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LE DUE ZITTELLE CON ANNA MARCHESINI
Marchesini, la 'zittella' nella favola nera di Landolfi
30 aprile 2006 — pagina 11 sezione: ROMA
Il mondo è quello piccolo borghese, polveroso e in penombra dove protagoniste del microcosmo di perbenismo e religiosità da camera sono Le zittelle (con la doppia) di Tommaso Landolfi e a raccontarne piccoli vizi, virtù, segreti, rumori, odori è ancora una volta, con tutta la sua bravura, Anna Marchesini, dal 2 al 28 maggio al Valle. «Un altro monologo» spiega l' attrice «sempre più difficile e senza rete, sempre più imbottito e ciarliero, chiassoso, sfrenato, polifonico e zoologico». Sola sulla scena interpreta - nel suo fregolismo ormai abituale - un coro di personaggi: le due sorelle Lilla e Nena, la fantesca Bellonia, padre Alessio, monsignor Tostini, la madre superiora e... la scimia (senza la doppia). «Ho ridotto il racconto originale» continua Anna Marchesini «ampliando e a volte creando i dialoghi. L' unica "forzatura", è la ricerca del lato comico in un testo che assomiglia al suo autore: gotico, notturno, invernale». La favola nera di Landolfi si svolge gli anni Cinquanta, la zona è quella intorno a piazza Indipendenza, l' atmosfera è clericale anche per la vicinanza di un convento. Le uniche presenze maschili in una casa dove il tasso ormonale è bassissimo, sono i preti, i ricordi (come quello di un fratello morto) e il cercopiteco castrato. Toccherà proprio all' animale, chiave di lettura di questo teatro onirico, il compito di sconvolgere le regole: fuggendo nottetempo dalla gabbia, si infilerà nel tabernacolo della vicina cappella per mangiare le ostie consacrate. La sua condanna a morte segnerà il ripristino della muffosa normalità. Teatro Valle,
Le due zittelleUna scimmia per casaDi Francesco Lucioli
Anna Marchesini scrive, dirige e interpreta un atto unico ispirato all’omonimo romanzo di Tommaso LandolfiCon I delitti della Rue Morgue, correva l’anno 1841,Edgar Allan Poe inaugurava, volente o nolente, un genere letterario destinato ad un immediato successo, quello del racconto poliziesco. "Eroe nero" della vicenda era uno scimmione, assassino a piede libero nella città. Fantasioso, in certo qual modo grottesco, il romanzo breve di Poe può essere considerato un antesignano delle Due zittelle di Tommaso Landolfi, pubblicato nel 1946.
Non si tratta di un errore di stampa. Le protagoniste del testo sono proprio due "zittelle", due zitelle che stanno zitte. Titolo in un certo senso ossimorico, se pensiamo alla lunga tradizione che disegna le signorine di una certa età pettegole e impiccione. Non meno le eroine di Landolfi, figlio di una tradizione letteraria prima verista e poi realista.
Ma cosa c’entrano uno scimmia e due zitelle silenziose? Apparentemente nulla, generalmente nulla. Ma significano molto, tutto, per un autore che con i suoi personaggi e le sue storie strampalate favorisce la diffusione in Italia di una cultura surrealista altrimenti poco nota e apprezzata.
Nena e Lilla vivono rinchiuse in una grande casa che è già, a suo modo, il loro santuario e la loro tomba. Vegliano l’autoritaria madre Donna Marietta, aiutate da Bellonia, la fantesca spigliata e irriverente. Il loro salotto è un porto di mare, centro di raccordo di suore e sacerdoti ben informati sulle notizie della città.
Questa vita apparentemente piatta viene sconvolta da Tombo, la "scimia" rinchiusa in una gabbia nel salotto delle zitelle. È evidente fin da subito il grado di paradossalità del racconto: non c’è nulla di strano, nulla di anormale nel fatto che le due signorine dividano la loro casa con una scimmia. I problemi nascono soltanto quando si viene a sapere che l’animale abbandona la sua gabbia per entrare nella cappella del vicino convento per celebrare un’irriverente messa. Anche in questo caso le donne, più che sorprese dal fatto in sé, rimangono scandalizzate dal modo poco convenzionale in cui viene condotta la celebrazione. Ritorna alla mente il gatto descritto da Bulgakov in Il maestro e Margherita, altro romanzo profondamente moderno e, a suo modo, rivoluzionario: lo stupore generale non era prodotto dal fatto che, pistola nella zampa, il felino sparasse sugli uomini, quanto piuttosto che non avesse mira.
Con il suo racconto Landolfi dunque giocava a capovolgere i perni del discorso letterario tradizionale e di un’intera morale: le coppie antinomiche sacro-profano, alto-basso, grande-piccolo, tragico-comico venivano messe in scena in tutta la loro complessità. Le due zittelleaprivano il mare magnum del paradosso, dello straniamento, facendo irrompere sulla scena quella corporeità e quella comicità che diventeranno cifre distintive della letteratura novecentesca.
Non casualmente abbiamo parlato di gioco e messa in scena. Il testo di Landolfi è già, volutamente, un testo teatrale, per le ragioni tutte moderne che trasformano la narrazione in finzione. È a partire da queste premesse che Anna Marchesini riscrive il racconto per trarne un monologo a più voci di cui lei è l’unica protagonista.
Lo spettacolo – in scena al Teatro Valle di Roma, dal 2 al 28 maggio – ambienta la vicenda nella casa delle due zitelle, luogo che prende progressivamente le forme e i toni della cappella del vicino convento. In questo ambiente suggestivo si muove la girandola di personaggi che trovano corpo e voce nell’interpretazione della Marchesini.
Nulla si può dire su un’attrice in grado di recitare contemporaneamente sei personaggi diversi, quel "condominio parlante" di cui lei stessa va tanto fiera. Certo, fra le pieghe degli uomini e delle donne descritti da Landolfi, spuntano qua e là gli accenti e le intonazioni propri di tanti personaggi che abbiamo imparato ad apprezzare attraverso la televisione e il fortunato Trio. Eppure la Marchesini continua a far divertire, riuscendo a creare un rapporto diretto ed immediato con il pubblico.
Qualche perplessità rimane invece sul testo. Nella riscrittura si perde infatti il senso profondo del racconto di Landolfi: scompare la paradossalità, viene annullato il grottesco, si perde il surrealismo. Così come viene rappresentata, la storia finisce per diventare, troppo semplicisticamente, un pretesto per mettere in scena personaggi diversi, una scusa per strappare una risata.
Una curiosità: nel 2002 il regista Marco Colli, avvalendosi dell’aiuto di Idolina e Landolfo Landolfi, aveva tentato una trasposizione cinematografica del racconto, con l’interpretazione di Giuliana De Sio e Lunetta Savino. Il titolo era W la scimmia. Il film è passato praticamente sotto silenzio, indice della difficoltà di portare sulla scena un testo apparentemente semplice e, invece, profondamente complesso e articolato quale Le due zittelle di Tommaso Landolfi.
Le due zittelle
Dal racconto di Tommaso Landolfi
Scritto, diretto e interpretato da Anna Marchesini
Al Teatro Valle di Roma dal 2 al 28 maggio
30 aprile 2006 — pagina 11 sezione: ROMA
Il mondo è quello piccolo borghese, polveroso e in penombra dove protagoniste del microcosmo di perbenismo e religiosità da camera sono Le zittelle (con la doppia) di Tommaso Landolfi e a raccontarne piccoli vizi, virtù, segreti, rumori, odori è ancora una volta, con tutta la sua bravura, Anna Marchesini, dal 2 al 28 maggio al Valle. «Un altro monologo» spiega l' attrice «sempre più difficile e senza rete, sempre più imbottito e ciarliero, chiassoso, sfrenato, polifonico e zoologico». Sola sulla scena interpreta - nel suo fregolismo ormai abituale - un coro di personaggi: le due sorelle Lilla e Nena, la fantesca Bellonia, padre Alessio, monsignor Tostini, la madre superiora e... la scimia (senza la doppia). «Ho ridotto il racconto originale» continua Anna Marchesini «ampliando e a volte creando i dialoghi. L' unica "forzatura", è la ricerca del lato comico in un testo che assomiglia al suo autore: gotico, notturno, invernale». La favola nera di Landolfi si svolge gli anni Cinquanta, la zona è quella intorno a piazza Indipendenza, l' atmosfera è clericale anche per la vicinanza di un convento. Le uniche presenze maschili in una casa dove il tasso ormonale è bassissimo, sono i preti, i ricordi (come quello di un fratello morto) e il cercopiteco castrato. Toccherà proprio all' animale, chiave di lettura di questo teatro onirico, il compito di sconvolgere le regole: fuggendo nottetempo dalla gabbia, si infilerà nel tabernacolo della vicina cappella per mangiare le ostie consacrate. La sua condanna a morte segnerà il ripristino della muffosa normalità. Teatro Valle,
Le due zittelleUna scimmia per casaDi Francesco Lucioli
Anna Marchesini scrive, dirige e interpreta un atto unico ispirato all’omonimo romanzo di Tommaso LandolfiCon I delitti della Rue Morgue, correva l’anno 1841,Edgar Allan Poe inaugurava, volente o nolente, un genere letterario destinato ad un immediato successo, quello del racconto poliziesco. "Eroe nero" della vicenda era uno scimmione, assassino a piede libero nella città. Fantasioso, in certo qual modo grottesco, il romanzo breve di Poe può essere considerato un antesignano delle Due zittelle di Tommaso Landolfi, pubblicato nel 1946.
Non si tratta di un errore di stampa. Le protagoniste del testo sono proprio due "zittelle", due zitelle che stanno zitte. Titolo in un certo senso ossimorico, se pensiamo alla lunga tradizione che disegna le signorine di una certa età pettegole e impiccione. Non meno le eroine di Landolfi, figlio di una tradizione letteraria prima verista e poi realista.
Ma cosa c’entrano uno scimmia e due zitelle silenziose? Apparentemente nulla, generalmente nulla. Ma significano molto, tutto, per un autore che con i suoi personaggi e le sue storie strampalate favorisce la diffusione in Italia di una cultura surrealista altrimenti poco nota e apprezzata.
Nena e Lilla vivono rinchiuse in una grande casa che è già, a suo modo, il loro santuario e la loro tomba. Vegliano l’autoritaria madre Donna Marietta, aiutate da Bellonia, la fantesca spigliata e irriverente. Il loro salotto è un porto di mare, centro di raccordo di suore e sacerdoti ben informati sulle notizie della città.
Questa vita apparentemente piatta viene sconvolta da Tombo, la "scimia" rinchiusa in una gabbia nel salotto delle zitelle. È evidente fin da subito il grado di paradossalità del racconto: non c’è nulla di strano, nulla di anormale nel fatto che le due signorine dividano la loro casa con una scimmia. I problemi nascono soltanto quando si viene a sapere che l’animale abbandona la sua gabbia per entrare nella cappella del vicino convento per celebrare un’irriverente messa. Anche in questo caso le donne, più che sorprese dal fatto in sé, rimangono scandalizzate dal modo poco convenzionale in cui viene condotta la celebrazione. Ritorna alla mente il gatto descritto da Bulgakov in Il maestro e Margherita, altro romanzo profondamente moderno e, a suo modo, rivoluzionario: lo stupore generale non era prodotto dal fatto che, pistola nella zampa, il felino sparasse sugli uomini, quanto piuttosto che non avesse mira.
Con il suo racconto Landolfi dunque giocava a capovolgere i perni del discorso letterario tradizionale e di un’intera morale: le coppie antinomiche sacro-profano, alto-basso, grande-piccolo, tragico-comico venivano messe in scena in tutta la loro complessità. Le due zittelleaprivano il mare magnum del paradosso, dello straniamento, facendo irrompere sulla scena quella corporeità e quella comicità che diventeranno cifre distintive della letteratura novecentesca.
