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Tommaso Landolfi: da Leopardi al “nonsense” *
LANDOLFI TOMMASO
DA LEOPARDI AL "NONSENSE"
sard
Sulla lingua di Landolfi la critica si è esercitata con notevole intereresse perché, anche per stessa ammissione dello scrittore, essa occupa in lui uno spazio importantissimo, quasi vitale . Se però volessimo indagare a fondo il problema della lingua di Tommaso Landolfi, ci troveremmo di fronte a una situazione di sostanziale imbarazzo, almeno per quanto riguarda l’inserimento dello scrittore entro una cornice linguisticamente ben definita. Si è detto che Landolfi è un raffinato, che guarda, per il lessico, desueto e arcaico, all’Ottocento: un Ottocento invero generico; qualche critico ha pensato agli Scapigliati. Si è altresì parlato di «un autore stranamente gotico, più nordico che italiano ( la sua familiarità con i grandi russi dell’Ottocento, i romantici tedeschi, i classici del terrore come E. Allan Poe)…» (1). Dardano ha riconosciuto, e non molto tempo fa, l’effettiva difficoltà critica di incasellare lo scrittore all’ «una o all’altra corrente letteraria o scuola o tendenza che dir si voglia» (2). E quindi, rileva ancora Bertacchini, «… l’ ‘inclassificabile’ Landolfi resta ancora da scoprire» (3). Nell’ansia critica di «indovinare» Landolfi, si è assistito anche a sconfinamenti dei linguisti verso aree che possono sì offrire un contributo conoscitivo molto importante, ma che interessano campi di ricerca, la psicanalisi, per esempio, diversi comunque dagli studi linguistici strettamente intesi. Mi riferisco a quanti hanno visto nella lingua di Landolfi quasi un esorcismo, per cui la «lingua bella» avrebbe la stessa funzione della musica del fachiro incantatore di serpenti. Il discorso, a tratti, si farebbe «liturgico», una nenia religiosamente detta, una sorta di preghiera ove la parola rara si fa elemento costante del discorso, disseminato appunto di un lessico prezioso, che però più che comunicare vuole allontanare il male (funzione apotropaica dei riti di difesa). Nell’interpretazione di una lingua inesausta verso lo strano, l’antico, il diverso, e infine l’apotropaico, TarcisioTarquini individuò, già diversi anni fa, un tono da «scongiuro» nel linguaggio di Landolfi (4). Vicine a quelle di Tarquini le considerazioni per altro interessanti di Paolo Zublena, per il quale il lessico prezioso di Landolfi costituirebbe una «coazione al nascondimento: del sé, delle origini inabissate della propria nevrosi… del fondo torbido si sé…». Si instaurerebbe a detta del critico un «rapporto coattivo con la scrittura, dato dalla paura dell’impurità, dell’informe, che poi è il fondo torbido del sé» (5). Sotto il profilo strettamente linguistico, Landolfi è sicuramente un classico, che conosce a fondo la nostra tradizione, e che trova in essa quel lessico aulico e quei costrutti che fanno così fascinosa la sua lingua. Ma ogni scrittore, senza voler sembrare asseverativi, possiede nella propria mente alcuni modelli di riferimento, anche se poi magari non li esplicita: e Landolfi era uno di questi. Parlare comunque di un gusto genericamente ottocentesco costituisce una prima traccia di lavoro, non certo il suo compimento. Quale può essere stato il modello linguistico «occulto» di Landolfi? Egli accennò in qualche occasione a scrittori “ben temprati”, ma al di là di generiche allusioni non si ebbero ulteriori elementi su cui riflettere. M.A. Grignani, autrice di un ottimo saggio su Landolfi, lamentava infatti un «depistaggio intorno alle fonti» (6). Tuttavia, come del resto la critica ha ampiamente verificato e dimostrato da più di un paio di lustri a questa parte, si può asserire senza particolari ambagi che il modello linguistico di riferimento di Landolfi è sicuramente Leopardi (7): basti pensare a come in certe occasioni ne abbia imitato lo stile e la lingua in modo pressoché perfetto (8). Tutt’al più ci si può chiedere «quale» Leopardi possa essere stato maggiormente gradito al fine palato di Landolfi, che fu sì talora poeta, ma essenzialmente si manifestò autore di prosa. Quindi, si può ragionevolmente dedurre che il modello fosse il Leopardi prosatore, e in particolare quello delle Operette morali, che in fondo sono le uniche opere «fantastiche» del poeta di Recanati. Emilio Bigi, a dire il vero moltissimi anni fa, studiò a fondo le Operette, e mise a punto una serie di rilievi stilistico-linguistici molto intressanti, alcuni dei quali possono attagliarsi perfettamente a Landolfi, in cui letterarietà assoluta, (la realtà, è risaputo, non gli interessa) e uso costante della parola arcaica costituiscono l’essenza della sua prosa. Seguiamo ciò che dice Bigi a proposito di Leopardi. «…Il suo [delleOperette] aspetto forse più appariscente, se non il più importante, è laletterarietà. Letterario appare subito lo schema generale del libro, a cominciare dal titolo stesso che non a caso riecheggia un analogo titolo plutarchiano: letterarie sono le ‘invenzioni’ delle singole Operette, che apertamente si configurano come miti, trattati, elogi, detti memorabili, dialoghi di tipo platonico, ciceroniano, lucianesco… La letterarietà della prosa delle Operette risalta però soprattutto da elementi strettamente linguistici, i cosiddetti arcaismi, cioè vocaboli e costrutti sintattici ripresi dal greco, dal latino e dalla lingua italiana del ‘300 e del ‘500…» (9). Ora, se questo “passaggio” del professor Bigi non fosse stato scritto per Leopardi, verrebbe quasi da dire che parrebbe perfettamente acconcio a qualificare l’attività letteraria di Tommaso Landolfi. Partiamo intanto dal concetto che Landolfi aveva della letteratura, che non era, a suo parere, «per la vita». La letteratura non ha bisogno della vita per sussistere: nasce e vive nel suo mondo, «hortus conclusus», monade senza porte e senza finestre. Se questo è il senso della letteratura, Landolfi lavorava intorno ad essa saggiando costantemente la sua memoria culta. Di qui i suoi racconti “fantastici”, come Il pazzo (10), per esempio, in cui scorre per li rami la linfa di Edgar Allan Poe. Allora, prima similitudine possibile: Leopardi e Landolfi operavano tutti e due “dentro” il circuito elitario della letteratura, e nemmeno pensavano che si potesse agire altrimenti. Gli “arcaismi”, ovvero i vocaboli e i costrutti “antiqui”: li amava Leopardi come Landolfi, forse il secondo più del primo, che, a detta di Bigi, ne fece un uso tutto sommato parco, prestando attenzione al fatto che non fossero “eccessivamente disusati”. Seguiamo ancora il ragionamento di Bigi riguardo agli arcaismi: «… Se si esaminano un po’ attentamente i vocaboli arcaici che ricorrono nella prosa leopardiana, si vede che essi sono scelti secondo un criterio significativo. Ben raramente si troveranno i latinismi e i trecentisti crudi che colorano invece il tessuto stilistico, non solo delle Canzoni e di alcuni Piccoli idilli, ma anche delle prose puristiche del ’16 e del ’17; e quando tali arcaismi si incontrano nelle Operette, non sono eccessivamente disusati ( potestà, arbori, copia, culte, orare, appo, conceputo, nutricare). Invece più frequentemente il prosatore impiega quei vocaboli che la lingua moderna ancora conserva, seppure con un significato diverso da quello etimologico o più antico che il Leopardi rinverdisce: come ferocia nel senso di fierezza, studio per zelo, perplesse per intricate, permise perconcesse, vendicate per punite, divertire per distogliere, illustrare perilluminare, abiti per abitudini, stanza per dimora, alberghi per abitazioni, persona per corpo, terra per città ecc. Analogamente, nel campo morfologico e sintattico si incontreranno ad apertura di pagina molte strutture tipiche della lingua letteraria greca e latina, trecentesca e cinquecentesca, participi assoluti, dimostrativi rilettici,, oggettive all’infinito, sostantivi al plurale anziché al singolare e viceversa, verbi costruiti alla latina ( persuadere e invidiare col dativo, “negare che” per “affermare che non”… L’arcaismo delle Operette appare in conclusione, nel suo aspetto generale, relativamente moderato e non rilevato e insistente; quale cioè conviene ad un linguaggio che vuol sembrare non tanto singolarmente appartato dal volgare discorso quotidiano, quanto vagamente e pacatamente distaccato ed elevato al di sopra del parlare più grezzo ed immediato che si usa nei colloqui…» (11). Leopardi cerca quindi di frenare il più possibile la pur netta propensione al vocabolo arcaico, limitandosi, come vedremo ad alcuni vocaboli o costrutti largamente riconosciuti dai lettori. Landolfi al contrario è, nella sua produzione «vocabolistica», irrefrenabile: «…«balbutendo» ‘balbettando’, «imo» ‘profondo’, «meramente» ‘puramente’, «peritosamente» ‘con esitazione’, «comportevole» ‘sopportabile’, «vagellamento» ‘vaneggiamento’, «menare» ‘condurre’, «lagrima» con la velare sonora); toscanismi esibiti «diaccio», «grullo», «spengere», «codesto», «fo» ‘faccio’, «focone», «moveva», «punto» ‘niente affatto’, «noi si va», il «sicché» conclusivo, pronomi inamidati («egli / ella»; «colui / colei» anaforici, il «di lui / la di lei» interposto, tipo «la di lui fantesca», il tipo anaforico «esso progetto», «contro esso portello», «in detta parete»); posposizione del pronome nelle interrogative («Sarete voi degno di ciò? Non mi tradirete voi?»); locuzioni avverbiali e formule come «senza più», «appetto a», «al postutto» o «giusta il solito», «secondo a me parve»…»(12). Nel Leopardi delle Operette si assiste all’uso disseminato di certi modi di dire, ma con maggiore moderazione. Quindi si registrano: “imo” (Canto del gallo silvestre), “menare” (Bruto Minore: «volendo che ci debba menare alla felicità»), “lagrime” (Dialogo di Plotino), fo, usato moltissimo (Dialogo di Timandro, Copernico), “cotesto-coteste” e “punto” (“niente affatto”): “ Coteste cose non mi fanno punto paura” (Copernico). Ampiamente attestati in Leopardi anche “colui”, “in colui” (Dialogo