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BIOGRAFIA DI TOMMASO LANDOLFI
Tommaso Landolfi nasce a Pico, allora provincia di Caserta (oggi di Frosinone), il 9 agosto 1908. Il padre, Pasquale Landolfi, è discendente di un'antica e prestigiosa famiglia di origini longobarde; grazie alla sua ricchezza potrà permettersi di non esercitare la professione di avvocato, sarà cultore d'arte e gran viaggiatore, per due volte sindaco del paese.
Sua madre, Maria Gemma Nigro (detta Ida), è cugina materna del proprio marito, di origini lucane. Riverserà sul suo primo (ed unico) figlio attenzioni estreme, morbose, fino a vietare a chiunque di avere contatti fisici con il piccolo Tommaso. Morirà prematuramente nel 1910, a soli ventisei anni, mentre era in attesa di un secondo figlio. L'immagine della madre morta rimarrà indelebile, seppur troppo labile ricordo, nella mente di Landolfi, che all'epoca ha solo due anni.
Nell'infanzia Landolfi sarà un bambino riservato, solitario, timido, sensibile, di salute cagionevole. Il primo collegio dove sarà mandato a studiare sarà il Cicognini di Prato, dove imparerà a conoscere e ad amare D'Annunzio. Già a dodici anni compone i suoi primi sonetti, firmandosi Tommasino poeta, esternando già al padre i primi acerbi segnali della sua futura passione: scriverà in un biglietto di auguri «voglio diventare uno scrittore di libri».
Ben presto inizieranno i viaggi tra Pico, Roma e Napoli (dove risiedono i parenti materni), trascorrendo le sue vacanze estive sulle coste tirreniche di Terracina, Gaeta e Formia. Solo a Pico, però, il giovane scrittore riuscirà ad esprimersi e a trovare la concentrazione adatta ai suoi scopi: «la penna a Pico corre, altrove si inceppa».
Figure importanti, quasi materne, di quegli anni di gioventù sono le due cugine paterne Fosforina e Rosina Tumulini, alle quali dedicherà un libro per una. Il 7 febbraio del 1919 Rosina morirà, alla stessa età della giovane signora Landolfi, a causa di un'epidemia di spagnola.
La carriera scolastica di Tommaso continuerà tra collegi e istituti. Egli risentirà molto dell'assenza paterna e svilupperà una sorta di insofferenza ad ogni tipo di autorità. In seguito a una serie di bocciature arriverà a fuggire dal collegio, fino a minacciare il suicidio a soli quindici anni, come ricatto per paura di una punizione.
Grazie al suo vivace e curioso intelletto, Landolfi inizierà già nell'adolescenza ad avvicinarsi al cinema, al teatro, alle arti figurative e alle lingue straniere. Una vera passione, quasi un gioco, che lo porterà a studiare le grammatiche di altri idiomi come un piacevole passatempo; influenzerà anche la scelta dell'Università, dove opterà per Lingua e letteratura russa, affascinato dalla diversità dell'alfabeto cirillico. Landolfi sarà poi traduttore di quattro lingue (russo, francese, tedesco e spagnolo) e ne conoscerà molte altre, tra cui l'arabo e il giapponese.
Dopo aver superato la maturità classica da privatista, nel 1927, si iscrive alla Facoltà di Lettere di Roma, poi a Firenze, dove la cattedra da lui prescelta non esiste. Studierà da solo, senza insegnanti, laureandosi con il massimo dei voti nel 1932, a ventiquattro anni, con una tesi sulla poetessa russa Achmatova. Un'intelligenza, la sua, che vuol essere libera da vincoli, che riesce ad esprimersi appieno solo in ciò per cui prova una vera passione. È uno studente irrequieto, che vive di notte; inizierà ora ad avvicinarsi al gioco d'azzardo, alle carte e al biliardo.
