oggetto della conoscenza: luogo e spazio concettuale, di volta in volta, da superare, ridurre, percorrere, colmare o misurare, la distanza assurge, in tale prospettiva, a trascendentale della conoscenza. Essa merita, pertanto, di essere elevata a cifra costitutiva dell’interrogazione che coinvolge, in questo scritto, la poesia ed il poeta, considerato allora quale soggetto conoscente: sarà il poeta a servirsi della poesia quale strumento privilegiato per la ricerca di conoscenza.
Se la distanza costituisce, dunque, la leva logica e l’istanza tematica della nostra analisi e riflessione, occorre investigarla entro il dettato poetico di autori che abbiano costruito, proprio a partire dalla problematica che il tema della distanza sa aprire, nella particolare accezione cui abbiamo fatto poco sopra riferimento. In tale ottica, analizzeremo l’esperienza di due scrittori, lontani tra loro e per questo almeno in parte difficilmente accostabili, Tommaso Landolfi e Friedrich Hölderlin. Esponente del Novecento italiano con la sua prosa ricercata e originale il primo, poeta tedesco, tra i massimi della letteratura mondiale, il secondo, entrambi accomunati da un rispetto sacro per la parola ed entrambi traduttori. Essi confidano nella capacità della poesia di aprire una porta su un mondo sconosciuto e vedono nella parola poetica la fonte di una conoscenza ulteriore. Landolfi è ossessionato dalla ricerca del linguaggio puro, originario, ancora non ingabbiato dal significato, il quale, legando la parola all’oggetto, spoglia la prima della sua forza vera ed intrinseca. Hölderlin vede la parola come un involucro capace di contenere il fuoco divino e la poesia come potenziale strumento per la conoscenza di Dio. In entrambi, dunque, la poesia può consentire di trascendere i limiti dell’esperienza umana ed in questo senso portare alla conoscenza. Qui la lontananza tra i due sembra assottigliarsi, ed in questo spazio, solo in questo, centriamo la nostra analisi.
La parola, tinta di sacralità, verso la quale si prova timore reverenziale, è la realtà per Landolfi, più materiale degli stessi oggetti che designa[3]; la parola quindi diviene l’oggetto e, in Hölderlin, persino l’uomo stesso; attraverso la parola poetica, inoltre, si raggiungerà l’unione etica ed estetica e il “colloquio” diverrà “canto”[4]; solo allora la storia terminerà e si realizzerà una coscienza universale dell’umanità, la quale diverrà linguaggio comune e colloquio comune. In Landolfi la parola poetica è una parola prebabelica in grado di aprire forme nuove di comprensione e comunicazione, in grado di essere ripetuta[5].
Ci troviamo davanti a due traduttori, e non è un caso. Chi assegna un ruolo così centrale alla parola, si trova inevitabilmente a lottare per ricercarla nella purezza della sua origine; tradurre diventa un modo per unire due lingue creandone una terza[6], comune, che mantiene integri i tratti distintivi di due tradizioni[7]: così Hölderlin, che nelle traduzioni in tedesco dei classici greci tenta di mantenere vivo il fuoco della grecità e la razionalità occidentale e così Landolfi, che nella sua opera autobiografica ci confessa che da ragazzo avrebbe voluto inventare una lingua personale: “mi pareva necessario cominciare di lì; una lingua vera e propria, con tutte le sue regole”[8].
La poesia, come fonte di comunicazione e conoscenza, è dunque oggetto di profonde ricerche. Ci proponiamo qui di indagare le modalità di questa ricerca e le possibili conseguenze. A cosa può portare una ricerca di questo tipo?
Hölderlin e la necessitàSanto è Dio, che vuole essere conosciuto ed è conosciuto dai suoi.
Corpus Hermeticum, I, 31
Poesia e conoscenza divengono, nell’opera di Hölderlin, parole indissolubili fin dai primi scritti; già nell’Iperione infatti si pone la conoscenza come potenzialmente raggiungibile soltanto fuggendo dai limiti umani e unendosi alla natura; mediante tale unione si perviene all’armonia tra mondo terreno e celeste, stabilendo così l’ordine cosmico[9]; l’atto dell’uomo è l’abbandono nella natura, essere una cosa sola con tutto ciò che vive, e rientrare nel tutto che la natura è[10]. La smania di ritorno all’interno della vita unica, eterna e ardente è un movimento gioioso condotto attraverso l’ispirazione poetica.
Nell’abbandono è implicito un desiderio di morte, centrale anche nell’Empedocle hölderliniano[11], tragedia della prima maturità. Qui la conoscenza è volontà d’irrompere nel mondo degli Invisibili, unirsi all’elemento del fuoco per raggiungere l’intimità della comunicazione con il divino e la poesia indica la via da seguire per raggiungere quel mondo[12]. Si potrebbe dire, come Olof Lagercrantz scrive per Dante, che Hölderlin pone il poeta come mediatore tra il divino e l’umano; Dio diviene così un segno da interpretare ed è compito del poeta ricercare le tracce per tradurle[13]. Soltanto per intercessione del vate i mortali possono partecipare ai doni divini e solo il poeta è in grado di ridurre la forza distruttiva della folgore avvolgendola nel canto, come un nuovo Orfeo, nell’involucro protettore della parola: “Questo apporto umano alla poesia ispirata dagli dei è esso stesso dono divino e nell’involucro appunto consiste il vero miracolo della poesia”[14].
