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PICO............ LE MIE ORIGINI.
ILLUMINATO DA TOMMASO LANDOLFI,
OMAGGIATO DA MONTALE .
Le origini documentate di Pico risalgono al Medioevo, quando il centro fu fondato da Giovanni Scinto, signore di Aquino: l'area fu scelta per la sua collocazione nei pressi dell'antica strada che collegava Gaeta con Avezzano e la Casilina con l'Appia, attraverso i monti Ausoni. Il castello, che apparteneva alla circoscrizione di Pontecorvo, cambiò spesso proprietario in tutto il medioevo.
Nel Trecento raggiunse una propria organizzazione comunale ed una sua importanza; si distaccò da Pontecorvo e cambiò numerose signorie, passando dai d'Aquino ai della Rovere fino ai Farnese dai quali, per un breve periodo, prese il nome. Durante il Settecento il patrimonio feudale venne liquidato a favore di famiglie borghesi locali e nel 1734 il feudo passò alla camera regia. Nel 1802 Pico divenne città del Regno di Napoli, ma per tutto il secolo il comune fu teatro di sanguinari episodi di brigantaggio.
«Piccolo Comune sulla linea Gustav, occupato dall'esercito tedesco, sopportava con coraggio e fierezza le violenze e i rastrellamenti delle truppe naziste. Oggetto di numerosi bombardamenti e azioni di guerra subiva ottantuno vittime civili ed ingentissimi danni all'abitato e al patrimonio agrario. La popolazione, seppure provata dagli stenti e dalle sofferenze, seppe reagire e intraprendere la difficile opera di ricostruzione.» — Pico (FR), 1943 - 1944 gli venne data l’Onoreficenza con la Medaglia D’Argento al Valor Civile
Il nome sembra che abbia avuto origine dall’uccello chiamato pica, anche se molti vorrebbero richiamarsi all’omonimo dio latino dei boschi. Per molto tempo venne chiamato anche Lupico. La storia di questo centro, che sembra antichissimo, in realtà ha origine documentate solo nel Medioevo: sappiamo con certezza che è stato fondato dopo il 1049 da Giovanni Scinto, uno dei signori di Aquino.
Il castello venne qui eretto perché vi passa una delle vie trasversali per la Marittima: si tratta di una strada che già anticamente collegava Gaeta con Avezzano e la Casilina con l’Appia, attraverso i monti Ausoni. Gli avvenimenti successivi alla fondazione sono noti: il castello, appartenuto alla circoscrizione di Pontecorvo, è passato più volte di mano dai signori di Fondi ai monaci di Montecassino. Un monastero dedicato a San Nicola, oggi scomparso, venne consacrato nel 1087 da papa Vittore III, presenti numerosi cardinali.
Si sa ancora di un assedio da parte di truppe cassinesi in occasione di una rivolta fomentata da Riccardo signore di Pico. Nel Trecento il castello raggiunse una propria organizzazione comunale e doveva avere una certa consistenza, se annoverava una decina di chiese e doveva fornire quattro soldati. Distaccatosi definitivamente da Pontecorvo, passando sotto la signoria prima dei d’Aquino e poi dei Montenegro e degli Spinelli, ne seguì le sorti quando quest’ultimi furono coinvolti nelle guerre contro gli aragonesi.
Dagli Spinelli passò ai della Rovere, e ai Farnese, dai quali, per un breve periodo prese il nome. Questa dinastia ha ricostruito il castello e promulgato nuovi statuti. Durante il Settecento il patrimonio feudale venne liquidato a favore di famiglie borghesi locali e nel 1734 il feudo passò alla camera regia. Nel 1802 Pico fu insignito del titolo di città dal re di Napoli e con l’unificazione entrò nel regno italiano.
Coinvolto pesantemente negli avvenimenti politici, culminati negli episodi del brigantaggio tra la fine del Settecento e la Restaurazione, Pico si trovò al centro delle vicende dei briganti antiunitari anche dopo il 1860. Dopo l’unificazione Pico fu toccato da una ventata di modernizzazione che continua ancor oggi anche se l’emigrazione è stata molto alta. Durante la seconda guerra mondiale sulle montagne del paese si rifugiò un gran numero di sfollati dal cassinate, il borgo venne sgomberato e la popolazione deportata in altri luoghi. Il passaggio delle truppe causò seri danni e atti di violenza vennero compiuti contro gli abitanti
Nel Trecento raggiunse una propria organizzazione comunale ed una sua importanza; si distaccò da Pontecorvo e cambiò numerose signorie, passando dai d'Aquino ai della Rovere fino ai Farnese dai quali, per un breve periodo, prese il nome. Durante il Settecento il patrimonio feudale venne liquidato a favore di famiglie borghesi locali e nel 1734 il feudo passò alla camera regia. Nel 1802 Pico divenne città del Regno di Napoli, ma per tutto il secolo il comune fu teatro di sanguinari episodi di brigantaggio.