Non casualmente abbiamo parlato di gioco e messa in scena. Il testo di Landolfi è già, volutamente, un testo teatrale, per le ragioni tutte moderne che trasformano la narrazione in finzione. È a partire da queste premesse che Anna Marchesini riscrive il racconto per trarne un monologo a più voci di cui lei è l’unica protagonista.
Lo spettacolo – in scena al Teatro Valle di Roma, dal 2 al 28 maggio – ambienta la vicenda nella casa delle due zitelle, luogo che prende progressivamente le forme e i toni della cappella del vicino convento. In questo ambiente suggestivo si muove la girandola di personaggi che trovano corpo e voce nell’interpretazione della Marchesini.
Nulla si può dire su un’attrice in grado di recitare contemporaneamente sei personaggi diversi, quel "condominio parlante" di cui lei stessa va tanto fiera. Certo, fra le pieghe degli uomini e delle donne descritti da Landolfi, spuntano qua e là gli accenti e le intonazioni propri di tanti personaggi che abbiamo imparato ad apprezzare attraverso la televisione e il fortunato Trio. Eppure la Marchesini continua a far divertire, riuscendo a creare un rapporto diretto ed immediato con il pubblico.
Qualche perplessità rimane invece sul testo. Nella riscrittura si perde infatti il senso profondo del racconto di Landolfi: scompare la paradossalità, viene annullato il grottesco, si perde il surrealismo. Così come viene rappresentata, la storia finisce per diventare, troppo semplicisticamente, un pretesto per mettere in scena personaggi diversi, una scusa per strappare una risata.
Una curiosità: nel 2002 il regista Marco Colli, avvalendosi dell’aiuto di Idolina e Landolfo Landolfi, aveva tentato una trasposizione cinematografica del racconto, con l’interpretazione di Giuliana De Sio e Lunetta Savino. Il titolo era W la scimmia. Il film è passato praticamente sotto silenzio, indice della difficoltà di portare sulla scena un testo apparentemente semplice e, invece, profondamente complesso e articolato quale Le due zittelle di Tommaso Landolfi.
Le due zittelle
Dal racconto di Tommaso Landolfi
Scritto, diretto e interpretato da Anna Marchesini
Al Teatro Valle di Roma dal 2 al 28 maggio
Title. Fai clic qui per effettuare modifiche.
Nell’ambito del XXIX Festival Città Spettacolo di BENEVENTO 16 settembre 2008, presso il Teatro De Simone LiberaScenaEnsemble ha presentato Antonello Cossia in " La stanza scura " piece liberamente tratta da Maria Giuseppa di Tommaso Landolfi
La stanza scura nella casa di campagna, residenza estiva di Giacomo, un mentecatto appartenente alla piccola aristocrazia, è la camera dove vive la povera Maria Giuseppa, contadina accolta in casa e quindi continuamente vessata da un padrone che la tratta come uno strumento di piacere, divertendosi a tormentarla come fa con i gatti cui tira addosso pietre o il cane che insegue con una vecchia sciabola. Il “gioco” crudele continua senza che l’io narrante, un vero idiota in senso etimologico, si renda conto della gravità delle sue azioni, che raggiungono il culmine con uno stupro (forse solo tentato, forse portato a compimento) in seguito al quale la povera contadina, sconvolta e annichilita, muore di consunzione.
La raffinata scrittura di Tommaso Landolfi al suo esordio letterario (Maria Giuseppa, del 1929, apre la sua prima raccolta di racconti,Dialogo dei massimi sistemi, pubblicata nel 1937) suggerisce soltanto quello che può essere intercorso tra i due, sottolineando ancor più l’idiotismo del protagonista, causa di una morte per cui non riesce a provare rimorso, come in precedenza non era riuscito a comprendere il male quotidiano, il dolore continuo che usava infliggere alla donna.
Antonello Cossia incarna ottimamente la chiusura mentale di Giacomo (anzi, Giacomino, a sottolineare la mancata crescita del protagonista), in un testo rielaborato e diretto da Renato Carpentieri, che inserisce nel racconto originale un altro frammento landolfiano ed alcuni elementi volti ad accentuare l’anormalità dell’io narrante: vestito con abiti di velluto che ne sottolineano la buona estrazione sociali (i costumi sono di Annamaria Morelli), Cossia si muove in uno spazio scenico disegnato da Francesco Esposito che evidenzia la sua separazione da un mondo che egli rifiuta e che a sua volta lo rifiuta.
Maria Giuseppa vive, agonizza e muore in una “camera scura”, senza finestre sul mondo, ma anche Giacomino, nonostante la terrazza coperta e l’ampio cortile, non esce mai dal proprio ristretto mondo, gli manca anche quel fondamentale contatto con l’esterno (ed il Superiore) che almeno Maria Giuseppa viveva ogni mattina grazie alla partecipazione alla prima messa. «Ma alla fine che vale la pena parlare di questo?» conclude il protagonista, superando la morte dell’unico essere umano con cui era venuto a contatto come si supera il dispiacere per aver involontariamente infranto un bicchiere; e sprofonda egli stesso in una propria “camera scura”; neppure conscio che il resto del mondo gli riserverà lo stesso trattamento che egli ha riservato a Maria Giuseppa: anzi, lo ignorerà addirittura, ed al suo letto di agonia, un giorno, mancherà anche quel via vai di parenti e amici che ha caratterizzato le ultime ore della contadina.
Una vita inutile, quella di Giacomino, fatta di giornate vuote e tragicamente uguali, che non sembra avere ragione d’essere, se non per tormentare chiunque, sia un animale o un essere umano, venga a contatto con lui. Un capolavoro letterario di cui questa versione teatrale riesce ad esprimere – pur non raggiungendo la sublimità dell’originale – il senso di fastidio e di tristezza, grazie ad un Antonello Cossia molto ben capace di rendere la “banalità” del male insita nel suo personaggio.
Gianandrea de Antonellis
La stanza scura nella casa di campagna, residenza estiva di Giacomo, un mentecatto appartenente alla piccola aristocrazia, è la camera dove vive la povera Maria Giuseppa, contadina accolta in casa e quindi continuamente vessata da un padrone che la tratta come uno strumento di piacere, divertendosi a tormentarla come fa con i gatti cui tira addosso pietre o il cane che insegue con una vecchia sciabola. Il “gioco” crudele continua senza che l’io narrante, un vero idiota in senso etimologico, si renda conto della gravità delle sue azioni, che raggiungono il culmine con uno stupro (forse solo tentato, forse portato a compimento) in seguito al quale la povera contadina, sconvolta e annichilita, muore di consunzione.
La raffinata scrittura di Tommaso Landolfi al suo esordio letterario (Maria Giuseppa, del 1929, apre la sua prima raccolta di racconti,Dialogo dei massimi sistemi, pubblicata nel 1937) suggerisce soltanto quello che può essere intercorso tra i due, sottolineando ancor più l’idiotismo del protagonista, causa di una morte per cui non riesce a provare rimorso, come in precedenza non era riuscito a comprendere il male quotidiano, il dolore continuo che usava infliggere alla donna.
Antonello Cossia incarna ottimamente la chiusura mentale di Giacomo (anzi, Giacomino, a sottolineare la mancata crescita del protagonista), in un testo rielaborato e diretto da Renato Carpentieri, che inserisce nel racconto originale un altro frammento landolfiano ed alcuni elementi volti ad accentuare l’anormalità dell’io narrante: vestito con abiti di velluto che ne sottolineano la buona estrazione sociali (i costumi sono di Annamaria Morelli), Cossia si muove in uno spazio scenico disegnato da Francesco Esposito che evidenzia la sua separazione da un mondo che egli rifiuta e che a sua volta lo rifiuta.
Maria Giuseppa vive, agonizza e muore in una “camera scura”, senza finestre sul mondo, ma anche Giacomino, nonostante la terrazza coperta e l’ampio cortile, non esce mai dal proprio ristretto mondo, gli manca anche quel fondamentale contatto con l’esterno (ed il Superiore) che almeno Maria Giuseppa viveva ogni mattina grazie alla partecipazione alla prima messa. «Ma alla fine che vale la pena parlare di questo?» conclude il protagonista, superando la morte dell’unico essere umano con cui era venuto a contatto come si supera il dispiacere per aver involontariamente infranto un bicchiere; e sprofonda egli stesso in una propria “camera scura”; neppure conscio che il resto del mondo gli riserverà lo stesso trattamento che egli ha riservato a Maria Giuseppa: anzi, lo ignorerà addirittura, ed al suo letto di agonia, un giorno, mancherà anche quel via vai di parenti e amici che ha caratterizzato le ultime ore della contadina.
Una vita inutile, quella di Giacomino, fatta di giornate vuote e tragicamente uguali, che non sembra avere ragione d’essere, se non per tormentare chiunque, sia un animale o un essere umano, venga a contatto con lui. Un capolavoro letterario di cui questa versione teatrale riesce ad esprimere – pur non raggiungendo la sublimità dell’originale – il senso di fastidio e di tristezza, grazie ad un Antonello Cossia molto ben capace di rendere la “banalità” del male insita nel suo personaggio.
Gianandrea de Antonellis
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Da Oz al terrorismo i segni dell'arte nella società
Lorenzo Donati, Hystrio n. 2, aprile-giugno 2008
Quando una società mette a fondamento dei suoi luoghi di potere la produzione di immagini, è lecito domandarsi quale spazio o ruolo possa ritagliarsi l'arte nel dominio dell'immaginazione. Se il confine fra realtà e finzione è diluito in un presente mediatico, viene il sospetto che siano paradossalmente poche le immagini che ci circondano, perché quelle in circolazione sono consumate, già servite con una corrotta e univoca decodificazione. Da qui potremmo partire per avvicinarci a due lavori di Fanny & Alexander, due rivoli produttivamente meno impegnativi rispetto agli ultimi Dorothy. Sconcerto per Oz e Amore (2 atti). Al Nobodaddy di Ravenna si sono visti insieme, nella forma del dittico, due spettacoli apparentemente antitetici eppure percorsi dalla stessa tensione. K.313, tratto dal Breve Canzoniere di Tommaso Landolfi,si apre con due attori, uomo e donna, che preparano la scena disponendo pochi oggetti su un tavolino. Una videocamera li rimanda sul grande schermo alle loro spalle, in un bianco e nero che rievoca la sgranatura dei video dei terroristi. Indossati dei passamontagna e seduti al tavolino, inizieranno un dialogo sulla poesia che scivola di continuo in una discussione amorosa, una richiesta dell'uomo di giudicare principi, sonetti e lettere che si risolverà in un'indagine sulla vita e sul linguaggio, spinto verso una «divina inconcludenza» come la musica di Mozart del titolo. Him pare un tentativo in questa direzione, e quello stesso schermo ora proietta il film Il mago di Oz di Victor Fleming del 1939. Sotto alle immagini sta un attore in ginocchio come dirigendo un'orchestra, impegnato a doppiare tutti i personaggi, dalla bambina Dorothy all'uomo di latta, dalla strega cattiva fino al ciarlatano mago di Oz. Ma c'è un dato ancora più evidente a unire i due lavori, ed è la scelta delle icone che veicolano il racconto: Marco Cavalcoli/Him dà voce al film nei panni di un Hitler bambino, citazione di un'opera di Maurizio Cattelan, mentre i dialoganti di K.313, sul finale, reclinano il capo evocando l'episodio del sequestro del pubblico al Teatro Dubrovka di Mosca da parte di terroristi ceceni. Perché il trascinante doppiaggio viene eseguito da una figura di morte? Come mai il precedente dialogo d'amore e d'arte si raggela citando la cronaca? Dopo la visione di questo dittico, ci accorgiamo che non sappiamo come maneggiarle, queste immagini, non possediamo nessuna etichetta pronta per archiviarle. Rimangono sospese, poi affondano con fastidio nel nostro bagaglio di codici interpretativi, infine, come un guizzo, riemergeranno insieme alla questione iniziale sul ruolo dell'arte in questa nostra società.