Nella tragedia dell’Empedocle conduce alla morte la volontà di conoscere la vita nella sua essenza, volontà che permette di raggiungere l’unitezza e di passare dal sentimento alla conoscenza[15]. Ciò implica un’inversione che presuppone uno scambio di ruoli e di forze: l’umano, e quindi l’organico, acquisisce le forze illimitate, irrazionali, estatiche, della divinità, mentre il divino, l’aorgico[16], acquisisce il limite dell’uomo; più questa inversione è intima, più è violento lo scontro fra il divino e l’umano. La lotta è però impari: il lottatore divino è di gran lunga più forte, quindi il tentativo di simbiosi conduce alla constatazione lucida e tragica nello stesso tempo, dell’abisso che allontana dei e mortali: la vicinanza tra le due sfere è illusoria. La conoscenza così viene ad essere il riflesso della distanza più che dell’unione. Qui è già implicito lo scarto compiuto da Hölderlin nella maturità degli Inni, dove i poeti sono invitati a non abbandonarsi smisuratamente alla volontà empedocliana, alla vertigine e al bagliore del fuoco; la conoscenza e la comunicazione non è più assicurata dal poeta mediatore, ma deve compiersi tramite il mantenimento della distinzione delle due sfere, divina e umana. Anche la natura, amata, cantata, educatrice per eccellenza, diviene negli Inni l’eterna nemica dell’uomo, giacché essa lo attira aldilà di questo mondo[17].
L’uomo deve distogliersi dal mondo divino e dall’appello dell’ultimo Dio, il Cristo, che è scomparso con lo stesso gesto degli dei, i quali, assenti e infedeli, costringono l’uomo a interrogarsi sul senso sacro di questa infedeltà; quindi il poeta consapevole di tale senso sacro diviene il garante di questa separazione, della distinzione che deve essere fermamente mantenuta attraverso la purezza del ricordo divino. La poesia, che così diviene esclusivamente rimembranza, può disporre di un unico mezzo conoscitivo: la memoria di Dio; infatti Hölderlin afferma, in diversi punti della sua opera critica, che Dio e l’uomo, affinché il corso del mondo non abbia lacune e affinché il ricordo dei celesti non si perda, entrano in comunicazione sotto la forma dell’infedeltà in cui vi è l’oblio di tutto. A tal proposito possiamo rifarci all’Edipo Re, tragedia improntata, secondo Hölderlin, sull’allontanamento degli dei: il protagonista è costretto a trattenersi in disparte, a sopportare una doppia separazione, dal divino e dall’uomo, a serbare un luogo vuoto aperto alla misura della distanza, caratterizzata dall’infedeltà degli dei e degli uomini; tale spazio è da mantenere puro e vacante, affinché sia assicurata la distinzione delle sfere secondo l’esigenza espressa da Hölderlin[18].
L’esperienza ottenibile dall’abbandono al fuoco del cielo, non è solo pericolosa, ma anche falsa, in quanto pretende di essere comunicazione diretta con l’immediato, con il divino; l’immediato è impossibile ai mortali, infatti l’uomo, con la facoltà di conoscenza, può solo distinguere mondi diversi, perché la conoscenza è resa possibile esclusivamente dall’opposizione dei contrari. La poesia si deve far portatrice dell’opposizione e il poeta, non più il mediatore al quale era domandato di tenersi eretto dinnanzi a Dio, deve porsi di fronte all’assenza di Dio, deve istituirsi custode della lontananza senza smarrirsi in essa, deve accogliere, preservare l’infedeltà divina, la quale apre uno iato che costituisce il rapporto essenziale dei due mondi, deve resistere all’ispirazione degli dei che scompaiono e che lo attraggono nella loro sparizione, deve mantenere distinte le due sfere, vivendo la separazione come il luogo vuoto in cui si viene a formare il sacro, deve, attraverso il poetare, “misurare il ritiro”[19]. Se scomparisse la misura data dalla distanza, svanirebbe la possibilità di raffigurare e conoscere la divinità; essa si volta e si ritrae, come il gesto della Laura di Petrarca, ma tale atto, sebbene sia terribile, privi della presenza benevola degli dei, della familiarità della parola ispirata, respinga e faccia cadere nell’angoscia di un tempo svuotato, non è negativo, in quanto il poeta sosta davanti al desiderio che lo attrae verso la divinità e s’impone il dovere di contenersi per mantenere distinte le sfere. Nel formarsi di tale spazio, si ha il sacro[20].
Il poeta diviene l’eroe che mantiene la misura della distanza e l’uomo, per mantenere la sua integrità, non deve tentare d’issarsi verso la divinità:
[…] Ai Celesti infatti non aggrada
Se qualcuno non serba l’anima
Trattenendosi, ma egli deve.[21]
Anche Cristo, allontanandosi dalla terra, invita gli uomini a rimanere nella distanza e quindi nella non conoscenza: “Io ho anchora cose assai a dirvi, ma voi non le potete hora portare”[22]. L’uomo non può cogliere la divinità neppure attraverso la mediazione della poesia, pertanto è costretto a cadere nelle tenebre, le quali appaiono come il volto severo di una madre; l’uomo deve lietamente prendere congedo dal giorno dove si spande il divino e il poeta non risulta più essere l’annunciatore del legame tra il mondo della luce e quello della notte[23].
Nella poesia Al Dio del sole Hölderlin fa riferimento all’epoca notturna, buia, dovuta alla scomparsa della divinità visibile; il poeta durante il tempo della distanza deve preparare un nuovo ritorno della divinità, attraverso la poesia che ha il compito di conservare e seguire le tracce di Dio[24], finché Egli non sia attuale:
E ancora adesso il mio sguardo lo insegue;
Ma lontano, da popoli devoti
Che lo adorano ancora, se n’è andato.