di Plotino), “detta”, «la detta lingua», «la detta forza» (Cantico), “senza più” ( Copernico), “egli” («egli si converrebbe»), “ella” («voglia Dio che ella si verifichi») (Cristoforo Colombo) (13). Riguardo all’uso della punteggiatura, che in Landolfi costituisce un elemento stilistico di assoluta evidenza, ricordo qui quanto osservava diligentemente Bigi a proposito di Leopardi, che possedeva una tecnica sicura per operare il “rallentamento”, la punteggiatura: «…Questo elemento stilistico, per cui il Leopardi ha sempre avuto una cura attentissima, … serve allo scrittore… per introdurre pause di varia lunghezza con cui frantumare e spazieggiare opportunamente il periodo… Soltanto così si comprende l’uso caratteristico che il Leopardi fa della virgola, la quale compare quasi costantemente tra il soggetto (o un complemento) e il verbo…» (14). Che Landolfi sapesse “rallentare” il periodo con maestria consumata è sotto gli occhi di tutti: «… Sulla riva del piccolo stagno, prese di fronte dal raggio di luna, Giovancarlo,condotto per mano da Gurù senza rumore, scorse subito, anche prima d’accostarsi, tre forme severe; e fu preso da uno spavento vertiginoso;la severità stessa delle forme, e null’altro che quella, era terribile…»(15). Un periodo di circa 46 parole pausato da undici segni di interpunzione tra virgole e punti e virgola e punto fermo. Landolfi non è uso a porre la virgola tra soggetto e predicato; però, se vuole rallentare al massimo, interpone tra i due elementi cardine del periodo una lunga frase parentetica: “… Gurù (che era stata poi quella che l’aveva trattenuto a terra mentre la Madre lo guardava) strinse al giovane la mano in segno di partenza). Dagli esempi addotti, si evince chiaramente che il “Maestro”, ovvero Leopardi, aveva fornito al discepolo una miniera di forme e costrutti che venne, a livello lessicale, viepiù corroborata da Landolfi con una sequenza ulteriore e indefinita di altri e disusati modi di dire. Così, al parco e moderato Maestro, Landolfi contrappone talora sequenze ribobolesche al limite della capacità di tenuta della lingua, se intesa, come si dovrebbe intendere, come veicolo di comunicazione:
“…«E grugni rostri grifi becchi proboscidi zoccoli zampe velli zanne insieme a membra umane, bianche più aduste pelose, a poppe di donna, a nerbuti sessi maschili» (16).
«È stato giustamente notato, sottolinea la Grignani, il carattere di «scongiuro» della scrittura, una formula di massima potenza apotropaica per rendere innocua la realtà». In effetti, dinanzi a certe “stranezze” di Landolfi è corretto indagare anche sul “senso” della sua operazione letteraria e umana. Pur riconoscendo profondità di intenti nell’intuizione di possibili rimandi freudiani e psicanalitici, non vedo però ragioni così cogenti di andare a incomodare la psicanalisi. Restando ben fermi all’ambito linguistico, perché vogliamo negare a un personaggio così intelligente e colto come Landolfi, “giocatore” per eccellenza della nostra letteratura contemporanea, la possibilità di essersi semplicemente divertito a “giocare” con la lingua? La nostra letteratura, ma anche quella europea in fondo, offriva al coltissimo Landolfi esempi illustri di quella che Bruno Migliorini chiamava la nostra “tradizione ribobolaia”, una tradizione che sale su su dal Medioevo fino ai giorni nostri. Dalla novellistica al teatro gli esempi non mancano davvero di letterati che amavano molto “giocare” con la lingua. Maria Luisa Altieri Biagi, in uno studio che rimane un punto fermo ineludibile nella storia della lingua del teatro italiano del Cinquecento, riporta esempi molto significativi in questo senso (17). Osserviamo, per esempio, il linguaggio di uno dei protagonisti della Tabernaria del Della Porta:
“Tate petate e castagne infornate… m’hai dato tante vernecalonne e vernecocche e m’hai fatto venire le petecchie”. Simili giochetti sembrano usciti dalla penna “discola” di Landolfi. E ancora, dalla Strega del Lasca: «… a gallinenvenvella, a baccicalla calla quante corna ha la cavalla»; oppure dalla Travaglia del Calmo: «… Tu gli andrai, non gli andarò, tu l’haverai, non l’haverò, ninni, ninni no, ninini, ninini no, bona notte e bon anno». E il Pulci: «… Craie, poscraie, poscrigno o piscrotte a lo cchiù cchiù…». Addirittura l’Altieri Biagi è andata a pescare giochetti simili persino nelle Sacre Rappresentazioni, con effetti particolarmente suggestivi e divertenti. Si tratta di una discussione tra due “savi”: Cappone dice a Berlingaccio: «Quanquam fecerunt omnia quecunque/ et mihi ministravit cuis fecit,/ quondam conabor et manus dunque/ et Veneri venero mihi legit». Secondo savio, Berlingaccio dice: «Fregia fregias in infernus quantunque/ Virgilius Galieni cum scriverit/ legabuntur legemini portare/ cuius cuius perpetua in vulgare». Come sarebbe intervenuto Landolfi nella dotta discussione fra i due savi? Probabilmente così: «-Un trombaio! Trombaio-fontaniere, per la precisione. Non ne avevate chiesto uno?