K.313
Andrea Monti, TeatroTeatro.it, aprile 2008
Due attori prendono in ostaggio il cervello del pubblico costringendolo a combattere con le immagini evocate dalle parole, contornate dai costumi, replicate dalla telecamera infrarossi e quelle imposte dalla memoria. Si torna al 2002, quando un gruppo di ceceni entra in scena durante uno spettacolo nel Teatro Dubrovka di Mosca. Il loro gesto drammaticamente disperato e irriverente mostra rispetto nei confronti dell’arte teatrale, animata da stravolgimenti, arricchita dalle sorprese, inarrivabile quando riesce a lambire la morte rappresentando lo smarrimento.
Con la stessa dedizione alla perdita, Marco Cavalcoli e Chiara Lagani si abbandonano ai versi di Landolfi, sfiorano le figure che lo scrittore tratteggia, credono alla sua capacità di condurli verso l’oblio senza accennare resistenza alcuna. Trovato il loro mentore, come terroristi, lasciano brandelli di messaggi accompagnati dalla musica di Mozart che sale col flauto e non con il corno. Sullo sfondo ancora uno schermo dove sgranate appaiono le immagini dei due erranti amanti in cerca di una via d’uscita dalla trincea nella quale sono costretti a rifugiarsi una volta persa la capacità di comunicarsi amore. Forse uno scrive e l’altra commenta. Forse chi commenta è lo stesso che scrive, come Penelope disfa ciò che tesse, come l’artista distrugge ciò che più rivela la perfezione e l’impossibilità di raggiungerla più di una volta.
Luigi de Angelis, in cerca di annullamento, gioca con la tecnologia passando da vecchie audio cassette a flash pronti a regalare sprazzi di ribalta a chi trapassa. La voce registrata, le immagini in diretta con un’angolatura diversa, il volume della musica che varia a seconda della posizione del microfono insomma tanta vecchia tecnologia a rendere caldo un ambiente apparentemente neutro, una recitazione a levare, un’astrazione ricercata da Cavalcoli quando stende le gambe rilassandosi, dalla Lagani quando accende sigarette, da entrambi quando si affidano ai dadi.
In assenza di azione e di toni che vivifichino gli interpreti, la strada dell’annullamento risulta evidente fin dalle prime battute. In sintonia con il testo di Landolfi e la fine drammatica dei terroristi ceceni la luce degli interpreti si spegne lentamente, inesorabilmente scivola via la vita dalle loro muscolature, verso un rilassamento che aiuta il pubblico a soffermarsi sull’immagine indelebile di chi è entrato in un teatro e, per amore della propria terra, per follia, disperazione, idealismo o incapacità di sovvertire altrimenti le sorti di un popolo oppresso, lega la propria vita ad una bomba, che Monica Bolzoni riproduce come una scintillante borsetta. L’astrazione tanto evocata si impossessa del pubblico che naviga in oscure acque cullato da versi e musica ma costantemente messo in discussione da un’immagine da cui è impossibile affrancarsi.
Landolfi messo in scena da Fanny & Alexander
Pierfrancesco Giannangeli, Il Messaggero - Macerata, 9 aprile 2008
Figura centrale, indipendente, originale della letteratura del Novecento, Tommaso Landolfi è l'oggetto di studio degli ultimi lavori della compagnia Fanny & Alexander. Dell'autore nato a Pico Farnese nel 1908 e morto a Ronciglione nel 1979, quest'anno si celebra il centenario della nascita e il gruppo ravennate, uno dei principali della ricerca italiana che si sviluppata all'inizio degli anni Novanta, porta in scena due suggestioni che dai testi di Landolfi partono: si intitolano K.313 e Amore. Gli spettacoli saranno in scena questa sera e domani al cineteatro Italia e al Teatro Lauro Rossi di Macerata, con inizio alle ore 21. La permanenza in città della compagnia sarà accompagnata anche da due incontri: il primo si svolgerà stasera al termine dello spettacolo all'Italia, con il giovane critico Rodolfo Sacchettini, l'altro verrà ospitato nell'auditorium Svoboda dell'Accademia di Belle Arti (via Berardi, 6) domani mattina alle ore 11.30.
Tommaso Landolfi è uno scrittore affascinante, dalla lingua ricercata e barocca, gotica e grottesca. Anche la sua vita si è dipanata interamente fuori dai circuiti, tra la casa di Pico Farnese e Roma, dove però lo scrittore si è sempre tenuto assai lontano dai salotti che contavano. I velluti preferiti da Landolfi sono stati invece quelli dei casinò di Sanremo e Venezia, dove ha assecondato la sua passione per il gioco e dai quali, probabilmente, ha tratto ispirazione per l'universo umano che ha riempito i suoi scritti. Nei due testi in scena a Macerata si parla di amore. K.313 è interpretato da Marco Cavalcoli e Chiara Lagani, la regia è invece di Luigi de Angelis. L'ambientazione è quella del teatro Dubrovka di Mosca, dove un commando ceceno nel 2002 prese tragicamente in ostaggio gli spettatori di un musical. Le parole sono quelle di due amanti "impegnati - si legge nelle note - in un dialogo utopico che diventa riflessione sul linguaggio amoroso quale lingua impossibile, disintegrata e disintegrante." L'altro testo, Amore, è invece ispirato alla Piccola apocalisse di Landolfi, sempre con Cavalcoli e Lagani. In un grande caffè straniero un poeta annuncia l'apocalisse, prima di essere rapito da una sconosciuta "in un vortice di immagini e suoni, verso una nuova lingua della sensazione, della sinestesia e dell'emozione". La misteriosa figura alla fine scomparirà, lasciando il regalo del sogno.
L'impossibile comunicare
Francesco Rapaccioni, teatro.org, 11 aprile 2008
Alimentato da infinite suggestioni letterarie, il sofisticato discorso narrativo di Tommaso Landolfi verte soprattutto sull'incontro-scontro fra istinto e ragione, fra inconscio e consapevolezza, registrato con ironia e controllato lirismo. Rinnovando continuamente la propria attenzione per gli uomini e le cose quotidiane, osservate con sguardo straniato, Landolfi ha elaborato una poetica della “paura” umana di fronte al misterioso e al paradossale del mondo.
I lavori di Fanny & Alexander, oltre che disturbare di proposito lo spettatore, suscitano sconcerto e turbamento ma aprono nuovi sentieri, finora non esplorati, che vale la pena di percorrere, di capire, abbandonando i propri codici mentali ed espressivi, gli schemi sociali e culturali, le lingue parlate e conosciute, le memorie pregresse, persino il controllo di se stessi.
Dopo il monumentale lavoro su “Ada” di Nabokov la compagnia prosegue l'indagine sulle misteriose strutture del linguaggio: l'indagine linguistica è operata intorno a un codice in relazione a certe opere o parti di opere, decodificate o riscritte. Ora tocca a Landolfi, intrecciato a “Il mago di Oz” con quelle streghe così landolfiane. “K.313” è tratto da “Breve canzoniere” mentre “Amore (due atti) dal racconto “Piccola Apocalisse” contenuto in “Dialogo dei massimi sistemi”.
In “K.313” due amanti dialogano, in un sottile gioco al massacro, sulle opere letterarie di lui, alternando sonetti e lettere ai loro commenti. Un mangiacassette riproduce musica di Mozart, da cui il titolo. Presto risulta chiaro che quello vissuto in scena dalla coppia non è un amore “per mezzo delle” parole ma un amore “per” le parole, che vengono messe in gioco lasciando intendere, come spesso in Landolfi, che tutto il discutere finirà con il dover rispondere ad altre domande, più sottili, più affilate, più penetranti. La drammaturgia intende ricreare il meccanismo intrinseco del testo utilizzando un apparato che traspone l'azione scenica altrove, confondendo le coordinate degli spettatori. Infatti le maschere da terroristi e la telecamera a raggi infrarossi che riprende la scena e la proietta alle spalle degli attori danno un senso di angoscia e aggiungono straniamento, quasi sconcerto. Il pubblico coglie i riferimenti più legati all'attualità ed al contesto abituale, finendo per guardare più lo schermo che gli attori. Il finale introduce una dimensione onirica esaltata dalle luci che si abbassano, dopo il realismo crudo dell'inizio. “Ciò che conta non è fare il verso alle armonie, ma raggiungere quella divina inconcludenza. Amico, amato, taci: cosa ci resterà?”
In “Amore (due atti) gli spettatori vengono introdotti in una camera claustrofobica in cui un uomo, assaporando miele, accarezza un bianco agnellino al quale annuncia l'apocalisse della società e dell'arte; i rumori di sottofondo situano l'azione in un ristorante. Poi entra una donna (“finalmente ti ho trovato”, ma si è nel buio più assoluto), “siamo oppressi da una pena, forse la stessa: usciamo per una passeggiata”, dice e il registro cambia. Sopra la testa degli spettatori si apre una finestra con nuvole e cielo azzurro, mentre una guida turistica descrive in inglese i monumenti di Ravenna. Landolfi dà l'idea dell'utopia di una lingua impossibile o dimenticata. E l'ipotetica distruzione di ogni codice di riferimento è esemplificato dalla scenografia, una stanzetta senza uscite luci stroboscopiche o buio assoluto cogli spettatori affrontati e stipati. D'altra parte che c'è di più convenzionale che il linguaggio? (Piccola apocalisse). Però, eliminando un linguaggio agganciato a codici conosciuti, che cosa resta? (Breve Canzoniere).
Non si raccontano situazioni ma si vivono stati d'animo. Attenzione però: la comunicazione è impossibile perchè la parola è vittima della finzione del linguaggio e deve perciò farsi suono, confrontarsi coi rumori, rimanere se stessa nel buio, nei colori, nelle luci flashanti. Al centro dell'indagine ci sono i sentimenti, associati all'evocazione di colori e rumori; “le parole non esprimono la luce e i colori se non per convenzione, bisogna dimenticare il significato, come le parole di una lingua che nessuno più conosce”: tristezza e dolore ROSSO versi e fruscii di uccelli; amore felice (il più grande di tutti i beni) GIALLO gemiti dell'amore; purezza VERDE una tempesta di vento, forse una valanga; amore fraterno AZZURRO le voci del telegiornale che raccontano l'attentato ceceno al cinema Dubrovka di Mosca (rimando a K.313); odio e protervia ROSA lingue di Menelik, trombette e giochi di bambini; amore infelice e corruzione ARANCIO gemiti di sofferenza e rumori indistinti echeggianti; gioia e serenità BIANCO il beep elettronico di una sveglia o di un allarme; opulenza e fasto terreno VIOLA rumori di qualcuno che sta fracassando tutto.
Si arriva alla fine affannati, turbati, ma eccitati, come dopo essersi arrampicati in cima alla torre di Babele. “Attenta, Madama, le vostre scarpine” dice l'uomo. E fuori dalla porta due scarpine e un cartello che mette in guardia D su quali estremi si possa raggiungere seguendo le intemperanze dell'immaginazione. Il racconto continua nel mondo di Oz insieme a Dorothy e alle streghe. Il viaggio continua.
Un dialogo sulle bombe: gli amanti notturni di K.313
Nico Garrone, La Repubblica - Roma, 17 aprile 2008
Presi in ostaggio dalle seduzioni luciferine del "Breve canzoniere" amoroso di Tommaso Landolfi. Nella penombra prossima al buio della notte, alla definitiva cancellazione, due amanti o due attori, Chiara Lagani e Marco Cavalcoli, vestiti con i passamontagna e le cinture esplosive in versione elegante dei terroristi ceceni uccisi durante l'attentato al Teatro Dubrovka di Mosca, fanno esplodere la girandola finale delle loro parole contrappuntate dalle note del concerto "K.313" di Mozart, titolo scelto anche per questo recital letterario. Li vediamo su un grande schermo ripresi live da una telecamerina armeggiare con microfoni e lettere; ascoltiamo catturati quel dialogo crepuscolare stanco e leggero come l'anima di Landolfi...