Dal 1929 comincerà a pubblicare i suoi primi racconti, le sue liriche e le sue traduzioni su alcune riviste. Inizierà, però, a indebitarsi, a causa della sua insana passione per il gioco. Pian piano gioco e letteratura muoveranno di pari passo, crescendo insieme e sviluppandosi con la personalità del giovane. Pur essendo sommerso dai debiti si rifiuterà di lavorare. Il suo spirito aristocratico lo porterà perfino a rifiutare una cattedra di russo presso l'Università di Urbino. Accetterà, però, i premi letterari in denaro, le collaborazioni con i giornali ed i lavori di traduzione, come aiuto alla sua precaria situazione finanziaria.
Nel 1937 pubblica la sua prima raccolta di racconti, "Dialogo dei massimi sistemi". In quegli anni Landolfi frequenta l'ambiente intellettuale fiorentino, soprattutto il Caffé delle Giubbe Rosse. Non si interessò mai apertamente di politica, pur essendo un convinto antifascista. Passò, nel 1934, circa un mese in prigione, per i suoi discorsi contro il regime: uno dei periodi che descriverà più positivamente, nel quale si sentirà, paradossalmente, più libero che mai, proprio perché privo di doveri e di responsabilità. Durante la guerra la sua casa di Pico verrà bombardata e poi saccheggiata e utilizzata come rifugio da estranei. In quel periodo Landolfi fugge in montagna per evitare i rastrellamenti nemici.
Nel 1939 pubblica "La pietra lunare" e "Il mar delle blatte", presso l'editore Vallecchi di Firenze, con cui lavorerà fino al 1972.
Nel 1942 pubblica "La spada"; nel 1943 "Il principe infelice". Il 1946 è l'anno de "Le due zittelle", pubblicato presso l'editore Bompiani.
Nel 1947 pubblica "Racconto d'autunno" e nel 1950 "Cancroregina". Dal 1951 accetta di intraprendere la strada del giornalismo, da lui non ammirato, anzi, etichettato come «letteratura alimentare».
Nel 1953 pubblica il suo primo diario, "La Biere Du Pecheur"; nel 1954 Ombre e "La raganella d'oro". Nel 1955 arriva il primo premio letterario, il Premio Marzotto; primo di una lunga serie: ne collezionerà più di quindici e tra i più importanti.
Sarà sempre restio al mostrarsi nelle cerimonie pubbliche e cercherà sempre di non presentarsi personalmente, convincendo il suo editore a ritirare i premi in sua vece.
Nel 1955, quasi cinquantenne, sposa Marisa Fortini, una ragazza originaria di Pico, all'epoca da poco maggiorenne.
Nel 1958 Landolfi diviene padre per la prima volta. Nasce Maria Landolfi, detta Idolina, poiché nei lineamenti di lei rivede la defunta genitrice. Idolina curerà da adulta tutta la produzione del padre, gestendo il Centro Studi Landolfiano di Firenze e occupandosi delle nuove edizioni, fino alla morte (avvenuta il 27 giugno 2008).
Il 1958 è anche l'anno di pubblicazione di "Ottavio di Saint-Vincent" e di "Mezzacoda". Nel 1959 pubblica "Landolfo VI di Benevento"; nel 1960 "Se non la realtà".
Nel 1961 nasce il secondogenito, Landolfo Landolfi, detto Tommaso, che sarà per il padre il suo "Landolfo VII".
Nel 1962 viene edito "In società"; segue, nel 1963, il secondo dei tre diari dai titoli francesi: "Rien va". È anche l'anno di "Scene dalla vita diCagliostro". Nel 1964 vengono pubblicati i "Tre racconti"; nel 1965 "Un amore del nostro tempo". Il 1966 è l'anno dei "Racconti impossibili", seguito dal terzo ed ultimo diario: "Des mois". È il 1967, anno in cui pubblica anche i "Colloqui" e "Sei racconti". Del 1968 sono "Un paniere di chiocciole", "Filastrocche" e "Le nuove filastrocche". Nel 1969 scrive l'opera teatrale "Faust '67", che gli frutterà un Premio Pirandello.
Gli ultimi anni Settanta vedono la pubblicazione di "Breve canzoniere" (1971), "Gogol a Roma" (1971), "Viola di morte" (1972, ultimo libro pubblicato dall'editore Vallecchi; nello stesso anno morirà il padre), "Le labrene" (1974), "A caso" (1975), "Il tradimento" (1977) e "Del meno" (1978).