[…] finché non torna l’amato
E si accende in noi lo spirito e la vita.[25]
Così il poeta, di questo consapevole, deve volgere lo sguardo verso il basso ed “essere del mondo”[26], deve mantenere uno spirito mondano (Weltlich), ricordando nella poesia la misura della lontananza. Nell’inno Germania, Hölderlin formula il dovere della parola poetica, parola che non appartiene né al giorno né alla notte, ma sempre si pronuncia tra notte e giorno e una sola volta dice il vero e lo lascia inespresso; quindi la parola poetica è capace di comunicare e far conoscere il vero, ma lo lascia inespresso: lo dice, ma non lo esprime per mantenere intatta la distanza:
Ma quando più traboccante di purissime fonti
È l’oro e grave è diventata l’ira nel cielo
Deve fra giorno e notte
Finalmente un vero apparire.
Circoscrivilo con parole tre volte,
Ma ineffabile, com’è ora,
Deve restare, fanciulla innocente.[27]
Landolfi e l’impossibilitàScendiamo dunque e confondiamo la loro lingua,
perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro.
Gn, 11, 7
Il concetto hölderliniano di lontananza vive nelle pagine di Tommaso Landolfi, autore ossessionato dalla volontà di eliminare la distanza che separa l’uomo dalla parola poetica pura, in grado di aprire a nuove forme di comunicazione e conoscenza. Landolfi trasferisce i fallimenti di questa ricerca in capo ai protagonisti delle sue prose, accomunati dalle stesse fobie, dalla medesima incapacità di possedere una conoscenza che vada al di là dell’esperienza già chiusa del loro mondo.
I primi tentativi poetici e le due raccolte di poesie pubblicate negli ultimi anni di vita, hanno un’incidenza ridottissima sulla produzione letteraria di Landolfi, quasi interamente dedicata alla prosa. Nonostante questo, nelle opere narrative è presente, in modo ossessivo, la ricerca ideale della parola poetica: raffigurazione carnale di essa sono le figure femminili, caratterizzate da un linguaggio oscuro, incomprensibile; sono personaggi in grado di oltrepassare la barriera del significato e accedere ad un linguaggio più profondo, capace di scavare la realtà, naturale nel senso che non si ferma alla semplice descrizione dell’immagine, ma capace di andare oltre, cogliere quello che si nasconde, insomma dare la pura conoscenza di un qualcosa di non solo inesplicabile, ma financo recesso: la voce femminile a questo punto può essere interpretata come un’allegoria, la quale, basandosi anche su cosa ci suggerisce Gadamer sul piano teologico, viene usata per portare alla luce verità valide, ma nascoste.
Citiamo alcune di queste figure per comprendere il loro valore di portatrici di una conoscenza nuova. Nella prima raccolta di racconti compare una figura femminile la cui forza allegorica non può essere taciuta: la donna della pozzanghera in La piccola apocalisse. È bionda, dalle labbra carnose e accoglienti, appare all’improvviso ad un gruppo di amici ed accompagna uno di questi in una passeggiata dai toni onirici; il protagonista maschile avverte che tra loro vi è lontananza, una distanza non tanto fisica, ma provocata da un difetto, nella figura maschile, di comprensione: usano codici linguistici completamente differenti; per la donna il segreto delle cose è contenuto nei colori e nella luce che emanano, nell’uomo, anche se non è esplicito nel racconto di Landolfi ma è intuibile, le cose appaiono così come sono, non hanno quasi il bisogno di essere descritte aldilà della loro apparenza:
“Non so che siano la bontà e la protervia, l’orgoglio e l’umiltà: degli uomini e delle cose conosco solo i colori, o piuttosto le luci (giacché ciascuna luce ha un colore). Non intendo l’espressione dei loro volti, i loro gesti, ma il colore degli abiti e delle pelli […] Ciò che gli uomini chiamano avarizia e gioia, dolore e terrore, sono per me luci azzurre o verdi, rosee o gialle. […] E di colori ce n’è tanti, quante sono le stelle del cielo. Dio mio, come farti capire?”[28]
L’uomo rimane, nonostante l’incomprensione, ammaliato dal suono malinconico della voce di lei, le sue parole vengono avvertite, soltanto udite, si poggiano dentro di lui come “falde leggere”, ma non danno nessuno scarto in avanti per raggiungere la conoscenza che possiede la figura femminile; lei allora, per ovviare all’incomunicabilità, cerca di adottare un codice linguistico a lui affine, ma questo depotenziamento non porta alla comprensione:
“Ho imparato, tuttavia, il linguaggio degli altri e perché tu, che non conosci ancora bene il mio, possa capirmi meglio, me ne servirò, sebbene imperfettamente, con te. Ma tradurre una luce o un colore è impossibile, e sappi anche che niente si può tradurre perché niente ha due significati o due vite”.[29]
Emblema di questa incomprensione è la passeggiata notturna, quando la donna descrive, in maniera del tutto opposta al senso comune, i fatti nei quali s’imbatte: parla d’amore infelice e corruzione davanti a due giovani innamorati, di opulenza e fasto terreno davanti ad una madre coperta di stracci con il figlio malato, di purezza per una prostituta, di amore felice per una coppia che si dice addio, di gioia e serenità davanti ad una madre che muore; ai dubbi dell’uomo davanti a tali affermazioni, la donna risponde:
“Credi che mi sia sbagliata. Tanto peggio, allora: t’avevo prevenuto che né dalla mia né da alcun’altra lingua si può tradurre. […] quando capirete dunque che non ci sono al mondo esseri più puri delle donne agli angoli delle strade; che non c’è cosa più bella (e gioia più grande) della morte di nostra madre?”[30]
Quella della donna è una voce che svela sensi nascosti, che annulla le distanze del tempo, che conosce colori e luci. “È una voce che non distingue e non attribuisce, non elegge e non sentenzia: è la voce di una lingua edenica, la lingua intatta dal peccato originale, al di là del bene e del male, prima che il nome intervenisse a segnare le differenze, a interrompere la corrente osmotica in cui tutto si comunica, a portare ordine apparente e anche a gettare le premesse di babele”[31]. La donna manifesta un linguaggio che riesce ad essere fonte di conoscenza aldilà del significato; la voce femminile, allegoria della poesia, è metafora della possibilità di fuggire dall’inganno del significato, il quale risulta essere un elemento aggiunto dopo Babele per tentare di nuovo la comprensione, ma questa risulta mediata dal significato stesso e non è più frutto di una comunicazione immediata e naturale.