K.313
Paola Di Felice, il grido.org, 17 aprile 2008
K.313 è sia un Concerto per Flauto e Orchestra di Mozart, nume tutelare e modello retorico invocato per tutto lo spettacolo, ma anche il titolo di una delle opere più feroci di Tommaso Landolfi.
Lo spettacolo in scena al teatro Vascello di Roma, ha un duplice andamento. Se da una parte campeggiano le parole rarefatte e profondamente intime declamate dalla coppia in scena, dall'altra la ricercatezza degli abiti scintillanti, dei passamontagna e della borsetta esplosiva evocano il ricordo atroce del massacro del 2002 al teatro Dubrovka di Mosca, quando un gruppo di terroristi ceceni prese in ostaggio gli spettatori.
Naturalmente a teatro nessuno è preso in ostaggio, eppure lo stridere tra linguaggio sofisticato ed impalpabile e le crude immagini della telecamera a raggi infrarossi che riprendono live i due interpreti (Marco Cavalcoli e Chiara Lagani), generano straniamento. Un effetto che volutamente disorienta il pubblico, per condurlo ad un approccio critico nei confronti della letteratura e dell'AMORE, che da sempre ispira la poesia. Il "supremo fiore dello spirito" trova in questo recital letterario un'insolita rappresentazione teatrale, che oscilla tra la brutalità delle pagine più nere della storia contemporanea e la dimensione altra ed eterea della poesia; il tutto è sovrastato dai violenti scatti di flash luminosi che interrompono il dialogo, mostrando gli attori come corpi riversi sulle sedie e richiamando alla memoria le angoscianti immagini di ostaggi a cui siamo purtroppo avvezzi.
Ancora una volta la compagnia Fanny & Alexander si cimenta in una riduzione teatrale sperimentale, dedicata a un pubblico dal palato raffinato che ama confrontarsi con le contraddizioni ed il senso di ricerca del teatro e dell'arte in genere, senza mai risultare auto celebrativa o ridondante.
"K.313", l'orrore è un discorso che veste in abito da sera
Katia Ippaso, Liberazione, 11 maggio 2008
Può un abito diventare performance teatrale esso stesso? Può, con l’aggiunta o la sottrazione o la metamorfosi di qualche sua parte, arrivare a nominare qualcosa di molto intimo, il punto in cui il terrore fa spettacolo di sé nel tempo angosciante dell’attesa?
Ad osservare il costume di scena - scena minimale, fioca, irriducibile se non a se stessa - “abitato” da Chiara Lagani in K.313, il nuovo spettacolo di Fanny e Alexander, si direbbe di sì: un vestito da sera disegnato dalla stilista d’avanguardia Monica Bolzoni diventa, con i suoi buchi e i suoi lembi componibili, divisa da terrorista. Come “accessorio” una borsetta luccicante carica di esplosivo. Dietro c’è uno dei più grandi misteri di questo inizio millennio: il sequestro di 850 spettatori del Teatro Dubrovka a Mosca da parte di 40 militanti armati ceceni che il 23 ottobre del 2002 interruppero la messa in scena di un musical ambientato ai tempi di Stalin (come raccontarono i sopravvissuti, ci furono momenti in cui i terroristi con le armi puntate sul pubblico furono scambiati per attori): dopo quattro giorni di assedio, le forze speciali russe Osnaz pomparono un misterioso agente chimico all’interno del sistema di ventilazione. In un modo che ancora oggi risulta incomprensibile, nella sua drammaturgia onirica in cui il potere vero marcava i confini di un altrove, morirono in quei giorni freddi d’ottobre non solo i ceceni ma 129 ostaggi.
Se rivediamo oggi le immagini di quell’assedio, entriamo in uno stato di ipnosi: l’ambientazione teatrale, gli spettatori accasciati sulle sedie, sempre più apatici, alcuni già disposti a morire, le aspiranti kamikaze che si siedono vicino a loro e parlano, parlano di arte, della condizione della donna nell’Islam, parlano e aspettano. Fino alla morte nel sonno, con i liberatori che diventano gli assassini. E’ forse proprio per la sua metafisica teatrale, per la scrittura su corpo della follia umana al lavoro, che Fanny e Alexander hanno pensato di tenere l’assedio del teatro di Mosca come immagine subliminale di un lavoro delicatissimo, che porta la musica e la letteratura nel ventre.
Con le note di Mozart, K.313 spara sul pubblico (sì, spara), un’opera intima e controversa. Letteralmente, sarebbe un recital. Le parole sono di Tommaso Landolfi, voce irriducibile, straniante, della nostra più alta letteratura. L’opera in questione èBreve canzoniere. Un frammento di dialogo che è umanamente impossibile spostare da dove è, tanto è millimetrico il movimento che va dall’uomo alla donna e all’uomo ritorna, in un match alchemico, spinoso, per sua natura refrattario ad ogni parafrasi. Con una partitura/dettatura di voci sottili, Marco Cavalcoli e Chiara Lagani (diretti da Luigi De Angelis) hanno saputo entrare in quella stanza privata come se tutta la vita non avessero frequentato altro. Di per sé, trovare la sonorità giusta per la condizione angosciata di questo breve canzoniere è già un piccolo miracolo. Ma Fanny & Alexander hanno fatto molto di più. Hanno cercato il punto di fusione tra letteratura e crimine, attraverso il teatro, con l’aiuto di Monica Bolzoni, fashion designer indipendente, voce fuori dal coro, che nel passato ha firmato con i suoi segni di terra le performance di Vanessa Breecroft.
L’uomo e la donna che si preparano a bucarsi l’anima confrontandosi su alcuni scritti incompiuti, si vestono sotto gli occhi dello spettatore con abiti eleganti, come se dovessero andare a teatro. L’uomo si sente un fallito, e i commenti della ragazza sui suoi frammenti non fanno che mortificare ancora di più il suo ego. E’ un assedio reciproco (quanto è feroce dirsi la verità), che lo spettatore può seguire fissando i due attori sul palcoscenico oppure le loro immagini catturate e sporcate da una telecamera a circuito chiuso.
Con il passamontagna e l’esplosivo incollato alla pancia, Chiara e Marco sono contemporaneamente l’uomo e la donna di Landolfi inerpicati sulla dolorosa diagnosi della condizione umana, una coppia di spettatori e una coppia di terroristi che, non si sa come, non si sa perché, dilata all’infinito il momento del massacro. Ancora in vita, questi due personaggi tessono il lavoro della morte in una trama poetica che ha dell’incredibile, tanto è esatta la gamma delle emozioni convocate sulla scena teatrale.
Nell’immagine grigia dei due incappucciati che registrano le loro stesse voci, come a cercare di fissare qualcosa che di per sé sfugge a qualunque spiegazione umana, c’è un enigma. Per lasciarlo parlare, si è scelto di togliere ogni colore, ogni spiegazione e ogni inflessione che potesse distrarre dalla paura stessa. E’ in quel preciso punto di luce “neutra” che si sono incontrati teatro e moda: “Il nostro è un neutro preciso, è un contenuto, è un momento, un’icona definita della storia del costume - dice Monica Bolzoni parlando con Chiara Lagani dopo una replica dello spettacolo -. Quest’immagine che abbiamo creato può diventare un’icona della paura e durare a lungo ma qui finisce, non è ripetibile. E’ un sentire mio che si collega ad un sentire vostro, a Landolfi, è un filo rosso che inspiegabilmente ci unisce. Io rappresento attraverso il vestito qualcosa che appartiene a tutti noi, interpreto uno stato d’animo”.
K.313 riprenderà la tournèe a ottobre da Milano (Teatro Out Off). Ma sono tanti i segni del teatro di Fanny e Alexander che potremo intercettare quest’estate: Kansas(5-7 giugno al festival delle Colline Torinesi e il 12 e 13 luglio a Santarcangelo),Emerald City (11-15 luglio a Santarcangelo) ed East ( 26-28 luglio al festival Drodesera).
I versi degli amanti-terroristi
Franco Cordelli, Il Corriere della Sera, 3 agosto 2008
Il regista Luigi de Angelis e la drammaturga Chiara Lagani (Fanny & Alexander) lavorano per serie. K.313 è, della serie dedicata a Tommaso Landolfi, il secondo spettacolo: debole come il primo, Amore. Ma nel primo c'era un'immagine forte, quella del suo interprete Marco Cavalcoli con un agnellino in braccio. L'immagine diK.313 è sopraffatta dalle intenzioni dei suoi autori.
Già è complicato il punto di partenza, Breve canzoniere di Landolfi, un prosimetro che esibisce numerose caratteristiche: non solo, come è proprio del prosimetro, una miscela di prosa e versi; ma anche il restauro del sonetto (siamo nel 1971), come più tardi avverrà in libri di Zanzotto, Raboni, Bandini, Valduga; e una serie di incipit narrativi, come nel 1979 in Se una notte d'inverno di Calvino. Altra peculiarità, ripresa nello spettacolo: nel romanzo di Landolfi, se così lo vogliamo chiamare, non vi è che dialogo tra i due protagonisti, i due amanti; il loro problema, in fondo, è l'autenticità, ovvero la durata, del loro amore: che in altri termini è la durata, ovvero l'autenticità, del loro linguaggio: da cui lo sbocco finale nel concerto di Mozart che dà il titolo allo spettacolo. A complicare le cose c'è l'interpretazione, cioè la sovrapposizione visiva adibita da Monica Bolzoni che ha disegnato i costumi.
I due interpreti, Cavalcoli e la Lagani, sono vestiti come i terroristi ceceni di Mosca nel 2002. Non solo. La loro immagine è raddoppiata in un film che scorre alle spalle dei dialoganti. Perché? Perché, secondo la Lagani, il linguaggio di Landolfi è a suo modo terroristico. A certificare la gratuità di questo accostamento c'è il modo in cui gli attori recitano - non caustico e sferzante, come in Landolfi, che fa del suo testo un'antifrasi del concerto K.313, e che dunque dà all'insieme un senso davvero critico, o moderno (non già "terroristico") - ma in modo quotidiano, feriale, come tra due amanti che siano sfibrati dal proprio amore, più che come amanti che il loro amore vogliano mettere alla prova di una parola conclusiva, quella che tende alla propria trasformazione in musica. Dice lei, verso la fine: "O vorresti davvero, oseresti sgomentare Mozart dalla sua tomba e porre i nostri ciechi balbettii sotto il suo santo patrocinio?" Più tardi, lui risponde: "Ciò che conta non è fare il verso alle armonie, ma raggiungere quella divina inconcludenza... Cara! quanto disadorno, il nostro proprio discorso, quanto avverso a ogni musica dell'animo come dei sensi; che parole irte, cupe, trite, logore, polverose, le nostre".
Ecco, la Lagani e Cavalcoli, irriconoscibile rispetto all'attore maiuscolo, grandissimo che avevamo apprezzato in Him (della serie Il mago di Oz), letteralmente parlano con parole che risultano "irte, cupe, trite, logore, polverose", insomma opache e, per lo spettatore, sommamente noiose. Nel semibuio, ovvero nella semi-cecità delle bende e del "cinema", essi si siedono, si mascherano, si gingillano, finiscono per destituire di ogni fondamento e tragicità la scena. Con i loro costumi-maschere che, in quanto firmati, restano nel mero circuito linguistico-artistico-duchampiano, evocando costumi-travestimenti sobri e austeri fino alla morte, dovrebbero innalzare, come fosse necessario, al rango dell'autenticità dell'oggi il testo di ieri. Finiscono, al contrario, per annichilire il testo di ieri - e il suo sbocco nella gloria di Mozart - sprofondandoli nel "sistema della moda" evocato da Monica Bolzoni, o nella poltiglia del web, così spesso citato da Chiara Lagani.