- [...] “Idraulici”, perfino ci chiamano in colonia» (18). * Parte prima.
Note 1) R. Bertacchini, Il « Giocatore» Landolfi ( Letture pubbliche e Convegno a Trento), in Cultura e Scuola, 1990, n° 113, pp. 293-295, p. 293.
2) M. Dardano, Leggere i romanzi: lingua e strutture testuali da Verga a Veronesi, Roma, Carocci, 2008, p. 163.
3) R. Bertacchini, Il « Giocatore» Landolfi, cit., p. 293.
4) T. Tarquini, Il «discorso di Landolfi», in Landolfi libro per libro, Introduz. Di W. Pedullà, Ethea, 1988, p. 25.
5) P. Zublena, Approssimazioni alla lingua ‘altra’ di Tommaso Landolfi, inGli ‘altrove’ di Tommaso Landolfi, in Atti del Convegno di Studi, Firenze, 4-5 dicembre 2001, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 155-161, 160.
6) M. A. Grignani, « L’espressione, la voce stessa ci tradiscono». Sulla lingua di Tommaso Landolfi, in Bollettino ‘900, Electronic Journal of ‘900 Italian Literature, Giugno-dicembre 2005, n. 1-2. Nello stesso numero, cfr. anche il saggio di Andrea Cortellessa, Piccole apocalissi,Metaracconti di Tommaso Landolfi. Ottima bibliografia in ambedue i saggi.
7) «… Naturalmente riscontri puntuali sulla presenza di Leopardi nell’operra di Landolfi sono possibili e persino scontati. Si può cominciare per esempio dalle consonanze tematiche: l’interesse per le lingue (vive e morte, reali o immaginarie)…». Cfr. N. Bellucci-A. Cortellessa, « Quell’opera senza uguali»: Le ‘Operette morali’ e il Novecento italiano, Roma, Bulzoni, 2000, p. 200. Su Leopardi inteso da Landolfi come alias, cfr. Gli «Altrove» di Tommaso Landolfi, a c. di I. Landolfi ed E. Pellegrini in Atti del convegno (Firenze, 4-5 dicembre 2001). Atti del Convegno di studi, Firenze, 4-5 dicembre 2001, Roma, Bulzoni, 2004, p. 108.
8) U. Piscopo, Leopardi, altre tracce, L’Inedito. Recensione del Signor Giacomo Leopardi sull’Opera ‘La pietra lunare’ dell’autore Tommaso Landolfi, Napoli, Guida, 1999, p. 13. Landolfi qui imita perfettamente lo stile di Leopardi: « Adesso l’arte è venuta in un incredibile accrescimento, tutto è arte e poi arte, non cìè quasi più niente di spontaneo, la stessa spontaneità si cerca a tutto potere, ma con uno studio infinito […] . in molte opere di mano dove c’è qualche pericolo di fallare o di rompere ecc., una delle cose più necessarie perché riescano bene è non pensare al pericolo… né mai osiamo di alzarci con quella negligente e sicura e non curante e dirò pure ignorante franchezza, che è necessaria nelle somme opere d’arte; onde pel timore di non fare cose pessime non ci attendiamo di farne delle ottime, e ne facciamo delle mediocri, non dico già di quella mediocrità che riprende Orazio, e che in poesia è insopportabile, ma mediocri del genere delle buone, cioè lavorate, studiate, pulitissime […]».
9) Emilio Bigi, La prosa letteraria delle ‘Operette’, in Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 117-119.
10) T. Landolfi, Il pazzo, in «Il Corriere della sera», 30 ottobre 1968.
11) Cfr. Emilio Bigi, La prosa letteraria delle ‘Operette’, cit., pp. 119-120.
12) Cfr. M. A. Grignani, « L’espressione, la voce stessa ci tradiscono», cit.
13) Per gli esempi riportati si è seguita la seguente edizione: Giacomo Leopardi, Operette morali, a c. di P. Ruffilli, Milano, garzanti, 1982.
14) Cfr. Emilio Bigi, La prosa letteraria delle ‘Operette’, cit., p. 129.
15) T. Landolfi, La pietra lunare, in Opere, a c. di I. Landolfi, Milano, Rizzoli, 1991, vol. I.
16) Il passo è riportato in M. A. Grignani, « L’espressione, la voce stessa ci tradiscono», cit.
17) M. L. Altieri Biagi, Appunti sulla lingua della Commedia del ‘500, in Acc. Naz. dei Lincei. Problemi attuali di scienza e di cultura, Atti del Convegno sul tema Il teatro classico italiano nel '500, Roma, 9-12 febbraio 1969. Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, Quaderno n.138, 1971, pp. 276-280.
18) Il passo è riportato in M. A. Grignani, « L’espressione, la voce stessa ci tradiscono», cit.