Una produzione copiosa, che sempre più, negli ultimi anni, richiede concentrazione e isolamento, portando Landolfi a lasciare la famiglia per rifugiarsi tra le amate mura di Pico. Qui inizierà ad ammalarsi, complice il rigido freddo e l'umidità, troppo pesanti per i suoi polmoni già provati dal fumo.
Invano cercherà sollievo nel clima più mite di Sanremo e Rapallo, città appassionatamente amate per la presenza dei casinò.
Tommaso Landolfi morirà per un enfisema polmonare, l'8 luglio 1979, a Ronciglione, vicino Roma; solo, proprio mentre la figlia Idolina si era assentata per poche ore.
Sua madre, Maria Gemma Nigro (detta Ida), è cugina materna del proprio marito, di origini lucane. Riverserà sul suo primo (ed unico) figlio attenzioni estreme, morbose, fino a vietare a chiunque di avere contatti fisici con il piccolo Tommaso. Morirà prematuramente nel 1910, a soli ventisei anni, mentre era in attesa di un secondo figlio. L'immagine della madre morta rimarrà indelebile, seppur troppo labile ricordo, nella mente di Landolfi, che all'epoca ha solo due anni.
Nell'infanzia Landolfi sarà un bambino riservato, solitario, timido, sensibile, di salute cagionevole. Il primo collegio dove sarà mandato a studiare sarà il Cicognini di Prato, dove imparerà a conoscere e ad amare D'Annunzio. Già a dodici anni compone i suoi primi sonetti, firmandosi Tommasino poeta, esternando già al padre i primi acerbi segnali della sua futura passione: scriverà in un biglietto di auguri «voglio diventare uno scrittore di libri».
Ben presto inizieranno i viaggi tra Pico, Roma e Napoli (dove risiedono i parenti materni), trascorrendo le sue vacanze estive sulle coste tirreniche di Terracina, Gaeta e Formia. Solo a Pico, però, il giovane scrittore riuscirà ad esprimersi e a trovare la concentrazione adatta ai suoi scopi: «la penna a Pico corre, altrove si inceppa».
Figure importanti, quasi materne, di quegli anni di gioventù sono le due cugine paterne Fosforina e Rosina Tumulini, alle quali dedicherà un libro per una. Il 7 febbraio del 1919 Rosina morirà, alla stessa età della giovane signora Landolfi, a causa di un'epidemia di spagnola.
La carriera scolastica di Tommaso continuerà tra collegi e istituti. Egli risentirà molto dell'assenza paterna e svilupperà una sorta di insofferenza ad ogni tipo di autorità. In seguito a una serie di bocciature arriverà a fuggire dal collegio, fino a minacciare il suicidio a soli quindici anni, come ricatto per paura di una punizione.
Grazie al suo vivace e curioso intelletto, Landolfi inizierà già nell'adolescenza ad avvicinarsi al cinema, al teatro, alle arti figurative e alle lingue straniere. Una vera passione, quasi un gioco, che lo porterà a studiare le grammatiche di altri idiomi come un piacevole passatempo; influenzerà anche la scelta dell'Università, dove opterà per Lingua e letteratura russa, affascinato dalla diversità dell'alfabeto cirillico. Landolfi sarà poi traduttore di quattro lingue (russo, francese, tedesco e spagnolo) e ne conoscerà molte altre, tra cui l'arabo e il giapponese.
Dopo aver superato la maturità classica da privatista, nel 1927, si iscrive alla Facoltà di Lettere di Roma, poi a Firenze, dove la cattedra da lui prescelta non esiste. Studierà da solo, senza insegnanti, laureandosi con il massimo dei voti nel 1932, a ventiquattro anni, con una tesi sulla poetessa russa Achmatova. Un'intelligenza, la sua, che vuol essere libera da vincoli, che riesce ad esprimersi appieno solo in ciò per cui prova una vera passione. È uno studente irrequieto, che vive di notte; inizierà ora ad avvicinarsi al gioco d'azzardo, alle carte e al biliardo.