Il teatro spericolato di Fanny & Alexander
Simona Spaventa, www.luxury24.ilsole24ore.com, 23 ottobre 2008
In Aqua Marina avevano nascosto le attrici dietro sipari mutevoli, di plastica o velluto rosso, che lasciavano solo intuire i corpi e i movimenti, costringendo lo spettatore alla parte del detective o dell'involontario voyeur. In Vaniada il pubblico entrava in una sorta di imbuto stretto e buio, dove lo avvolgevano voci, suoni, perfino odori. È un teatro spericolato, in equilibrio tra performance, videoarte e installazione, quello dei Fanny & Alexander, compagnia (ma loro, Chiara Lagani e Luigi de Angelis, preferiscono definirsi "bottega d'arte") di punta della nostra ricerca già dagli anni '90, raffinatissimi alchimisti che mescolano linguaggi e allusioni senza indulgere al compiacimento, ma con rigore e necessità. Per questo, è una bella occasione quella che offre il Teatro Out Off di Milano (dove, peraltro, non capita così di frequente di poterli vedere), che dal 21 al 26 ottobre ospita due delle ultime creazioni del gruppo emiliano, tappe di due progetti distinti, uno sul Mago di Oz, l'altro su Tommaso Landolfi. Lavori diversissimi, eppure vicini per forza visiva e per l'uso di immagini sconvolgenti che vengono direttamente della cronaca e dalla storia recenti. In Him c'è un Hitler in ginocchio (omaggio a Maurizio Cattelan) che si ostina a doppiare bulimicamente tutti i personaggi, e perfino i rumori, del Mago di Oz, il film di Fleming del '39 con Judy Garland, proiettato alle sue spalle. Una prova estrema e sfinente per l'attore, Marco Cavalcoli, un gioco ironico e stupefacente per il pubblico, messo di fronte a una vertigine a prima vista senza senso, che pone domande scomode sul ruolo dell'artista e sul rapporto tra arte e potere. L'altro spettacolo si intitola K313 come la sonata per flauto e orchestra di Mozart, che aleggia distorta dai registratori di un uomo e una donna. Elegantissimi (gli abiti sono della stilista Monica Bolzoni) e glaciali, si scambiano le parole di amore impossibile del Breve canzoniere di Tommaso Landolfi. Nel frattempo, ripresi in diretta da una videocamera a infrarossi, indossano accessori inquietanti: una scintillante borsetta-esplosivo, dei passamontagna. E allora capiamo: sono i terroristi ceceni che nel 2002 presero in ostaggio il pubblico del Teatro Dubrovka di Mosca. Un "recital letterario" disturbante, che non concede sconti allo spettatore.
Lorenzo Donati, Hystrio n. 2, aprile-giugno 2008
Quando una società mette a fondamento dei suoi luoghi di potere la produzione di immagini, è lecito domandarsi quale spazio o ruolo possa ritagliarsi l'arte nel dominio dell'immaginazione. Se il confine fra realtà e finzione è diluito in un presente mediatico, viene il sospetto che siano paradossalmente poche le immagini che ci circondano, perché quelle in circolazione sono consumate, già servite con una corrotta e univoca decodificazione. Da qui potremmo partire per avvicinarci a due lavori di Fanny & Alexander, due rivoli produttivamente meno impegnativi rispetto agli ultimi Dorothy. Sconcerto per Oz e Amore (2 atti). Al Nobodaddy di Ravenna si sono visti insieme, nella forma del dittico, due spettacoli apparentemente antitetici eppure percorsi dalla stessa tensione. K.313, tratto dal Breve Canzoniere di Tommaso Landolfi,si apre con due attori, uomo e donna, che preparano la scena disponendo pochi oggetti su un tavolino. Una videocamera li rimanda sul grande schermo alle loro spalle, in un bianco e nero che rievoca la sgranatura dei video dei terroristi. Indossati dei passamontagna e seduti al tavolino, inizieranno un dialogo sulla poesia che scivola di continuo in una discussione amorosa, una richiesta dell'uomo di giudicare principi, sonetti e lettere che si risolverà in un'indagine sulla vita e sul linguaggio, spinto verso una «divina inconcludenza» come la musica di Mozart del titolo. Him pare un tentativo in questa direzione, e quello stesso schermo ora proietta il film Il mago di Oz di Victor Fleming del 1939. Sotto alle immagini sta un attore in ginocchio come dirigendo un'orchestra, impegnato a doppiare tutti i personaggi, dalla bambina Dorothy all'uomo di latta, dalla strega cattiva fino al ciarlatano mago di Oz. Ma c'è un dato ancora più evidente a unire i due lavori, ed è la scelta delle icone che veicolano il racconto: Marco Cavalcoli/Him dà voce al film nei panni di un Hitler bambino, citazione di un'opera di Maurizio Cattelan, mentre i dialoganti di K.313, sul finale, reclinano il capo evocando l'episodio del sequestro del pubblico al Teatro Dubrovka di Mosca da parte di terroristi ceceni. Perché il trascinante doppiaggio viene eseguito da una figura di morte? Come mai il precedente dialogo d'amore e d'arte si raggela citando la cronaca? Dopo la visione di questo dittico, ci accorgiamo che non sappiamo come maneggiarle, queste immagini, non possediamo nessuna etichetta pronta per archiviarle. Rimangono sospese, poi affondano con fastidio nel nostro bagaglio di codici interpretativi, infine, come un guizzo, riemergeranno insieme alla questione iniziale sul ruolo dell'arte in questa nostra società.
K.313
Andrea Monti, TeatroTeatro.it, aprile 2008
Due attori prendono in ostaggio il cervello del pubblico costringendolo a combattere con le immagini evocate dalle parole, contornate dai costumi, replicate dalla telecamera infrarossi e quelle imposte dalla memoria. Si torna al 2002, quando un gruppo di ceceni entra in scena durante uno spettacolo nel Teatro Dubrovka di Mosca. Il loro gesto drammaticamente disperato e irriverente mostra rispetto nei confronti dell’arte teatrale, animata da stravolgimenti, arricchita dalle sorprese, inarrivabile quando riesce a lambire la morte rappresentando lo smarrimento.
Con la stessa dedizione alla perdita, Marco Cavalcoli e Chiara Lagani si abbandonano ai versi di Landolfi, sfiorano le figure che lo scrittore tratteggia, credono alla sua capacità di condurli verso l’oblio senza accennare resistenza alcuna. Trovato il loro mentore, come terroristi, lasciano brandelli di messaggi accompagnati dalla musica di Mozart che sale col flauto e non con il corno. Sullo sfondo ancora uno schermo dove sgranate appaiono le immagini dei due erranti amanti in cerca di una via d’uscita dalla trincea nella quale sono costretti a rifugiarsi una volta persa la capacità di comunicarsi amore. Forse uno scrive e l’altra commenta. Forse chi commenta è lo stesso che scrive, come Penelope disfa ciò che tesse, come l’artista distrugge ciò che più rivela la perfezione e l’impossibilità di raggiungerla più di una volta.
Luigi de Angelis, in cerca di annullamento, gioca con la tecnologia passando da vecchie audio cassette a flash pronti a regalare sprazzi di ribalta a chi trapassa. La voce registrata, le immagini in diretta con un’angolatura diversa, il volume della musica che varia a seconda della posizione del microfono insomma tanta vecchia tecnologia a rendere caldo un ambiente apparentemente neutro, una recitazione a levare, un’astrazione ricercata da Cavalcoli quando stende le gambe rilassandosi, dalla Lagani quando accende sigarette, da entrambi quando si affidano ai dadi.
In assenza di azione e di toni che vivifichino gli interpreti, la strada dell’annullamento risulta evidente fin dalle prime battute. In sintonia con il testo di Landolfi e la fine drammatica dei terroristi ceceni la luce degli interpreti si spegne lentamente, inesorabilmente scivola via la vita dalle loro muscolature, verso un rilassamento che aiuta il pubblico a soffermarsi sull’immagine indelebile di chi è entrato in un teatro e, per amore della propria terra, per follia, disperazione, idealismo o incapacità di sovvertire altrimenti le sorti di un popolo oppresso, lega la propria vita ad una bomba, che Monica Bolzoni riproduce come una scintillante borsetta. L’astrazione tanto evocata si impossessa del pubblico che naviga in oscure acque cullato da versi e musica ma costantemente messo in discussione da un’immagine da cui è impossibile affrancarsi.
Landolfi messo in scena da Fanny & Alexander
Pierfrancesco Giannangeli, Il Messaggero - Macerata, 9 aprile 2008
Figura centrale, indipendente, originale della letteratura del Novecento, Tommaso Landolfi è l'oggetto di studio degli ultimi lavori della compagnia Fanny & Alexander. Dell'autore nato a Pico Farnese nel 1908 e morto a Ronciglione nel 1979, quest'anno si celebra il centenario della nascita e il gruppo ravennate, uno dei principali della ricerca italiana che si sviluppata all'inizio degli anni Novanta, porta in scena due suggestioni che dai testi di Landolfi partono: si intitolano K.313 e Amore. Gli spettacoli saranno in scena questa sera e domani al cineteatro Italia e al Teatro Lauro Rossi di Macerata, con inizio alle ore 21. La permanenza in città della compagnia sarà accompagnata anche da due incontri: il primo si svolgerà stasera al termine dello spettacolo all'Italia, con il giovane critico Rodolfo Sacchettini, l'altro verrà ospitato nell'auditorium Svoboda dell'Accademia di Belle Arti (via Berardi, 6) domani mattina alle ore 11.30.
Tommaso Landolfi è uno scrittore affascinante, dalla lingua ricercata e barocca, gotica e grottesca. Anche la sua vita si è dipanata interamente fuori dai circuiti, tra la casa di Pico Farnese e Roma, dove però lo scrittore si è sempre tenuto assai lontano dai salotti che contavano. I velluti preferiti da Landolfi sono stati invece quelli dei casinò di Sanremo e Venezia, dove ha assecondato la sua passione per il gioco e dai quali, probabilmente, ha tratto ispirazione per l'universo umano che ha riempito i suoi scritti. Nei due testi in scena a Macerata si parla di amore. K.313 è interpretato da Marco Cavalcoli e Chiara Lagani, la regia è invece di Luigi de Angelis. L'ambientazione è quella del teatro Dubrovka di Mosca, dove un commando ceceno nel 2002 prese tragicamente in ostaggio gli spettatori di un musical. Le parole sono quelle di due amanti "impegnati - si legge nelle note - in un dialogo utopico che diventa riflessione sul linguaggio amoroso quale lingua impossibile, disintegrata e disintegrante." L'altro testo, Amore, è invece ispirato alla Piccola apocalisse di Landolfi, sempre con Cavalcoli e Lagani. In un grande caffè straniero un poeta annuncia l'apocalisse, prima di essere rapito da una sconosciuta "in un vortice di immagini e suoni, verso una nuova lingua della sensazione, della sinestesia e dell'emozione". La misteriosa figura alla fine scomparirà, lasciando il regalo del sogno.
L'impossibile comunicare
Francesco Rapaccioni, teatro.org, 11 aprile 2008
Alimentato da infinite suggestioni letterarie, il sofisticato discorso narrativo di Tommaso Landolfi verte soprattutto sull'incontro-scontro fra istinto e ragione, fra inconscio e consapevolezza, registrato con ironia e controllato lirismo. Rinnovando continuamente la propria attenzione per gli uomini e le cose quotidiane, osservate con sguardo straniato, Landolfi ha elaborato una poetica della “paura” umana di fronte al misterioso e al paradossale del mondo.
I lavori di Fanny & Alexander, oltre che disturbare di proposito lo spettatore, suscitano sconcerto e turbamento ma aprono nuovi sentieri, finora non esplorati, che vale la pena di percorrere, di capire, abbandonando i propri codici mentali ed espressivi, gli schemi sociali e culturali, le lingue parlate e conosciute, le memorie pregresse, persino il controllo di se stessi.