DA LEOPARDI AL "NONSENSE"
sard
Sulla lingua di Landolfi la critica si è esercitata con notevole intereresse perché, anche per stessa ammissione dello scrittore, essa occupa in lui uno spazio importantissimo, quasi vitale . Se però volessimo indagare a fondo il problema della lingua di Tommaso Landolfi, ci troveremmo di fronte a una situazione di sostanziale imbarazzo, almeno per quanto riguarda l’inserimento dello scrittore entro una cornice linguisticamente ben definita. Si è detto che Landolfi è un raffinato, che guarda, per il lessico, desueto e arcaico, all’Ottocento: un Ottocento invero generico; qualche critico ha pensato agli Scapigliati. Si è altresì parlato di «un autore stranamente gotico, più nordico che italiano ( la sua familiarità con i grandi russi dell’Ottocento, i romantici tedeschi, i classici del terrore come E. Allan Poe)…» (1). Dardano ha riconosciuto, e non molto tempo fa, l’effettiva difficoltà critica di incasellare lo scrittore all’ «una o all’altra corrente letteraria o scuola o tendenza che dir si voglia» (2). E quindi, rileva ancora Bertacchini, «… l’ ‘inclassificabile’ Landolfi resta ancora da scoprire» (3). Nell’ansia critica di «indovinare» Landolfi, si è assistito anche a sconfinamenti dei linguisti verso aree che possono sì offrire un contributo conoscitivo molto importante, ma che interessano campi di ricerca, la psicanalisi, per esempio, diversi comunque dagli studi linguistici strettamente intesi. Mi riferisco a quanti hanno visto nella lingua di Landolfi quasi un esorcismo, per cui la «lingua bella» avrebbe la stessa funzione della musica del fachiro incantatore di serpenti. Il discorso, a tratti, si farebbe «liturgico», una nenia religiosamente detta, una sorta di preghiera ove la parola rara si fa elemento costante del discorso, disseminato appunto di un lessico prezioso, che però più che comunicare vuole allontanare il male (funzione apotropaica dei riti di difesa). Nell’interpretazione di una lingua inesausta verso lo strano, l’antico, il diverso, e infine l’apotropaico, TarcisioTarquini individuò, già diversi anni fa, un tono da «scongiuro» nel linguaggio di Landolfi (4). Vicine a quelle di Tarquini le considerazioni per altro interessanti di Paolo Zublena, per il quale il lessico prezioso di Landolfi costituirebbe una «coazione al nascondimento: del sé, delle origini inabissate della propria nevrosi… del fondo torbido si sé…». Si instaurerebbe a detta del critico un «rapporto coattivo con la scrittura, dato dalla paura dell’impurità, dell’informe, che poi è il fondo torbido del sé» (5). Sotto il profilo strettamente linguistico, Landolfi è sicuramente un classico, che conosce a fondo la nostra tradizione, e che trova in essa quel lessico aulico e quei costrutti che fanno così fascinosa la sua lingua. Ma ogni scrittore, senza voler sembrare asseverativi, possiede nella propria mente alcuni modelli di riferimento, anche se poi magari non li esplicita: e Landolfi era uno di questi. Parlare comunque di un gusto genericamente ottocentesco costituisce una prima traccia di lavoro, non certo il suo compimento. Quale può essere stato il modello linguistico «occulto» di Landolfi? Egli accennò in qualche occasione a scrittori “ben temprati”, ma al di là di generiche allusioni non si ebbero ulteriori elementi su cui riflettere. M.A. Grignani, autrice di un ottimo saggio su Landolfi, lamentava infatti un «depistaggio intorno alle fonti» (6). Tuttavia, come del resto la critica ha ampiamente verificato e dimostrato da più di un paio di lustri a questa parte, si può asserire senza particolari ambagi che il modello linguistico di riferimento di Landolfi è sicuramente Leopardi (7): basti pensare a come in certe occasioni ne abbia imitato lo stile e la lingua in modo pressoché perfetto (8). Tutt’al più ci si può chiedere «quale» Leopardi possa essere stato maggiormente gradito al fine palato di Landolfi, che fu sì talora poeta, ma essenzialmente si manifestò autore di prosa. Quindi, si può ragionevolmente dedurre che il modello fosse il Leopardi prosatore, e in particolare quello delle Operette morali, che in fondo sono le uniche opere «fantastiche» del poeta di Recanati. Emilio Bigi, a dire il vero moltissimi anni fa, studiò a fondo le Operette, e mise a punto una serie di rilievi stilistico-linguistici molto intressanti, alcuni dei quali possono attagliarsi perfettamente a Landolfi, in cui letterarietà assoluta, (la realtà, è risaputo, non gli interessa) e uso costante della parola arcaica costituiscono l’essenza della sua prosa. Seguiamo ciò che dice Bigi a proposito di Leopardi. «…Il suo [delleOperette] aspetto forse più appariscente, se non il più importante, è laletterarietà. Letterario appare subito lo schema generale del libro, a cominciare dal titolo stesso che non a caso riecheggia un analogo titolo plutarchiano: letterarie sono le ‘invenzioni’ delle singole Operette, che apertamente si configurano come