Dal 1929 comincerà a pubblicare i suoi primi racconti, le sue liriche e le sue traduzioni su alcune riviste. Inizierà, però, a indebitarsi, a causa della sua insana passione per il gioco. Pian piano gioco e letteratura muoveranno di pari passo, crescendo insieme e sviluppandosi con la personalità del giovane. Pur essendo sommerso dai debiti si rifiuterà di lavorare. Il suo spirito aristocratico lo porterà perfino a rifiutare una cattedra di russo presso l'Università di Urbino. Accetterà, però, i premi letterari in denaro, le collaborazioni con i giornali ed i lavori di traduzione, come aiuto alla sua precaria situazione finanziaria.
Nel 1937 pubblica la sua prima raccolta di racconti, "Dialogo dei massimi sistemi". In quegli anni Landolfi frequenta l'ambiente intellettuale fiorentino, soprattutto il Caffé delle Giubbe Rosse. Non si interessò mai apertamente di politica, pur essendo un convinto antifascista. Passò, nel 1934, circa un mese in prigione, per i suoi discorsi contro il regime: uno dei periodi che descriverà più positivamente, nel quale si sentirà, paradossalmente, più libero che mai, proprio perché privo di doveri e di responsabilità. Durante la guerra la sua casa di Pico verrà bombardata e poi saccheggiata e utilizzata come rifugio da estranei. In quel periodo Landolfi fugge in montagna per evitare i rastrellamenti nemici.
Nel 1939 pubblica "La pietra lunare" e "Il mar delle blatte", presso l'editore Vallecchi di Firenze, con cui lavorerà fino al 1972.
Nel 1942 pubblica "La spada"; nel 1943 "Il principe infelice". Il 1946 è l'anno de "Le due zittelle", pubblicato presso l'editore Bompiani.
Nel 1947 pubblica "Racconto d'autunno" e nel 1950 "Cancroregina". Dal 1951 accetta di intraprendere la strada del giornalismo, da lui non ammirato, anzi, etichettato come «letteratura alimentare».
Nel 1953 pubblica il suo primo diario, "La Biere Du Pecheur"; nel 1954 Ombre e "La raganella d'oro". Nel 1955 arriva il primo premio letterario, il Premio Marzotto; primo di una lunga serie: ne collezionerà più di quindici e tra i più importanti.
Sarà sempre restio al mostrarsi nelle cerimonie pubbliche e cercherà sempre di non presentarsi personalmente, convincendo il suo editore a ritirare i premi in sua vece.
Nel 1955, quasi cinquantenne, sposa Marisa Fortini, una ragazza originaria di Pico, all'epoca da poco maggiorenne.
Nel 1958 Landolfi diviene padre per la prima volta. Nasce Maria Landolfi, detta Idolina, poiché nei lineamenti di lei rivede la defunta genitrice. Idolina curerà da adulta tutta la produzione del padre, gestendo il Centro Studi Landolfiano di Firenze e occupandosi delle nuove edizioni, fino alla morte (avvenuta il 27 giugno 2008).
Il 1958 è anche l'anno di pubblicazione di "Ottavio di Saint-Vincent" e di "Mezzacoda". Nel 1959 pubblica "Landolfo VI di Benevento"; nel 1960 "Se non la realtà".
Nel 1961 nasce il secondogenito, Landolfo Landolfi, detto Tommaso, che sarà per il padre il suo "Landolfo VII".
Nel 1962 viene edito "In società"; segue, nel 1963, il secondo dei tre diari dai titoli francesi: "Rien va". È anche l'anno di "Scene dalla vita diCagliostro". Nel 1964 vengono pubblicati i "Tre racconti"; nel 1965 "Un amore del nostro tempo". Il 1966 è l'anno dei "Racconti impossibili", seguito dal terzo ed ultimo diario: "Des mois". È il 1967, anno in cui pubblica anche i "Colloqui" e "Sei racconti". Del 1968 sono "Un paniere di chiocciole", "Filastrocche" e "Le nuove filastrocche". Nel 1969 scrive l'opera teatrale "Faust '67", che gli frutterà un Premio Pirandello.