Dopo il monumentale lavoro su “Ada” di Nabokov la compagnia prosegue l'indagine sulle misteriose strutture del linguaggio: l'indagine linguistica è operata intorno a un codice in relazione a certe opere o parti di opere, decodificate o riscritte. Ora tocca a Landolfi, intrecciato a “Il mago di Oz” con quelle streghe così landolfiane. “K.313” è tratto da “Breve canzoniere” mentre “Amore (due atti) dal racconto “Piccola Apocalisse” contenuto in “Dialogo dei massimi sistemi”.
In “K.313” due amanti dialogano, in un sottile gioco al massacro, sulle opere letterarie di lui, alternando sonetti e lettere ai loro commenti. Un mangiacassette riproduce musica di Mozart, da cui il titolo. Presto risulta chiaro che quello vissuto in scena dalla coppia non è un amore “per mezzo delle” parole ma un amore “per” le parole, che vengono messe in gioco lasciando intendere, come spesso in Landolfi, che tutto il discutere finirà con il dover rispondere ad altre domande, più sottili, più affilate, più penetranti. La drammaturgia intende ricreare il meccanismo intrinseco del testo utilizzando un apparato che traspone l'azione scenica altrove, confondendo le coordinate degli spettatori. Infatti le maschere da terroristi e la telecamera a raggi infrarossi che riprende la scena e la proietta alle spalle degli attori danno un senso di angoscia e aggiungono straniamento, quasi sconcerto. Il pubblico coglie i riferimenti più legati all'attualità ed al contesto abituale, finendo per guardare più lo schermo che gli attori. Il finale introduce una dimensione onirica esaltata dalle luci che si abbassano, dopo il realismo crudo dell'inizio. “Ciò che conta non è fare il verso alle armonie, ma raggiungere quella divina inconcludenza. Amico, amato, taci: cosa ci resterà?”
In “Amore (due atti) gli spettatori vengono introdotti in una camera claustrofobica in cui un uomo, assaporando miele, accarezza un bianco agnellino al quale annuncia l'apocalisse della società e dell'arte; i rumori di sottofondo situano l'azione in un ristorante. Poi entra una donna (“finalmente ti ho trovato”, ma si è nel buio più assoluto), “siamo oppressi da una pena, forse la stessa: usciamo per una passeggiata”, dice e il registro cambia. Sopra la testa degli spettatori si apre una finestra con nuvole e cielo azzurro, mentre una guida turistica descrive in inglese i monumenti di Ravenna. Landolfi dà l'idea dell'utopia di una lingua impossibile o dimenticata. E l'ipotetica distruzione di ogni codice di riferimento è esemplificato dalla scenografia, una stanzetta senza uscite luci stroboscopiche o buio assoluto cogli spettatori affrontati e stipati. D'altra parte che c'è di più convenzionale che il linguaggio? (Piccola apocalisse). Però, eliminando un linguaggio agganciato a codici conosciuti, che cosa resta? (Breve Canzoniere).
Non si raccontano situazioni ma si vivono stati d'animo. Attenzione però: la comunicazione è impossibile perchè la parola è vittima della finzione del linguaggio e deve perciò farsi suono, confrontarsi coi rumori, rimanere se stessa nel buio, nei colori, nelle luci flashanti. Al centro dell'indagine ci sono i sentimenti, associati all'evocazione di colori e rumori; “le parole non esprimono la luce e i colori se non per convenzione, bisogna dimenticare il significato, come le parole di una lingua che nessuno più conosce”: tristezza e dolore ROSSO versi e fruscii di uccelli; amore felice (il più grande di tutti i beni) GIALLO gemiti dell'amore; purezza VERDE una tempesta di vento, forse una valanga; amore fraterno AZZURRO le voci del telegiornale che raccontano l'attentato ceceno al cinema Dubrovka di Mosca (rimando a K.313); odio e protervia ROSA lingue di Menelik, trombette e giochi di bambini; amore infelice e corruzione ARANCIO gemiti di sofferenza e rumori indistinti echeggianti; gioia e serenità BIANCO il beep elettronico di una sveglia o di un allarme; opulenza e fasto terreno VIOLA rumori di qualcuno che sta fracassando tutto.
Si arriva alla fine affannati, turbati, ma eccitati, come dopo essersi arrampicati in cima alla torre di Babele. “Attenta, Madama, le vostre scarpine” dice l'uomo. E fuori dalla porta due scarpine e un cartello che mette in guardia D su quali estremi si possa raggiungere seguendo le intemperanze dell'immaginazione. Il racconto continua nel mondo di Oz insieme a Dorothy e alle streghe. Il viaggio continua.
Un dialogo sulle bombe: gli amanti notturni di K.313
Nico Garrone, La Repubblica - Roma, 17 aprile 2008
Presi in ostaggio dalle seduzioni luciferine del "Breve canzoniere" amoroso di Tommaso Landolfi. Nella penombra prossima al buio della notte, alla definitiva cancellazione, due amanti o due attori, Chiara Lagani e Marco Cavalcoli, vestiti con i passamontagna e le cinture esplosive in versione elegante dei terroristi ceceni uccisi durante l'attentato al Teatro Dubrovka di Mosca, fanno esplodere la girandola finale delle loro parole contrappuntate dalle note del concerto "K.313" di Mozart, titolo scelto anche per questo recital letterario. Li vediamo su un grande schermo ripresi live da una telecamerina armeggiare con microfoni e lettere; ascoltiamo catturati quel dialogo crepuscolare stanco e leggero come l'anima di Landolfi...
K.313
Paola Di Felice, il grido.org, 17 aprile 2008
K.313 è sia un Concerto per Flauto e Orchestra di Mozart, nume tutelare e modello retorico invocato per tutto lo spettacolo, ma anche il titolo di una delle opere più feroci di Tommaso Landolfi.
Lo spettacolo in scena al teatro Vascello di Roma, ha un duplice andamento. Se da una parte campeggiano le parole rarefatte e profondamente intime declamate dalla coppia in scena, dall'altra la ricercatezza degli abiti scintillanti, dei passamontagna e della borsetta esplosiva evocano il ricordo atroce del massacro del 2002 al teatro Dubrovka di Mosca, quando un gruppo di terroristi ceceni prese in ostaggio gli spettatori.
Naturalmente a teatro nessuno è preso in ostaggio, eppure lo stridere tra linguaggio sofisticato ed impalpabile e le crude immagini della telecamera a raggi infrarossi che riprendono live i due interpreti (Marco Cavalcoli e Chiara Lagani), generano straniamento. Un effetto che volutamente disorienta il pubblico, per condurlo ad un approccio critico nei confronti della letteratura e dell'AMORE, che da sempre ispira la poesia. Il "supremo fiore dello spirito" trova in questo recital letterario un'insolita rappresentazione teatrale, che oscilla tra la brutalità delle pagine più nere della storia contemporanea e la dimensione altra ed eterea della poesia; il tutto è sovrastato dai violenti scatti di flash luminosi che interrompono il dialogo, mostrando gli attori come corpi riversi sulle sedie e richiamando alla memoria le angoscianti immagini di ostaggi a cui siamo purtroppo avvezzi.
Ancora una volta la compagnia Fanny & Alexander si cimenta in una riduzione teatrale sperimentale, dedicata a un pubblico dal palato raffinato che ama confrontarsi con le contraddizioni ed il senso di ricerca del teatro e dell'arte in genere, senza mai risultare auto celebrativa o ridondante.
"K.313", l'orrore è un discorso che veste in abito da sera
Katia Ippaso, Liberazione, 11 maggio 2008
Può un abito diventare performance teatrale esso stesso? Può, con l’aggiunta o la sottrazione o la metamorfosi di qualche sua parte, arrivare a nominare qualcosa di molto intimo, il punto in cui il terrore fa spettacolo di sé nel tempo angosciante dell’attesa?
Ad osservare il costume di scena - scena minimale, fioca, irriducibile se non a se stessa - “abitato” da Chiara Lagani in K.313, il nuovo spettacolo di Fanny e Alexander, si direbbe di sì: un vestito da sera disegnato dalla stilista d’avanguardia Monica Bolzoni diventa, con i suoi buchi e i suoi lembi componibili, divisa da terrorista. Come “accessorio” una borsetta luccicante carica di esplosivo. Dietro c’è uno dei più grandi misteri di questo inizio millennio: il sequestro di 850 spettatori del Teatro Dubrovka a Mosca da parte di 40 militanti armati ceceni che il 23 ottobre del 2002 interruppero la messa in scena di un musical ambientato ai tempi di Stalin (come raccontarono i sopravvissuti, ci furono momenti in cui i terroristi con le armi puntate sul pubblico furono scambiati per attori): dopo quattro giorni di assedio, le forze speciali russe Osnaz pomparono un misterioso agente chimico all’interno del sistema di ventilazione. In un modo che ancora oggi risulta incomprensibile, nella sua drammaturgia onirica in cui il potere vero marcava i confini di un altrove, morirono in quei giorni freddi d’ottobre non solo i ceceni ma 129 ostaggi.
Se rivediamo oggi le immagini di quell’assedio, entriamo in uno stato di ipnosi: l’ambientazione teatrale, gli spettatori accasciati sulle sedie, sempre più apatici, alcuni già disposti a morire, le aspiranti kamikaze che si siedono vicino a loro e parlano, parlano di arte, della condizione della donna nell’Islam, parlano e aspettano. Fino alla morte nel sonno, con i liberatori che diventano gli assassini. E’ forse proprio per la sua metafisica teatrale, per la scrittura su corpo della follia umana al lavoro, che Fanny e Alexander hanno pensato di tenere l’assedio del teatro di Mosca come immagine subliminale di un lavoro delicatissimo, che porta la musica e la letteratura nel ventre.
Con le note di Mozart, K.313 spara sul pubblico (sì, spara), un’opera intima e controversa. Letteralmente, sarebbe un recital. Le parole sono di Tommaso Landolfi, voce irriducibile, straniante, della nostra più alta letteratura. L’opera in questione èBreve canzoniere. Un frammento di dialogo che è umanamente impossibile spostare da dove è, tanto è millimetrico il movimento che va dall’uomo alla donna e all’uomo ritorna, in un match alchemico, spinoso, per sua natura refrattario ad ogni parafrasi. Con una partitura/dettatura di voci sottili, Marco Cavalcoli e Chiara Lagani (diretti da Luigi De Angelis) hanno saputo entrare in quella stanza privata come se tutta la vita non avessero frequentato altro. Di per sé, trovare la sonorità giusta per la condizione angosciata di questo breve canzoniere è già un piccolo miracolo. Ma Fanny & Alexander hanno fatto molto di più. Hanno cercato il punto di fusione tra letteratura e crimine, attraverso il teatro, con l’aiuto di Monica Bolzoni, fashion designer indipendente, voce fuori dal coro, che nel passato ha firmato con i suoi segni di terra le performance di Vanessa Breecroft.
L’uomo e la donna che si preparano a bucarsi l’anima confrontandosi su alcuni scritti incompiuti, si vestono sotto gli occhi dello spettatore con abiti eleganti, come se dovessero andare a teatro. L’uomo si sente un fallito, e i commenti della ragazza sui suoi frammenti non fanno che mortificare ancora di più il suo ego. E’ un assedio reciproco (quanto è feroce dirsi la verità), che lo spettatore può seguire fissando i due attori sul palcoscenico oppure le loro immagini catturate e sporcate da una telecamera a circuito chiuso.
Con il passamontagna e l’esplosivo incollato alla pancia, Chiara e Marco sono contemporaneamente l’uomo e la donna di Landolfi inerpicati sulla dolorosa diagnosi della condizione umana, una coppia di spettatori e una coppia di terroristi che, non si sa come, non si sa perché, dilata all’infinito il momento del massacro. Ancora in vita, questi due personaggi tessono il lavoro della morte in una trama poetica che ha dell’incredibile, tanto è esatta la gamma delle emozioni convocate sulla scena teatrale.