miti, trattati, elogi, detti memorabili, dialoghi di tipo platonico, ciceroniano, lucianesco… La letterarietà della prosa delle Operette risalta però soprattutto da elementi strettamente linguistici, i cosiddetti arcaismi, cioè vocaboli e costrutti sintattici ripresi dal greco, dal latino e dalla lingua italiana del ‘300 e del ‘500…» (9). Ora, se questo “passaggio” del professor Bigi non fosse stato scritto per Leopardi, verrebbe quasi da dire che parrebbe perfettamente acconcio a qualificare l’attività letteraria di Tommaso Landolfi. Partiamo intanto dal concetto che Landolfi aveva della letteratura, che non era, a suo parere, «per la vita». La letteratura non ha bisogno della vita per sussistere: nasce e vive nel suo mondo, «hortus conclusus», monade senza porte e senza finestre. Se questo è il senso della letteratura, Landolfi lavorava intorno ad essa saggiando costantemente la sua memoria culta. Di qui i suoi racconti “fantastici”, come Il pazzo (10), per esempio, in cui scorre per li rami la linfa di Edgar Allan Poe. Allora, prima similitudine possibile: Leopardi e Landolfi operavano tutti e due “dentro” il circuito elitario della letteratura, e nemmeno pensavano che si potesse agire altrimenti. Gli “arcaismi”, ovvero i vocaboli e i costrutti “antiqui”: li amava Leopardi come Landolfi, forse il secondo più del primo, che, a detta di Bigi, ne fece un uso tutto sommato parco, prestando attenzione al fatto che non fossero “eccessivamente disusati”. Seguiamo ancora il ragionamento di Bigi riguardo agli arcaismi: «… Se si esaminano un po’ attentamente i vocaboli arcaici che ricorrono nella prosa leopardiana, si vede che essi sono scelti secondo un criterio significativo. Ben raramente si troveranno i latinismi e i trecentisti crudi che colorano invece il tessuto stilistico, non solo delle Canzoni e di alcuni Piccoli idilli, ma anche delle prose puristiche del ’16 e del ’17; e quando tali arcaismi si incontrano nelle Operette, non sono eccessivamente disusati ( potestà, arbori, copia, culte, orare, appo, conceputo, nutricare). Invece più frequentemente il prosatore impiega quei vocaboli che la lingua moderna ancora conserva, seppure con un significato diverso da quello etimologico o più antico che il Leopardi rinverdisce: come ferocia nel senso di fierezza, studio per zelo, perplesse per intricate, permise perconcesse, vendicate per punite, divertire per distogliere, illustrare perilluminare, abiti per abitudini, stanza per dimora, alberghi per abitazioni, persona per corpo, terra per città ecc. Analogamente, nel campo morfologico e sintattico si incontreranno ad apertura di pagina molte strutture tipiche della lingua letteraria greca e latina, trecentesca e cinquecentesca, participi assoluti, dimostrativi rilettici,, oggettive all’infinito, sostantivi al plurale anziché al singolare e viceversa, verbi costruiti alla latina ( persuadere e invidiare col dativo, “negare che” per “affermare che non”… L’arcaismo delle Operette appare in conclusione, nel suo aspetto generale, relativamente moderato e non rilevato e insistente; quale cioè conviene ad un linguaggio che vuol sembrare non tanto singolarmente appartato dal volgare discorso quotidiano, quanto vagamente e pacatamente distaccato ed elevato al di sopra del parlare più grezzo ed immediato che si usa nei colloqui…» (11). Leopardi cerca quindi di frenare il più possibile la pur netta propensione al vocabolo arcaico, limitandosi, come vedremo ad alcuni vocaboli o costrutti largamente riconosciuti dai lettori. Landolfi al contrario è, nella sua produzione «vocabolistica», irrefrenabile: «…«balbutendo» ‘balbettando’, «imo» ‘profondo’, «meramente» ‘puramente’, «peritosamente» ‘con esitazione’, «comportevole» ‘sopportabile’, «vagellamento» ‘vaneggiamento’, «menare» ‘condurre’, «lagrima» con la velare sonora); toscanismi esibiti «diaccio», «grullo», «spengere», «codesto», «fo» ‘faccio’, «focone», «moveva», «punto» ‘niente affatto’, «noi si va», il «sicché» conclusivo, pronomi inamidati («egli / ella»; «colui / colei» anaforici, il «di lui / la di lei» interposto, tipo «la di lui fantesca», il tipo anaforico «esso progetto», «contro esso portello», «in detta parete»); posposizione del pronome nelle interrogative («Sarete voi degno di ciò? Non mi tradirete voi?»); locuzioni avverbiali e formule come «senza più», «appetto a», «al postutto» o «giusta il solito», «secondo a me parve»…»(12). Nel Leopardi delle Operette si assiste all’uso disseminato di certi modi di dire, ma con maggiore moderazione. Quindi si registrano: “imo” (Canto del gallo silvestre), “menare” (Bruto Minore: «volendo che ci debba menare alla felicità»), “lagrime” (Dialogo di Plotino), fo, usato moltissimo (Dialogo di Timandro, Copernico), “cotesto-coteste” e “punto” (“niente affatto”): “ Coteste cose non mi fanno punto paura” (Copernico). Ampiamente attestati in Leopardi anche “colui”, “in colui” (Dialogo di Plotino), “detta”, «la detta