Un’altra donna emblematica in questo senso è Gurù, la ragazza con i piedi di capra de La pietra lunare. Anche lei, infatti, è lontana da una qualsivoglia comunicazione che si avvalga di significati; le forze della natura le parlano attraverso, componendo nenie incomprensibili, conosce le rocce e le piante del bosco dando prova di una profonda sapienza naturalistica:
“Sono mie amiche, non le calpestare” diceva con una certa leziosaggine. “Ecco là il piccolo erino, più in là il galanto, e il colchico, il colchico! E ancora il miagro, l’umbella, e c’è anche il psillo”…[32]
Gurù comprende il linguaggio degli animali e si esprime in un modo irrequieto, senza punteggiatura e associando frasi apparentemente prive di connessione logica. Gurù è donna di tante letture ed è, per la sua poliforme e libera natura, fonte e fucina di poesia: non a caso il compagno di lei invaghito, Giovancarlo, è un giovane poeta. Al termine di questo romanzo Landolfi inserisce un’appendice intitolata Dal giudizio del Signor Giacomo Leopardi sulla presente opera: si tratta di un sapiente montaggio di brani dello Zibaldone grazie al quale fa dire a Leopardi che la poesia ancora da scrivere ha irrimediabilmente divorziato dalla natura e che la letteratura può esistere solo con artifici in un tempo, quello moderno, troppo lontano dall’età dell’oro dei poeti. Gurù allegorizza dunque la poesia, libera e senza inibizioni, allo stato brado, ripristina i contatti usurati tra le persone e le cose, parla una lingua più coinvolgente e profonda, più autentica e duratura[33]; mentre Giovancarlo è il poeta di tutti i giorni che si esprime con la sola lingua degli uomini, consapevole di questo cerca di afferrare, senza riuscirvi, il tipo di linguaggio poetico di Gurù.
Sull’importanza allegorica delle figure femminili, si possono riportare almeno altri due esempi significativi che testimoniano la fedeltà di Landolfi a questo tema: i personaggi femminili di Racconto d’autunno[34] e La muta[35]. Nel primo, romanzo del ’47, troviamo una donna, Lucia, che abita in segreto, con l’anziano padre, lo spettrale maniero che ospita i fatti narrati. Dopo tanti anni passati in silenzio anche Lucia si abbandona ad un linguaggio cantilenante che ha la forza di un fiume in piena; lei conosce tutte le lingue, dice di sapere tante cose e di avere capacità straordinarie: riesce ad udire ciò che ancora non viene pronunciato, a sentire un rumore non ancora provocato, a riconoscere l’odore buono dei morti. La lingua che conosce e attraverso la quale si esprime è, però, una lingua in disuso, decadente. Lucia morirà, uccisa dai militari, prima di poter insegnare queste cose al narratore protagonista, da questo si presuppone con forza un altro elemento: il linguaggio poetico è irraggiungibile.
La giovane quindicenne protagonista de La muta, è un’appassionata di poesia e comunica con il narratore protagonista attraverso lo scritto e le letture che fanno in comune. Proprio la purezza della giovane, non contaminata dal linguaggio comune, scatenerà la follia del narratore che, per non infettarla attraverso una possessione fisica, la ucciderà.
Per tutte queste figure femminili, e dunque per le opere che le ospitano, l’interpretazione allegorica è imprescindibile. La voce che proviene dalla donna della pozzanghera, da Gurù e da Lucia è un canto, una nenia, un flusso musicale, un suono prima che una parola, qualcosa che sta prima e oltre il significato e che ha il potere di traghettare il lettore continuamente da un universo all’altro[36]; ma i protagonisti e i narratori, tutti uomini, non riusciranno mai a raggiungere la nuova dimensione del linguaggio e le storie si concludono, per costoro, sotto il segno dell’impotenza[37]: la bionda dalle labbra carnose sprofonda in una pozzanghera, Giovancarlo fa ritorno in città, alla sua vita di sempre, e non ha posseduto Gurù se non in sogno, Lucia muore e la giovane muta è uccisa proprio da colui che voleva averla. In Landolfi quindi è il desiderio di possessione a portare con sé l’idea di morte. Simone Weil ritiene che tale sentimento sia cattivo e menzognero: menzognero in quanto crea un legame e distorce la percezione, ricoprendo la cosa desiderata d’una coltre immaginaria di pensieri e aspettative che ne impediscono una visione obiettiva; cattivo in quanto il desiderio implica il possesso, la fagocitosi[38]. In Landolfi però esso non è né menzognero, né cattivo, semplicemente il desiderare l’oggetto implica la sua sparizione; dunque la distanza si manifesta attraverso un’impossibilità: nel momento in cui i protagonisti desiderano le figure femminili, esse scompaiono.
ConclusioniSi comprehendis non est Deus.