Nell’immagine grigia dei due incappucciati che registrano le loro stesse voci, come a cercare di fissare qualcosa che di per sé sfugge a qualunque spiegazione umana, c’è un enigma. Per lasciarlo parlare, si è scelto di togliere ogni colore, ogni spiegazione e ogni inflessione che potesse distrarre dalla paura stessa. E’ in quel preciso punto di luce “neutra” che si sono incontrati teatro e moda: “Il nostro è un neutro preciso, è un contenuto, è un momento, un’icona definita della storia del costume - dice Monica Bolzoni parlando con Chiara Lagani dopo una replica dello spettacolo -. Quest’immagine che abbiamo creato può diventare un’icona della paura e durare a lungo ma qui finisce, non è ripetibile. E’ un sentire mio che si collega ad un sentire vostro, a Landolfi, è un filo rosso che inspiegabilmente ci unisce. Io rappresento attraverso il vestito qualcosa che appartiene a tutti noi, interpreto uno stato d’animo”.
K.313 riprenderà la tournèe a ottobre da Milano (Teatro Out Off). Ma sono tanti i segni del teatro di Fanny e Alexander che potremo intercettare quest’estate: Kansas(5-7 giugno al festival delle Colline Torinesi e il 12 e 13 luglio a Santarcangelo),Emerald City (11-15 luglio a Santarcangelo) ed East ( 26-28 luglio al festival Drodesera).
I versi degli amanti-terroristi
Franco Cordelli, Il Corriere della Sera, 3 agosto 2008
Il regista Luigi de Angelis e la drammaturga Chiara Lagani (Fanny & Alexander) lavorano per serie. K.313 è, della serie dedicata a Tommaso Landolfi, il secondo spettacolo: debole come il primo, Amore. Ma nel primo c'era un'immagine forte, quella del suo interprete Marco Cavalcoli con un agnellino in braccio. L'immagine diK.313 è sopraffatta dalle intenzioni dei suoi autori.
Già è complicato il punto di partenza, Breve canzoniere di Landolfi, un prosimetro che esibisce numerose caratteristiche: non solo, come è proprio del prosimetro, una miscela di prosa e versi; ma anche il restauro del sonetto (siamo nel 1971), come più tardi avverrà in libri di Zanzotto, Raboni, Bandini, Valduga; e una serie di incipit narrativi, come nel 1979 in Se una notte d'inverno di Calvino. Altra peculiarità, ripresa nello spettacolo: nel romanzo di Landolfi, se così lo vogliamo chiamare, non vi è che dialogo tra i due protagonisti, i due amanti; il loro problema, in fondo, è l'autenticità, ovvero la durata, del loro amore: che in altri termini è la durata, ovvero l'autenticità, del loro linguaggio: da cui lo sbocco finale nel concerto di Mozart che dà il titolo allo spettacolo. A complicare le cose c'è l'interpretazione, cioè la sovrapposizione visiva adibita da Monica Bolzoni che ha disegnato i costumi.
I due interpreti, Cavalcoli e la Lagani, sono vestiti come i terroristi ceceni di Mosca nel 2002. Non solo. La loro immagine è raddoppiata in un film che scorre alle spalle dei dialoganti. Perché? Perché, secondo la Lagani, il linguaggio di Landolfi è a suo modo terroristico. A certificare la gratuità di questo accostamento c'è il modo in cui gli attori recitano - non caustico e sferzante, come in Landolfi, che fa del suo testo un'antifrasi del concerto K.313, e che dunque dà all'insieme un senso davvero critico, o moderno (non già "terroristico") - ma in modo quotidiano, feriale, come tra due amanti che siano sfibrati dal proprio amore, più che come amanti che il loro amore vogliano mettere alla prova di una parola conclusiva, quella che tende alla propria trasformazione in musica. Dice lei, verso la fine: "O vorresti davvero, oseresti sgomentare Mozart dalla sua tomba e porre i nostri ciechi balbettii sotto il suo santo patrocinio?" Più tardi, lui risponde: "Ciò che conta non è fare il verso alle armonie, ma raggiungere quella divina inconcludenza... Cara! quanto disadorno, il nostro proprio discorso, quanto avverso a ogni musica dell'animo come dei sensi; che parole irte, cupe, trite, logore, polverose, le nostre".
Ecco, la Lagani e Cavalcoli, irriconoscibile rispetto all'attore maiuscolo, grandissimo che avevamo apprezzato in Him (della serie Il mago di Oz), letteralmente parlano con parole che risultano "irte, cupe, trite, logore, polverose", insomma opache e, per lo spettatore, sommamente noiose. Nel semibuio, ovvero nella semi-cecità delle bende e del "cinema", essi si siedono, si mascherano, si gingillano, finiscono per destituire di ogni fondamento e tragicità la scena. Con i loro costumi-maschere che, in quanto firmati, restano nel mero circuito linguistico-artistico-duchampiano, evocando costumi-travestimenti sobri e austeri fino alla morte, dovrebbero innalzare, come fosse necessario, al rango dell'autenticità dell'oggi il testo di ieri. Finiscono, al contrario, per annichilire il testo di ieri - e il suo sbocco nella gloria di Mozart - sprofondandoli nel "sistema della moda" evocato da Monica Bolzoni, o nella poltiglia del web, così spesso citato da Chiara Lagani.
Il teatro spericolato di Fanny & Alexander
Simona Spaventa, www.luxury24.ilsole24ore.com, 23 ottobre 2008
In Aqua Marina avevano nascosto le attrici dietro sipari mutevoli, di plastica o velluto rosso, che lasciavano solo intuire i corpi e i movimenti, costringendo lo spettatore alla parte del detective o dell'involontario voyeur. In Vaniada il pubblico entrava in una sorta di imbuto stretto e buio, dove lo avvolgevano voci, suoni, perfino odori. È un teatro spericolato, in equilibrio tra performance, videoarte e installazione, quello dei Fanny & Alexander, compagnia (ma loro, Chiara Lagani e Luigi de Angelis, preferiscono definirsi "bottega d'arte") di punta della nostra ricerca già dagli anni '90, raffinatissimi alchimisti che mescolano linguaggi e allusioni senza indulgere al compiacimento, ma con rigore e necessità. Per questo, è una bella occasione quella che offre il Teatro Out Off di Milano (dove, peraltro, non capita così di frequente di poterli vedere), che dal 21 al 26 ottobre ospita due delle ultime creazioni del gruppo emiliano, tappe di due progetti distinti, uno sul Mago di Oz, l'altro su Tommaso Landolfi. Lavori diversissimi, eppure vicini per forza visiva e per l'uso di immagini sconvolgenti che vengono direttamente della cronaca e dalla storia recenti. In Him c'è un Hitler in ginocchio (omaggio a Maurizio Cattelan) che si ostina a doppiare bulimicamente tutti i personaggi, e perfino i rumori, del Mago di Oz, il film di Fleming del '39 con Judy Garland, proiettato alle sue spalle. Una prova estrema e sfinente per l'attore, Marco Cavalcoli, un gioco ironico e stupefacente per il pubblico, messo di fronte a una vertigine a prima vista senza senso, che pone domande scomode sul ruolo dell'artista e sul rapporto tra arte e potere. L'altro spettacolo si intitola K313 come la sonata per flauto e orchestra di Mozart, che aleggia distorta dai registratori di un uomo e una donna. Elegantissimi (gli abiti sono della stilista Monica Bolzoni) e glaciali, si scambiano le parole di amore impossibile del Breve canzoniere di Tommaso Landolfi. Nel frattempo, ripresi in diretta da una videocamera a infrarossi, indossano accessori inquietanti: una scintillante borsetta-esplosivo, dei passamontagna. E allora capiamo: sono i terroristi ceceni che nel 2002 presero in ostaggio il pubblico del Teatro Dubrovka di Mosca. Un "recital letterario" disturbante, che non concede sconti allo spettatore.
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"LA SCIMIA" DI EMMA DANTEEMMA DANTE CRITICA UNA SOCIETÀ TROPPO TRADIZIONALISTA E RIFLETTE SUL SIGNIFICATO DELLA RELIGIONE, CON LA SCIMIA, SPETTACOLO "TEOLOGICO" DAGLI ACCENTI FORTI E DAI PERSONAGGI MOLTO CARATTERIZZATI, IN UN MIX PERFETTAMENTE RIUSCITOdi Elena Casadoro
Pubblicato giovedì 30 settembre 2004 - NSC anno I n. 1
Bellissima la rappresentazione che la giovane regista palermitana Emma Dante dà del testo di Landolfi nel suo irruente "La Scimia", spettacolo "teologico" presentato il 28 e il 29 settembre al 36° Festival Internazionale del Teatro, critica ai costumi della nostra società e occasione per riflettere sul significato del culto religioso e sull’esistenza di Dio.Il Festival organizzato dalla Biennale di Venezia, è un’ulteriore occasione per la Dante di mostrare al pubblico la sua bravura e la sua passionalità. Ce lo dimostra infatti con uno spettacolo forte, breve ma intensissimo, dai ritmi vertiginosi e frenetici, avvalendosi di una scenografia essenziale ma efficace, giochi di luce studiati, e attori bravissimi a impersonare ruoli tutt’altro che facili, sapendo dosare armoniosamente l’ironia e il realismo. La Scimia è uno spettacolo volutamente forte e dissacrante, perché, attraverso una critica del culto religioso cattolico, critica i costumi e l’ottusità di una società moderna troppo spesso ancorata al passato negli usi e nelle credenze. Proprio per questo suo accento forte, può non piacere ad un pubblico legato alla tradizione. Ma rappresentazione della Dante è tutt’altro che blasfema, è solo funzionale a cogliere il senso più profondo della fede, il significato autentico di tutte le religioni.
Lilla e Nena sono due sorelle, due zitelle brutte che hanno consacrato le loro vite alla devozione a Dio, seguendo i comandamenti alla lettera e andando ogni giorno in chiesa a sentire la Santa Messa. Lo spettacolo della Dante inizia così al suggestivo Teatro Tese delle Vergini, proprio con la preparazione alla celebrazione di una liturgia. Lilla e Nena infatti, sono ormai così "di casa" che aiutano i due giovani sacerdoti della parrocchia persino ad allestire e preparare l’altare, lucidando e spolverando maniacalmente gli oggetti di culto.
La messa - rigorosamente in latino - ha inizio: i sacerdoti celebrano la liturgia con massima solennità ed enfasi, le zitelle ascoltano con devozione e pregano, si genuflettono fanno segni della croce degni di un ossessivo compulsivo, consumano i rosari a forza di baciarli, si battono violentemente i petti in segno di colpa, si strappano i vestiti in segno di sudditanza. Tutta la liturgia è come una danza isterica, con movimenti nervosi, ossessivi, ripetuti all’eccesso; il rituale cristiano è così ridicolizzato e svilito nel suo significato, fermandosi alla sola superficie formale. Terminata la Messa, le zitelle aiutano una seconda volta i due sacerdoti a riordinare tutto e a spolverare con estrema cura le coppe e la grande croce di legno appesa al soffitto che sovrasta e domina la scena, ma a ad un tratto, con grande stupore e scandalo dei quattro personaggi, appare l’animale domestico delle due zitelle che evidentemente le ha seguite fin lì: "la scimia", sul palcoscenico interpretata da un attore nudo.
La scimmia, è un essere bestiale: dispettosa, irruente, incurante delle sue nudità; si aggira per la Chiesa in cerca di noccioline, saltando qua e là e distruggendo qualsiasi cosa trovi. Dopo aver curiosato ovunque, sotto gli occhi attoniti degli sventurati spettatori, balza sull’altare e rovista tra gli oggetti sacri luccicanti, rosicchia un crocefisso, si abbuffa di ostie consacrate, scimmiottando il rituale appena celebrato dagli uomini, infangando così con la sua bestialità, la sua bassezza e la sua nudità, il luogo sacro e la divinità. Lilla e Nena, riacciuffano l’animale e lo legano con un guinzaglio; sono sconvolte per lo scempio e arrabbiatissime con lui. "Questo peccato gravissimo dev’essere espiato" dice alterato uno dei sacerdoti: la scimmia deve morire perché Dio perdoni la sua ignobile colpa.