lingua», «la detta forza» (Cantico), “senza più” ( Copernico), “egli” («egli si converrebbe»), “ella” («voglia Dio che ella si verifichi») (Cristoforo Colombo) (13). Riguardo all’uso della punteggiatura, che in Landolfi costituisce un elemento stilistico di assoluta evidenza, ricordo qui quanto osservava diligentemente Bigi a proposito di Leopardi, che possedeva una tecnica sicura per operare il “rallentamento”, la punteggiatura: «…Questo elemento stilistico, per cui il Leopardi ha sempre avuto una cura attentissima, … serve allo scrittore… per introdurre pause di varia lunghezza con cui frantumare e spazieggiare opportunamente il periodo… Soltanto così si comprende l’uso caratteristico che il Leopardi fa della virgola, la quale compare quasi costantemente tra il soggetto (o un complemento) e il verbo…» (14). Che Landolfi sapesse “rallentare” il periodo con maestria consumata è sotto gli occhi di tutti: «… Sulla riva del piccolo stagno, prese di fronte dal raggio di luna, Giovancarlo,condotto per mano da Gurù senza rumore, scorse subito, anche prima d’accostarsi, tre forme severe; e fu preso da uno spavento vertiginoso;la severità stessa delle forme, e null’altro che quella, era terribile…»(15). Un periodo di circa 46 parole pausato da undici segni di interpunzione tra virgole e punti e virgola e punto fermo. Landolfi non è uso a porre la virgola tra soggetto e predicato; però, se vuole rallentare al massimo, interpone tra i due elementi cardine del periodo una lunga frase parentetica: “… Gurù (che era stata poi quella che l’aveva trattenuto a terra mentre la Madre lo guardava) strinse al giovane la mano in segno di partenza). Dagli esempi addotti, si evince chiaramente che il “Maestro”, ovvero Leopardi, aveva fornito al discepolo una miniera di forme e costrutti che venne, a livello lessicale, viepiù corroborata da Landolfi con una sequenza ulteriore e indefinita di altri e disusati modi di dire. Così, al parco e moderato Maestro, Landolfi contrappone talora sequenze ribobolesche al limite della capacità di tenuta della lingua, se intesa, come si dovrebbe intendere, come veicolo di comunicazione:
“…«E grugni rostri grifi becchi proboscidi zoccoli zampe velli zanne insieme a membra umane, bianche più aduste pelose, a poppe di donna, a nerbuti sessi maschili» (16).
«È stato giustamente notato, sottolinea la Grignani, il carattere di «scongiuro» della scrittura, una formula di massima potenza apotropaica per rendere innocua la realtà». In effetti, dinanzi a certe “stranezze” di Landolfi è corretto indagare anche sul “senso” della sua operazione letteraria e umana. Pur riconoscendo profondità di intenti nell’intuizione di possibili rimandi freudiani e psicanalitici, non vedo però ragioni così cogenti di andare a incomodare la psicanalisi. Restando ben fermi all’ambito linguistico, perché vogliamo negare a un personaggio così intelligente e colto come Landolfi, “giocatore” per eccellenza della nostra letteratura contemporanea, la possibilità di essersi semplicemente divertito a “giocare” con la lingua? La nostra letteratura, ma anche quella europea in fondo, offriva al coltissimo Landolfi esempi illustri di quella che Bruno Migliorini chiamava la nostra “tradizione ribobolaia”, una tradizione che sale su su dal Medioevo fino ai giorni nostri. Dalla novellistica al teatro gli esempi non mancano davvero di letterati che amavano molto “giocare” con la lingua. Maria Luisa Altieri Biagi, in uno studio che rimane un punto fermo ineludibile nella storia della lingua del teatro italiano del Cinquecento, riporta esempi molto significativi in questo senso (17). Osserviamo, per esempio, il linguaggio di uno dei protagonisti della Tabernaria del Della Porta:
“Tate petate e castagne infornate… m’hai dato tante vernecalonne e vernecocche e m’hai fatto venire le petecchie”. Simili giochetti sembrano usciti dalla penna “discola” di Landolfi. E ancora, dalla Strega del Lasca: «… a gallinenvenvella, a baccicalla calla quante corna ha la cavalla»; oppure dalla Travaglia del Calmo: «… Tu gli andrai, non gli andarò, tu l’haverai, non l’haverò, ninni, ninni no, ninini, ninini no, bona notte e bon anno». E il Pulci: «… Craie, poscraie, poscrigno o piscrotte a lo cchiù cchiù…». Addirittura l’Altieri Biagi è andata a pescare giochetti simili persino nelle Sacre Rappresentazioni, con effetti particolarmente suggestivi e divertenti. Si tratta di una discussione tra due “savi”: Cappone dice a Berlingaccio: «Quanquam fecerunt omnia quecunque/ et mihi ministravit cuis fecit,/ quondam conabor et manus dunque/ et Veneri venero mihi legit». Secondo savio, Berlingaccio dice: «Fregia fregias in infernus quantunque/ Virgilius Galieni cum scriverit/ legabuntur legemini portare/ cuius cuius perpetua in vulgare». Come sarebbe intervenuto Landolfi nella dotta discussione fra i due savi? Probabilmente così: «-Un trombaio! Trombaio-fontaniere, per la precisione. Non ne avevate chiesto uno?