Gli ultimi anni Settanta vedono la pubblicazione di "Breve canzoniere" (1971), "Gogol a Roma" (1971), "Viola di morte" (1972, ultimo libro pubblicato dall'editore Vallecchi; nello stesso anno morirà il padre), "Le labrene" (1974), "A caso" (1975), "Il tradimento" (1977) e "Del meno" (1978).
Una produzione copiosa, che sempre più, negli ultimi anni, richiede concentrazione e isolamento, portando Landolfi a lasciare la famiglia per rifugiarsi tra le amate mura di Pico. Qui inizierà ad ammalarsi, complice il rigido freddo e l'umidità, troppo pesanti per i suoi polmoni già provati dal fumo.
Invano cercherà sollievo nel clima più mite di Sanremo e Rapallo, città appassionatamente amate per la presenza dei casinò.
Tommaso Landolfi morirà per un enfisema polmonare, l'8 luglio 1979, a Ronciglione, vicino Roma; solo, proprio mentre la figlia Idolina si era assentata per poche ore.
Finalmente, Tommaso Landolfi, qualcuno si ricorda ...
La Ciociaria è stata da sempre, incredibile che possa sembrare, terra di grandi personalità artistiche, scientifiche, letterarie. Incredibile è anche il contributo che essa ha dato alla civiltà occidentale, da sempre.
Ma si direbbe che un cattivo destino, quasi una congiura, opprime questa Terra col risultato che quando se ne parla, si menziona solo il vaccaro di Castelliri oppure il salametto o il peperone.
Raramente una notizia gratificante e degna di ammirazione e di emulazione e di arricchimento. il recupero e la esposizione addirittura nella sede del palazzo provinciale di una scultura semplicemente eccezionale della storia artistica europea creata da uno di quei grandi ciociari di cui si diceva all’inizio, sistematicamente ignorati e cioè Amleto Cataldi di Roccasecca-Castrocielo.
Plauso perciò all’assessorato provinciale alla Cultura e l’augurio che si tratta solo di un inizio. Ora l’altra bella notizia è che il poligrafico dello Stato ha messo in circolazione nuovamente un francobollo (emesso la prima volta due anni fa) che ricorda a tutti la figura di un altro grande ciociaro, questa volta di Pico, Tommaso Landolfi. Scrittore grandissimo, traduttore squisito dal Russo e dal Francese e dal Tedesco.
Del termine ciociaro ignorava (io credo: volutamente, per spirito di contestazione e di dissacrazione) il vero e unico significato e cioè quello folklorico e quindi anche lui lo vedeva, al contrario, quale competizione o sopraffazione di quello avito e ereditario di: borbone e quindi acerrime polemiche e infuocate discussioni tra lui e soprattutto Anton Giulio Bragaglia sulle pagine della gloriosa ‘Gazzetta Ciociara’ che della ‘ciociarità’, termine da lui inventato, fece il baluardo e la sua bandiera.
Qualcuno di Pico ricorda Tommaso Landolfi quando era solito inforcare la vecchia Indian (una motocicletta 500 di cilindrata dell’epoca dal manubrio ampio come le corna di certi buoi) e fragorosamente mettersi in viaggio per Firenze. Un contestatore, un bastian contrario. Un polemico inveterato. Il suo divertimento era quello di creare imbarazzo e di mettere a disagio. Ma un sensibile, un profondo conoscitore dell’animo umano, uno spirito eletto. Uno dei grandi del Novecento Italiano.
Il francobollo in questione sicuramente richiamerà ancora di più l’attenzione su questo personaggio illustre della Ciociaria. Mi sembra che il disegnatore ha un po’ alterato la sua fisionomia. Ma non è importante. Significativo che lo Stato si è ricordato di questo grande scrittore e che i Ciociari si affrettino ad andare nella libreria ad acquistarne le opere ma che soprattutto la scuola ciociara e le istituzioni acquistino cognizione e lo dicano a tutti della ricchezza di personaggi, di opere e di realizzazioni uscite da questa Terra.