Agostino, Sermo 52
Se la ricerca attraverso la poesia non porta a nessuna conoscenza, forse l’uomo non dovrebbe attuarla, in quanto risulterebbe tautologica.
Paolo nell’Areopago afferma che Dio creò il mondo perché l’uomo lo abitasse su tutta la sua estensione e i confini che vi sono servono per delimitare lo spazio in cui cercarLo. Tale discorso pare benedica l’atto della ricerca, nonostante condotto a tentoni; ma quelle parole hanno senso a questo punto della nostra esistenza, quando sembra che la ricerca si sia mostrata tautologica? Nell’era moderna viene da affermare che abbia soffiato troppo vento e che la buona novella si sia smentita, rendendo la sopravvivenza sopra la terra la più grande miseria[39]; si è schiavi di un mondo dal tempo annunciato finito, ma che continua eternamente[40], dove l’uomo è indaffarato in una ricerca inconcludente quanto il Principio d’indeterminazione di Heisenberg.
Un poeta ha riassunto nella sua ultima opera l’impossibilità della conoscenza attraverso la parola poetica, la quale descrive solo una ricerca tautologica. Egli è il Caproni de Il franco cacciatore e de Il Conte di Kevenhüller. Ci serviamo della sua esperienza poetica per riunire in una conclusione il discorso landolfiano dell’impossibilità di possedere la parola poetica in grado di aprire a nuove forme di conoscenza e il concetto hölderliniano della poesia intesa non come mezzo conoscitivo, ma come ricordo di una distanza.
Le due raccolte caproniane sono articolate intorno alla metafora venatoria, rifacendosi ad una tradizione risalente a Dante, il quale la desume dalle Sacre Scritture. La caccia è intesa come un atto di ricerca della conoscenza mediante la poesia, è il soggetto di azioni narrative cariche di teatralità e finzione, rese in scrittura tramite l’estremizzazione della decostruzione del verso. Enjambements, scalini, inceppamenti nella fluidità non tendono a mostrare l’essenzialità[41], ma dichiarano che la realtà, essendo inconoscibile, può soltanto essere indicata nella sua forma incompleta e spezzata, contornata poeticamente dall’immagine psicologica della nebbia. Temi elevati, quesiti religiosi sono svolti nell’arco di pochi versi, come fossero una battuta aforistica[42]; Caproni arriva in queste opere all’estrema frammentazione del verso attraverso la separazione dei cola costitutivi e tale frammentarietà ha un senso dato dalla volontà di rappresentare l’impossibilità di concludere la caccia, quindi la ricerca della conoscenza; caccia rivolta alla parola (Onoma, come si ritrova nelle poesie de Il Conte), a Dio e all’Io, ma che alla fine è incompiuta, non verificandosi l’uccisione della Bestia, giacché autoreferenziale: nel momento in cui il cacciatore ha sotto tiro la preda, preda diviene egli stesso.
Un certo equilibrio al testo poetico è dettato se si considera la rima come elemento di unità oltre la frammentarietà e gli spazi bianchi[43], ma è solo illusione, poiché quel che balza sempre agli occhi è la disarmonia del verso spezzato. Caproni frantuma come volesse tentare di sciogliere le parole versificate all’interno del bianco della pagina e annullarle, per disattivare la loro capacità negativa di dissolvere l’oggetto “come la nebbia gli alberi”[44]. Si pone in questi termini l’inattuabilità di trovare una parola poetica capace di portare alla conoscenza, ma si pone pure il tentativo ultimo di eliminare la parola, creatrice tra l’altro di finzioni, affinché si mostrino gli oggetti non sporcati dalla nominazione. Caproni posa la conoscenza non sulla ricerca di una parola originaria e prebabelica, ma oltre di essa, nel non detto, nella sua eliminazione. La frammentazione del verso quindi ha una duplice funzione: indicare l’incompletezza della realtà e mostrare la possibilità di dissolvere la parola e poter così cogliere, aldilà del nominare, l’oggetto nella sua essenzialità; ma tale azione risulta infruttuosa.
La caccia è una situazione di confine, la ricerca della parola, di Dio, dell’Io e quindi della conoscenza, porta il protagonista in luoghi di limite, oltre i quali non si riesce ad andare, costringendo l’azione ad un esito aporetico[45]. Tale impossibilita di risoluzione conduce Caproni a un nichilismo e ad una “ontologia negativa”[46]; il poeta livornese ci dimostra che la parola non può condurci in nessun altro luogo oltre quello in cui l’uomo sopravvive come in un limbo. Viene da affermare a questo punto che la poesia non può essere altro che rimembranza e non conoscenza: lo scarto in avanti che sarebbe frutto di una cognizione, non è possibile attraverso la parola poetica, perché essa è capace solo di comunicare frammenti e descrivere luoghi mediati da una situazione psicologica; l’unica possibilità di “trovare” la conoscenza sarebbe nel “non nominarla”[47] e negarla.
Il confine da dove nasce l’ispirazione poetica di Caproni pare un deserto da cui mandare delle lettere senza un destinatario, un mondo in cui ogni significato e ogni possibilità di conoscenza si è perduto definitivamente, lasciando solo la consapevolezza dell’impossibilità di uscire dalla prigione di un’esistenza nella quale le parole possono descrivere soltanto il poco di una realtà frammentata; Caproni non prende in nessun modo in considerazione la qualità biologica che permette all’uomo di comunicare attraverso il linguaggio[48].