- [...] “Idraulici”, perfino ci chiamano in colonia» (18). * Parte prima.
Note 1) R. Bertacchini, Il « Giocatore» Landolfi ( Letture pubbliche e Convegno a Trento), in Cultura e Scuola, 1990, n° 113, pp. 293-295, p. 293.
2) M. Dardano, Leggere i romanzi: lingua e strutture testuali da Verga a Veronesi, Roma, Carocci, 2008, p. 163.
3) R. Bertacchini, Il « Giocatore» Landolfi, cit., p. 293.
4) T. Tarquini, Il «discorso di Landolfi», in Landolfi libro per libro, Introduz. Di W. Pedullà, Ethea, 1988, p. 25.
5) P. Zublena, Approssimazioni alla lingua ‘altra’ di Tommaso Landolfi, inGli ‘altrove’ di Tommaso Landolfi, in Atti del Convegno di Studi, Firenze, 4-5 dicembre 2001, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 155-161, 160.
6) M. A. Grignani, « L’espressione, la voce stessa ci tradiscono». Sulla lingua di Tommaso Landolfi, in Bollettino ‘900, Electronic Journal of ‘900 Italian Literature, Giugno-dicembre 2005, n. 1-2. Nello stesso numero, cfr. anche il saggio di Andrea Cortellessa, Piccole apocalissi,Metaracconti di Tommaso Landolfi. Ottima bibliografia in ambedue i saggi.
7) «… Naturalmente riscontri puntuali sulla presenza di Leopardi nell’operra di Landolfi sono possibili e persino scontati. Si può cominciare per esempio dalle consonanze tematiche: l’interesse per le lingue (vive e morte, reali o immaginarie)…». Cfr. N. Bellucci-A. Cortellessa, « Quell’opera senza uguali»: Le ‘Operette morali’ e il Novecento italiano, Roma, Bulzoni, 2000, p. 200. Su Leopardi inteso da Landolfi come alias, cfr. Gli «Altrove» di Tommaso Landolfi, a c. di I. Landolfi ed E. Pellegrini in Atti del convegno (Firenze, 4-5 dicembre 2001). Atti del Convegno di studi, Firenze, 4-5 dicembre 2001, Roma, Bulzoni, 2004, p. 108.
8) U. Piscopo, Leopardi, altre tracce, L’Inedito. Recensione del Signor Giacomo Leopardi sull’Opera ‘La pietra lunare’ dell’autore Tommaso Landolfi, Napoli, Guida, 1999, p. 13. Landolfi qui imita perfettamente lo stile di Leopardi: « Adesso l’arte è venuta in un incredibile accrescimento, tutto è arte e poi arte, non cìè quasi più niente di spontaneo, la stessa spontaneità si cerca a tutto potere, ma con uno studio infinito […] . in molte opere di mano dove c’è qualche pericolo di fallare o di rompere ecc., una delle cose più necessarie perché riescano bene è non pensare al pericolo… né mai osiamo di alzarci con quella negligente e sicura e non curante e dirò pure ignorante franchezza, che è necessaria nelle somme opere d’arte; onde pel timore di non fare cose pessime non ci attendiamo di farne delle ottime, e ne facciamo delle mediocri, non dico già di quella mediocrità che riprende Orazio, e che in poesia è insopportabile, ma mediocri del genere delle buone, cioè lavorate, studiate, pulitissime […]».
9) Emilio Bigi, La prosa letteraria delle ‘Operette’, in Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 117-119.
10) T. Landolfi, Il pazzo, in «Il Corriere della sera», 30 ottobre 1968.
11) Cfr. Emilio Bigi, La prosa letteraria delle ‘Operette’, cit., pp. 119-120.
12) Cfr. M. A. Grignani, « L’espressione, la voce stessa ci tradiscono», cit.
13) Per gli esempi riportati si è seguita la seguente edizione: Giacomo Leopardi, Operette morali, a c. di P. Ruffilli, Milano, garzanti, 1982.
14) Cfr. Emilio Bigi, La prosa letteraria delle ‘Operette’, cit., p. 129.
15) T. Landolfi, La pietra lunare, in Opere, a c. di I. Landolfi, Milano, Rizzoli, 1991, vol. I.
16) Il passo è riportato in M. A. Grignani, « L’espressione, la voce stessa ci tradiscono», cit.
17) M. L. Altieri Biagi, Appunti sulla lingua della Commedia del ‘500, in Acc. Naz. dei Lincei. Problemi attuali di scienza e di cultura, Atti del Convegno sul tema Il teatro classico italiano nel '500, Roma, 9-12 febbraio 1969. Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, Quaderno n.138, 1971, pp. 276-280.
18) Il passo è riportato in M. A. Grignani, « L’espressione, la voce stessa ci tradiscono», cit.