Michele Santulli
La cappella Landolfi a Pico
Ho visitato la tomba di Tommaso Landolfi. A Pico Farnese. Prima il paese e, alta e nascosta oltre un alto muro, e un furente giardino, la casa. Tra via Garibaldi e vico Scalone e vico Serio.
Ho chiesto dello scrittore a un sarto minuscolo e vanesio, che, da una finestretta con vasi di basilico e geranio, giura d'aver sempre spesso spiato il singolare ozio dello scrittore, nell'orto geometrico, lassù.
Al cimitero la cappella della famiglia Landolfi è grigia, londinese. Sembra sia stata portata lì da aquile messicane, artigliata nei docks o nei fumetti d'ambiente londinese di E. P. Jacobs. E, nonostante l'architettura di ispirazione egizia, essa è un edificio moderno, vittoriano. Dove una famiglia desiderando eternarsi ripetè l'antichissimo errore di erigere per sé un monumento funebre. Molti i morti qui tumulati. Molte le lapidi e le iscrizioni. Un figlio onora il padre con l'assertoria epigrafe in cui si ripromette di sottomettersi di bel nuovo alla sua potestà se quegli ritornasse vivo. Ma non è Tommaso; forse il nonno di lui. La pietra sepolcrale dello scrittore reca soltanto il nome e le date; e, nel ricordo, mi sembra di vedere una croce anche avanti alla data della nascita.
Anche altre lapidi hanno sontuose iscrizioni. Quella a fronte del grigio cancello d'ingresso, dove van subito gli occhi, è altrimenti breve e secca come una tosse improvvisa:
- Qui si addice la venerazione, non lo scempio della parola -.
È per tale Ida, maritata Landolfi.
Ai lati dell'Edificio sono due piccole palme. Una con gialle infiorescenze. L'altra molto reclinata verso terra, assai sofferta dal vento picano.
Ma la costruzione appare solida, azteca. Molto rastremata, essa è assai lieve pur nella sua greve ombrosa materia d'ardesia.
Sciocco chi la progettò così vanamente imitativa. Decò.
Arguto il genio del luogo ne fece la singolare solenne reticente dimora infera di Tommaso Landolfi.
da "Prato Pagano. Giornale di nuova letteratura", n.2, 1985, p. 58.
Ho chiesto dello scrittore a un sarto minuscolo e vanesio, che, da una finestretta con vasi di basilico e geranio, giura d'aver sempre spesso spiato il singolare ozio dello scrittore, nell'orto geometrico, lassù.
Al cimitero la cappella della famiglia Landolfi è grigia, londinese. Sembra sia stata portata lì da aquile messicane, artigliata nei docks o nei fumetti d'ambiente londinese di E. P. Jacobs. E, nonostante l'architettura di ispirazione egizia, essa è un edificio moderno, vittoriano. Dove una famiglia desiderando eternarsi ripetè l'antichissimo errore di erigere per sé un monumento funebre. Molti i morti qui tumulati. Molte le lapidi e le iscrizioni. Un figlio onora il padre con l'assertoria epigrafe in cui si ripromette di sottomettersi di bel nuovo alla sua potestà se quegli ritornasse vivo. Ma non è Tommaso; forse il nonno di lui. La pietra sepolcrale dello scrittore reca soltanto il nome e le date; e, nel ricordo, mi sembra di vedere una croce anche avanti alla data della nascita.
Anche altre lapidi hanno sontuose iscrizioni. Quella a fronte del grigio cancello d'ingresso, dove van subito gli occhi, è altrimenti breve e secca come una tosse improvvisa:
- Qui si addice la venerazione, non lo scempio della parola -.
È per tale Ida, maritata Landolfi.
Ai lati dell'Edificio sono due piccole palme. Una con gialle infiorescenze. L'altra molto reclinata verso terra, assai sofferta dal vento picano.
Ma la costruzione appare solida, azteca. Molto rastremata, essa è assai lieve pur nella sua greve ombrosa materia d'ardesia.
Sciocco chi la progettò così vanamente imitativa. Decò.
Arguto il genio del luogo ne fece la singolare solenne reticente dimora infera di Tommaso Landolfi.
da "Prato Pagano. Giornale di nuova letteratura", n.2, 1985, p. 58.