La ricerca della conoscenza, rappresentata dalla caccia, è portata avanti da un protagonista che è in una condizione di totale inappartenenza ed estraniazione:
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.[49]
La caccia diviene un viaggio che non porta a nessuna conoscenza, non è il viaggio odisseo, e l’unica scoperta è quella di una mise en abîme del cacciatore che si ritrova cacciato, del predatore predato, dell’uccisore ucciso; questa è una tematica presente fin da Giordano Bruno, ma nel Nolano vi è comunque una possibilità di uscita, non espressa da Caproni: quella della palingenesi, della rinascita dopo la distruzione.
Al poeta, secondo Caproni, hanno “fucilato / la bocca”[50] e gli è permesso solo riscrivere quello che gli altri già hanno scritto (argomento anche di Manzoni e Borges); è definitivamente così preclusa ogni conoscenza attraverso la poesia. La caccia rappresentata poeticamente, nonostante metafisica, manca di una voce speranzosa, la parola conduce su strade false, ad un linguaggio ingannevole e di spaesamento:
C’è anche chi ha preso,
pare, una strada falsa.
Chi è precipitato. È facile.[51]
L’ingannevolezza della parola è dettata soprattutto dal fatto che essa non permetta di giungere alla conoscenza e permetta solo di dire che Dio è come una statua di gesso che non si lascia conoscere[52]; il Dio di Caproni deve essere cercato paradossalmente dove non si trova: “cercatemi dove non mi trovo”[53] e la poesia non ha che la sola potenzialità di indicare una conoscenza che detta un’impossibilità di conoscenza; tale consapevolezza, leggendo anche Abbagnano, conduce Caproni a rappresentare poeticamente la mise en abîme della caccia e la solitudine dell’uomo[54]. Ad ogni modo la ricerca della conoscenza non viene interrotta dopo acquisita la consapevolezza sopradetta, anzi si protrae hölderlinianamente tra il giorno e la notte, tra “l’ultima rondine / e la prima nottola”[55], pur continuando ad essere vana[56]. La poesia di Caproni è incentrata sulla sua sfiducia verso la parola che non può essere l’aiuto per condurre l’uomo in una ricerca di conoscenza; questo è un sentimento nutrito prima che diventasse “di moda con Blanchot”[57] e che porta a descrivere il poeta come uno “spatriato”, “portato via / dal luogo della sua lingua”, in grado di poetare solo il brancolare e l’urlare, ritrovandosi “Peggio che se fosse muto”[58].
Concludendo: abbiamo visto che, essendo la poesia “impotente” nel raggiungimento della conoscenza, in Hölderlin il poeta ha il compito di mantenere la distanza attraverso il ricordo dei segni lasciati da Dio[59] e deve insegnare all’umanità la capacità per viverla al meglio, vi è insomma la necessità da parte del poeta di tenere la misura affinché non si perdano le tracce del divino. Anche in Landolfi la distanza s’impone come insuperabile e affinché resti il desiderio di possedere l’oggetto desiderato, tale distanza deve rimanere incolmabile, poiché “se la distanza tra il desiderio e il suo appagamento è per principio abolita, il desiderio scompare”[60], portando l’uomo ad una fine negativa che si esplicherebbe nell’abolizione totale del tentativo dell’atto di conoscenza; questo significherebbe la “cessazione dell’Azione” umana[61]. In entrambi gli autori, dunque, si evince che alla poesia resta dare il messaggio di abitare la distanza; essa è vissuta dal poeta in parte rassegnato e in parte consapevole della sua importanza:
Non sei forse congiunto a tutto ciò che vive?
[…]
E allora va’! va’ pure inerme
Lungo la vita e non temere nulla![62]
[1] Per questa distinzione cfr. voce Gnoseologia di D. Marconi, in Dizionario filosofico, Milano, Garzanti, 1993.
[2] Cfr. più ampiamente su tale prospettiva, J.-L. Marion, L'idolo e la distanza, Milano, Jaca Book, 1978. Sul concetto di distanza v. anche P. A. Rovatti, Abitare la distanza. Per una pratica della filosofia, Milano, Cortina Raffaello, 2007; F. Eugen, Prossimità e distanza. Saggi e discorsi fenomenologici, Pisa, ETS, 2006.
[3] “… allora io avevo una sorta di religioso e superstizioso, amore e terrore delle parole (che mi è rimasto poi a lungo), sulle quali concentravo tutta la carica di realtà, invero scarsa, che mi riusciva scoprire nei vari oggetti del mondo; più semplicemente, le parole erano quasi le mie sole realtà”. T. Landolfi, Prefigurazioni: Prato, in Ombre, Milano, Adelphi, 1994, p. 103.
[4] Nella lirica Festa di pace, dalla raccolta Elegie, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, Milano, Mondadori, 2001, p. 881, la natura intrinseca dell’uomo è essere un colloquio (vv. 92-3), questo perché la storia stessa dell’uomo è linguaggio, esperienza reciproca, ascolto e si conchiuderà con il raggiungimento della compiuta pienezza etica ed estetica; in questi termini è il linguaggio a determinare l’uomo, e non viceversa. Su questo concetto accenniamo qui alle posizioni diverse di Heidegger e Buber. Il primo afferma che “L’essere dell’uomo si fonda nel linguaggio: ma questo accade autenticamente solo nel colloquio. Quest’ultimo non è tuttavia soltanto un modo in cui il linguaggio si attua, bensì solo come colloquio il linguaggio è essenziale” (M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, Milano, Adelphi, 1994, p. 47). Per Heidegger il colloquio risulta essere l’autenticità del linguaggio e su di esso si fonda l’esistenza. Buber afferma che non vi è distinzione tra colloquio e linguaggio; quindi l’uomo non è in colloquio, ma è esso stesso colloquio: “Il nostro essere parlati è il nostro esserci” (M. Buber, in “Hölderlin Jahrbuch”, 11, 1958-60, p. 210).