Ma cos’è in fondo la scimmia se non un povero animale ignaro per sua natura dei culti degli uomini? "L’uomo ha inventato il peccato", dice ad un tratto Padre Alessio, che ha avuto pietà per l’animale che, nudo e spaventato, urla terrorizzato nascondendo la testa. Ha avuto pietà perché ha riconosciuto in lui una creatura di Dio e perciò perfetta nel suo essere tale. Inizia così una profonda e violentissima disputa teologica tra i due sacerdoti, sulla consistenza del peccato e sul libero arbitrio: la scimmia non ha deciso di comportarsi così, e non può essere punita. La scimmia, come l’uomo e qualsiasi creatura, è Dio, è una parte di quel misterioso assoluto che è la vita e dev’essere rispettata. Essa quindi non ha peccato, perché nei suoi gesti non c’era malizia nè consapevolezza; agiva al di là della coscienza umana, al di fuori dei sui schemi e delle sue simbologie.
L’errore più grave quindi è quello dell’uomo, che vede il perverso e il blasfemo con malizia e che si accanisce contro l’altro e contro Dio. Nell’ultima scena infatti, la scimmia sale sull’altare e si alza in piedi, sovrapponendosi per un istante all’enorme crocefisso che sovrasta l’altare: ecco, la scimmia è come un uomo nudo, sulla croce… è un nuovo Gesù, è il capro espiatorio vittima ancora una volta della stupidità degli uomini che, obnubilati dai rituali e dalle simbologie, non riescono ad aprire il cuore all’altro e quindi a Dio.
Emma Dante è nata a Palermo nel ’67. Dopo essere stata socia del gruppo della Rocca dal 1993 al 1995, nell’agosto del 1999 ha costituito a Palermo la compagnia teatrale Sud Costa Occidentale, per cui ha firmato le regie di "Battute d’arresto", "Il Sortilegio", "Odissea", "Insulti", "La principessa sul pisello", "Il filo di Penelope", "L’arringa", "La favola di Farruscad e Cherastanì", "’Mpalermu", "Carnezzeria". Nel 2000 ha vinto, con la compagnia Sud Costa Occidentale, il concorso "Shownoprofit 2000" con il progetto "Insulti" e nel 2001 il primo premio del concorso "Premio Scenario 2001" con il progetto "mPalermu". Nel 2001 ha vinto anche il Premio "Lo Straniero" assegnato da Goffredo Fofi, come giovane regista emergente. Nel 2002 ha vinto il Premio Ubu come miglior novità italiana.
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LA SCIMIA - Liberamente ispirato a "Le due zittelle" di Tommaso Landolfi; Regia: Emma Dante; Elaborazione del testo: Elena Stancarelli; Scenografie e costumi: Mela Dell’Erba; Produzione: Centro Ricerca per il Teatro - Milano, Teatro Garibaldi di Palermo, Unione dei Teatri d’Europa, La Biennale di Venezia; Con: Sud Costa Occidentale; In collaborazione con: Monty-Anversa, Belgio
Pubblicato giovedì 30 settembre 2004 - NSC anno I n. 1
Bellissima la rappresentazione che la giovane regista palermitana Emma Dante dà del testo di Landolfi nel suo irruente "La Scimia", spettacolo "teologico" presentato il 28 e il 29 settembre al 36° Festival Internazionale del Teatro, critica ai costumi della nostra società e occasione per riflettere sul significato del culto religioso e sull’esistenza di Dio.Il Festival organizzato dalla Biennale di Venezia, è un’ulteriore occasione per la Dante di mostrare al pubblico la sua bravura e la sua passionalità. Ce lo dimostra infatti con uno spettacolo forte, breve ma intensissimo, dai ritmi vertiginosi e frenetici, avvalendosi di una scenografia essenziale ma efficace, giochi di luce studiati, e attori bravissimi a impersonare ruoli tutt’altro che facili, sapendo dosare armoniosamente l’ironia e il realismo. La Scimia è uno spettacolo volutamente forte e dissacrante, perché, attraverso una critica del culto religioso cattolico, critica i costumi e l’ottusità di una società moderna troppo spesso ancorata al passato negli usi e nelle credenze. Proprio per questo suo accento forte, può non piacere ad un pubblico legato alla tradizione. Ma rappresentazione della Dante è tutt’altro che blasfema, è solo funzionale a cogliere il senso più profondo della fede, il significato autentico di tutte le religioni.
Lilla e Nena sono due sorelle, due zitelle brutte che hanno consacrato le loro vite alla devozione a Dio, seguendo i comandamenti alla lettera e andando ogni giorno in chiesa a sentire la Santa Messa. Lo spettacolo della Dante inizia così al suggestivo Teatro Tese delle Vergini, proprio con la preparazione alla celebrazione di una liturgia. Lilla e Nena infatti, sono ormai così "di casa" che aiutano i due giovani sacerdoti della parrocchia persino ad allestire e preparare l’altare, lucidando e spolverando maniacalmente gli oggetti di culto.
La messa - rigorosamente in latino - ha inizio: i sacerdoti celebrano la liturgia con massima solennità ed enfasi, le zitelle ascoltano con devozione e pregano, si genuflettono fanno segni della croce degni di un ossessivo compulsivo, consumano i rosari a forza di baciarli, si battono violentemente i petti in segno di colpa, si strappano i vestiti in segno di sudditanza. Tutta la liturgia è come una danza isterica, con movimenti nervosi, ossessivi, ripetuti all’eccesso; il rituale cristiano è così ridicolizzato e svilito nel suo significato, fermandosi alla sola superficie formale. Terminata la Messa, le zitelle aiutano una seconda volta i due sacerdoti a riordinare tutto e a spolverare con estrema cura le coppe e la grande croce di legno appesa al soffitto che sovrasta e domina la scena, ma a ad un tratto, con grande stupore e scandalo dei quattro personaggi, appare l’animale domestico delle due zitelle che evidentemente le ha seguite fin lì: "la scimia", sul palcoscenico interpretata da un attore nudo.
La scimmia, è un essere bestiale: dispettosa, irruente, incurante delle sue nudità; si aggira per la Chiesa in cerca di noccioline, saltando qua e là e distruggendo qualsiasi cosa trovi. Dopo aver curiosato ovunque, sotto gli occhi attoniti degli sventurati spettatori, balza sull’altare e rovista tra gli oggetti sacri luccicanti, rosicchia un crocefisso, si abbuffa di ostie consacrate, scimmiottando il rituale appena celebrato dagli uomini, infangando così con la sua bestialità, la sua bassezza e la sua nudità, il luogo sacro e la divinità. Lilla e Nena, riacciuffano l’animale e lo legano con un guinzaglio; sono sconvolte per lo scempio e arrabbiatissime con lui. "Questo peccato gravissimo dev’essere espiato" dice alterato uno dei sacerdoti: la scimmia deve morire perché Dio perdoni la sua ignobile colpa.
Ma cos’è in fondo la scimmia se non un povero animale ignaro per sua natura dei culti degli uomini? "L’uomo ha inventato il peccato", dice ad un tratto Padre Alessio, che ha avuto pietà per l’animale che, nudo e spaventato, urla terrorizzato nascondendo la testa. Ha avuto pietà perché ha riconosciuto in lui una creatura di Dio e perciò perfetta nel suo essere tale. Inizia così una profonda e violentissima disputa teologica tra i due sacerdoti, sulla consistenza del peccato e sul libero arbitrio: la scimmia non ha deciso di comportarsi così, e non può essere punita. La scimmia, come l’uomo e qualsiasi creatura, è Dio, è una parte di quel misterioso assoluto che è la vita e dev’essere rispettata. Essa quindi non ha peccato, perché nei suoi gesti non c’era malizia nè consapevolezza; agiva al di là della coscienza umana, al di fuori dei sui schemi e delle sue simbologie.
L’errore più grave quindi è quello dell’uomo, che vede il perverso e il blasfemo con malizia e che si accanisce contro l’altro e contro Dio. Nell’ultima scena infatti, la scimmia sale sull’altare e si alza in piedi, sovrapponendosi per un istante all’enorme crocefisso che sovrasta l’altare: ecco, la scimmia è come un uomo nudo, sulla croce… è un nuovo Gesù, è il capro espiatorio vittima ancora una volta della stupidità degli uomini che, obnubilati dai rituali e dalle simbologie, non riescono ad aprire il cuore all’altro e quindi a Dio.
Emma Dante è nata a Palermo nel ’67. Dopo essere stata socia del gruppo della Rocca dal 1993 al 1995, nell’agosto del 1999 ha costituito a Palermo la compagnia teatrale Sud Costa Occidentale, per cui ha firmato le regie di "Battute d’arresto", "Il Sortilegio", "Odissea", "Insulti", "La principessa sul pisello", "Il filo di Penelope", "L’arringa", "La favola di Farruscad e Cherastanì", "’Mpalermu", "Carnezzeria". Nel 2000 ha vinto, con la compagnia Sud Costa Occidentale, il concorso "Shownoprofit 2000" con il progetto "Insulti" e nel 2001 il primo premio del concorso "Premio Scenario 2001" con il progetto "mPalermu". Nel 2001 ha vinto anche il Premio "Lo Straniero" assegnato da Goffredo Fofi, come giovane regista emergente. Nel 2002 ha vinto il Premio Ubu come miglior novità italiana.
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LA SCIMIA - Liberamente ispirato a "Le due zittelle" di Tommaso Landolfi; Regia: Emma Dante; Elaborazione del testo: Elena Stancarelli; Scenografie e costumi: Mela Dell’Erba; Produzione: Centro Ricerca per il Teatro - Milano, Teatro Garibaldi di Palermo, Unione dei Teatri d’Europa, La Biennale di Venezia; Con: Sud Costa Occidentale; In collaborazione con: Monty-Anversa, Belgio
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Viva la scimmia (2002)[ Italia, 2002, Grottesco, durata 82'] Regia di Marco Colli
Con Giuliana De Sio, Lunetta Savino, Giovanni Esposito, Claudio SpadaroAggiungi ai tuoi bookmark
Lila e Nena, sorelle borghesi, bigotte e succube della madre, vivono venerando Tombo, una scimmia che il loro padre morto in Africa aveva portato di ritorno da un viaggio. La loro vita viene sconvolta quando le due scoprono che la scimmia, sfuggito nottetempo dalla gabbia, si intrufolava in un monastero per celebrare la messa a modo suo.
Marco Colli ha portato sullo schermo il racconto "Le due zitelle" di Tommaso Landolfi, avvalendosi della collaborazione degli eredi Idolina e Landolfo Landolfi. Ma l'interesse del film si esauisce in queste curiosità. La messinscena infatti vanifica gli spunti non banali dello script.
Con Giuliana De Sio, Lunetta Savino, Giovanni Esposito, Claudio SpadaroAggiungi ai tuoi bookmark
Lila e Nena, sorelle borghesi, bigotte e succube della madre, vivono venerando Tombo, una scimmia che il loro padre morto in Africa aveva portato di ritorno da un viaggio. La loro vita viene sconvolta quando le due scoprono che la scimmia, sfuggito nottetempo dalla gabbia, si intrufolava in un monastero per celebrare la messa a modo suo.
Marco Colli ha portato sullo schermo il racconto "Le due zitelle" di Tommaso Landolfi, avvalendosi della collaborazione degli eredi Idolina e Landolfo Landolfi. Ma l'interesse del film si esauisce in queste curiosità. La messinscena infatti vanifica gli spunti non banali dello script.