[5] “A un solo patto un essere umano può ripetere una qualsivoglia parola: a patto che gli si avvizzisca tra le labbra. L’assiuolo invece ripete la sua sempre nuova […] Ma a noi che ascoltiamo e sappiamo, il fiato è mozzato a ogni nota: riuscirà, non riuscirà? […] Sembra, in una parola, che ogni volta l’assiuolo dimentichi ciò che ha detto un momento prima e che fra le note della sua evocazione abbia il tempo, ogni volta, di morire. […] l’uomo, se ripetesse tante volte una parola, anche l’uomo più fidente, non saprebbe serbare quel timbro gioioso e sereno e alla fine la ripeterebbe con tristezza”. Landolfi, “Night must fall”, in Dialogo dei massimi sistemi, Milano, Adelphi, 2007, pp. 169-70.
[6] Cfr. G. Steiner, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Milano, Garzanti, 2004.
[7] Sulla capacità della traduzione di creare una terza lingua v. J. Lotman, La Semiosfera, Venezia, Marsilio, 1985. Lotman intende la traduzione come passaggio da una semiosfera all’altra (p. 59). La semiosfera è quello spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile l’esistenza della semiosi” (p. 58). Concetto chiave in questo senso è quello di confine. Si tratta però di un limite “poroso”, che, come la guaina di una cellula, è permeabile, e dal punto di vista culturale va pensato come luogo di continui processi di traduzione: “il confine semiotico è la somma dei ‘filtri’ semiotici di traduzione. Passando attraverso questi, il testo viene tradotto in un’altra lingua (o lingue) che si trovano fuori dalla semiosfera data” (p. 59). La funzione del confine della semiosfera è dunque quella di limitare la penetrazione e filtrare e trasformare, quel che fa Holderlin, ciò che è esterno in interno; esso si caratterizza allora come uno spazio in cui vi è la potenzialità della commistione dei linguaggi, i quali, passando attraverso una loro destrutturazione e primitivizzazione, possono portare a processi di creolizzazione e ridenominazione che favoriscono la nascita di nuovi linguaggi (per quest’ultimo concetto cfr. P. Fabbri, Elogio di Babele, Roma, Meltemi, 2003).
[8] Landolfi, Des mois, in Opere II, Milano, Rizzoli, 1992, p. 681.
[9] Il concetto di armonia lo ricaviamo da L. Spitzer quando parla della Stimmung nel libro L’armonia del mondo, Bologna, Il Mulino, 2006.
[10] Cfr. Hölderlin, Iperione, Milano, Feltrinelli, 1981.
[11] La morte di Empedocle è il sacrificio espiatorio del filosofo di Agrigento che, sulla sommità del monte sacro, invoca arditamente la folgore dell’ispirazione profetica e si getta nel cratere infuocato dell’Etna, affinché l’umanità si rigeneri per effetto del suo olocausto. Empedocle è il poeta che si sacrifica per la rinascita umana sotto richiesta degli Dei, è il vate che, consapevole della propria missione, si offre come vittima alla divinità.
[12] Cfr. M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1975.
[13] O. Lagercrantz, Scrivere come Dio, Milano, Marietti, 1987, p. 88.
[14] L. Mittner, Storia della letteratura tedesca II – Tomo terzo, Torino, Einaudi, 2002, p. 722.
[15] R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, saggio introduttivo in F. Hölderlin, Sul tragico, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 27.
[16] Per una definizione di aorgico v. Note all'Antigone in Hölderlin, Sul tragico, Milano, SE, 2004, pp. 141-8; in sintesi possiamo dire che l’Universo è governato da due forze opposte, entrambe figlie della Natura: l’organico e l’aorgico. La prima è una forza che unisce e che determina le figure particolari; l’altra è quella che divide e che ha la potenza infinita e panica della natura ed è al di fuori d’ogni organizzazione che potrebbe dargli la coscienza e l’attività formatrice umana, cioè l’arte. L’organico, in termini categoriali, è il particolare, il limitato; l’aorgico è l’universale, l’illimitato; il primo è il principio d’ordine, il troppo formato, l’Allzuförmliches; il secondo è privo di ogni forma, è il Proteo della Natura, l’Unförmliches. L’aorgico è l’infinito di fronte al quale ci si sente perduti, ma nello stesso tempo attratti, è il Sublime della natura.
[17] Cfr. Marion, L'idolo e la distanza, cit.
[18] Note all’Edipo in Hölderlin, Sul tragico, Milano, SE, 2004, pp. 135-41.
[19] M. Heidegger, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976, p. 131.
[20] Il pericolo dovuto alla vicinanza dell’uomo al divino è presente anche nell’opera della mistica francese Simone Weil, la quale legge la lontananza come gesto d’amore di Dio per evitare hölderlinianamente all’uomo di rimanere arso: “E’ Dio che per amore si ritira da noi perché ci sia possibile amarlo. Perché se fossimo esposti ai raggi diretti del suo amore, senza la protezione dello spazio, del tempo e della materia, saremmo evaporati come l’acqua al sole”. In S. Weil, L’ombra e la grazia, Milano, Bompiani, 2002, p. 59.
[21] Mnemosine, da Quaderno in folio di Homburg, in Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 1111.
[22] Gv. 16, 12.
[23] Qui si fa riferimento agli Inni alla notte di Novalis, nei quali si afferma sì la volontà lieta di allontanarsi dal giorno, ma anche che il poeta è colui che lega i due mondi, notturno e diurno, umano e divino, affermazione opposta all’ultima stagione hölderliniana.
[24] Le tracce che sono lasciate all’uomo come doni sono il pane e il vino della celebrazione eucaristica, v. Pane e vino (v. 132), da Quaderno in folio di Homburg, in Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 931.
[25] Al Dio del sole, da Manoscritto per Schiller – 30 giugno 1798, in Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 683. Si parla di Apollo dai riccioli d’oro, dio del sole che, partendo, lascia l’uomo nel lutto e nelle tenebre in attesa di una rinnovata venuta.
[26] L’unico, da Quaderno in folio di Homburg, in Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 973.
[27] Germania, da Quaderno in folio di Homburg, in Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 1029.
[28] Landolfi, La piccola apocalisse, in Dialogo dei massimi sistemi, cit., pp. 123-24.
[29] ivi, p. 124.
[30] ivi, p. 135.
[31] M. Carlino, Landolfi e il fantastico, Roma, Lithos, 1998, p. 99.
[32] Landolfi, La pietra lunare, Milano, Adelphi, 1995, p. 83.
[33] Cfr. Carlino, Landolfi e il fantastico, cit., pp. 111-12.
[34] Landolfi, Racconto d’autunno, Firenze, Vallecchi, 1947.
[35] Landolfi, La muta, in Tre racconti, Firenze, Vallecchi, 1964.
[36] Cfr. R. Sacchettini, L’oscuro rovescio. Previsione e pre-visione della morte nella narrativa di Tommaso Landolfi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, p. 163.
[37] Cfr. Carlino, Landolfi e il fantastico, cit., p. 104.
[38] Cfr. S. Weil, Quaderni 1, Milano, Adelphi, 1982, p. 117. Sul concetto di desiderio v. anche C. Dumoulié, Il desiderio: storia e analisi di un concetto, Torino, Einaudi, 2002; R. Barbaras, Le désir et la distance, Vrin, Paris, 1999.
[39] Cfr. S. Kierkegaard, Diario, Brescia, Morcelliana, 1948.
[40] Cfr. S. Quinzio, Diario profetico, Milano, Adelphi, 1996, p. 65.
[41] Cfr. P. V. Mengaldo, Per la poesia di Giorgio Caproni, introduzione a G. Caproni, L’opera in versi, Milano, Mondadori, 1998, p. XXXIX.
[42] Cfr. A. Dei, Aforismi in versi, in Gli anni ’60 e ’70 in Italia. Due decenni di ricerca poetica, a cura di S. Giovannuzzi, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2003, p. 291.
[43] Cfr. S. Pastore, La frammentarietà, la continuità, la metrica. Aspetti metrici della poesia del secondo ‘900, Pisa – Roma, Istituti editoriali poligrafici internazionali, 1999, p. 26.
[44] Caproni, Le parole, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 460.
[45] “Dove non si può più dire / … / chi sia il perseguitato / e chi il persecutore”, in Geometria, ivi, p. 484. Si rappresenta un’azione in cui il soggetto agente non riesce mai ad accedere all’oggetto della sua ricerca ed in cui egli stesso si ritrova come oggetto.
[46] I. Calvino, Il taciturno ciarliero (per Giorgio Caproni) in Saggi, Milano, Mondadori, 1995, p. 1024.
[47] Caproni, Versi controversi, in Il Conte di Kevenhüller, in Id., L’opera in versi, cit., p. 622.
[48] Tale capacità è descritta, dal punto di vista antropologico, da R. Dunbar, in Dalla nascita del linguaggio alla Babele delle lingue, Milano, Longanesi, 1998.
[49] Caproni, Biglietto lasciato prima di non andar via, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 427.
[50] Caproni, Il murato, in Il muro della terra, in Id., L’opera in versi, cit., p. 341.
[51] Caproni, All’alba, in Il muro della terra, in Id., L’opera in versi, cit., p. 321. Anche il verbo “pare” connota maggiormente il significato della falsità. Parere qui non ha più il significato dantesco di Tanto gentile e tanto onesta pare, ma il significato di falso ed ingannevole, a tal proposito si può guardare G. Contini, Un’idea di Dante, Einaudi, Torino, 1976, pp. 21-31.
[52] Caproni, Telemessa, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 405. Qui in nota poniamo solo come citazione comparativa il Landolfi di Un dio di gesso, da Il tradimento, Milano, Rizzoli, 1977.
[53] Caproni, Indicazione sicura, o: Bontà della guida, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 438.
[54] Cfr. N. Abbagnano, Fra il tutto e il nulla, Milano, Rizzoli, 1973.
[55] Caproni, L’ultimo borgo, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 436.
[56] Cfr. Caproni, Falsa pista, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 433.
[57] Vedi in particolare i seguenti articoli di Caproni: Scrittura prefabbricata e linguaggio, Il quadrato della verità e La precisione dei vocaboli ossia Babele, apparsi sulla “Fiera letteraria”, ristampati in Caproni, La scatola nera, Milano, Garzanti, 1996.
[58] Caproni, Lo spatriato, in Il franco cacciatore, in Id., L’opera in versi, cit., p. 461.
[59] “Pane è della terra il frutto, ma è benedetto dalla luce, / E dal Dio che tuona viene la gioia del vino.” Da Pane e vino, da Quaderno in folio di Homburg, in Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 957.
[60] F. Ciaramelli, La distruzione del desiderio, Bari, Edizioni Dedalo, 2000, p. 71.
[61] Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, Adelphi, 1996, p. 541.
[62] Hölderlin, Coraggio del poeta, da Odi – Fascicolo di Stoccarda, in Id., Tutte le liriche, cit., p. 795.