«Piccolo Comune sulla linea Gustav, occupato dall'esercito tedesco, sopportava con coraggio e fierezza le violenze e i rastrellamenti delle truppe naziste. Oggetto di numerosi bombardamenti e azioni di guerra subiva ottantuno vittime civili ed ingentissimi danni all'abitato e al patrimonio agrario. La popolazione, seppure provata dagli stenti e dalle sofferenze, seppe reagire e intraprendere la difficile opera di ricostruzione.» — Pico (FR), 1943 - 1944 gli venne data l’Onoreficenza con la Medaglia D’Argento al Valor Civile
Il nome sembra che abbia avuto origine dall’uccello chiamato pica, anche se molti vorrebbero richiamarsi all’omonimo dio latino dei boschi. Per molto tempo venne chiamato anche Lupico. La storia di questo centro, che sembra antichissimo, in realtà ha origine documentate solo nel Medioevo: sappiamo con certezza che è stato fondato dopo il 1049 da Giovanni Scinto, uno dei signori di Aquino.
Il castello venne qui eretto perché vi passa una delle vie trasversali per la Marittima: si tratta di una strada che già anticamente collegava Gaeta con Avezzano e la Casilina con l’Appia, attraverso i monti Ausoni. Gli avvenimenti successivi alla fondazione sono noti: il castello, appartenuto alla circoscrizione di Pontecorvo, è passato più volte di mano dai signori di Fondi ai monaci di Montecassino. Un monastero dedicato a San Nicola, oggi scomparso, venne consacrato nel 1087 da papa Vittore III, presenti numerosi cardinali.
Si sa ancora di un assedio da parte di truppe cassinesi in occasione di una rivolta fomentata da Riccardo signore di Pico. Nel Trecento il castello raggiunse una propria organizzazione comunale e doveva avere una certa consistenza, se annoverava una decina di chiese e doveva fornire quattro soldati. Distaccatosi definitivamente da Pontecorvo, passando sotto la signoria prima dei d’Aquino e poi dei Montenegro e degli Spinelli, ne seguì le sorti quando quest’ultimi furono coinvolti nelle guerre contro gli aragonesi.
Dagli Spinelli passò ai della Rovere, e ai Farnese, dai quali, per un breve periodo prese il nome. Questa dinastia ha ricostruito il castello e promulgato nuovi statuti. Durante il Settecento il patrimonio feudale venne liquidato a favore di famiglie borghesi locali e nel 1734 il feudo passò alla camera regia. Nel 1802 Pico fu insignito del titolo di città dal re di Napoli e con l’unificazione entrò nel regno italiano.
Coinvolto pesantemente negli avvenimenti politici, culminati negli episodi del brigantaggio tra la fine del Settecento e la Restaurazione, Pico si trovò al centro delle vicende dei briganti antiunitari anche dopo il 1860. Dopo l’unificazione Pico fu toccato da una ventata di modernizzazione che continua ancor oggi anche se l’emigrazione è stata molto alta. Durante la seconda guerra mondiale sulle montagne del paese si rifugiò un gran numero di sfollati dal cassinate, il borgo venne sgomberato e la popolazione deportata in altri luoghi. Il passaggio delle truppe causò seri danni e atti di violenza vennero compiuti contro gli abitanti
Elegia a Pico Farnese Montale
Eugenio Montale – Le Occasioni IV.XI
ELEGIA A PICO FARNESE
Le pellegrine in sosta che hanno durato
tutta la notte la loro litania
s’aggiustano gli zendadi sulla testa ,
spengono i fuochi, risalgono sui carri.
Nell’alba triste s’affacciano dai loro
sportelli tagliati negli usci i molli soriani
e un cane lionato s’allunga nell’umido orto
tra i frutti caduti all’ombra del melangolo .
Ieri tutto pareva un macero ma stamane
pietre di spugna ritornano alla vita
e il cupo sonno si desta nella cucina ,
dal grande camino giungono lieti rumori.
Torna la salmodia appena in volute piu’ lievi
vento e distanza ne rompono le voci ,le ricompongono.
Isole del santuario ,
viaggi di vascelli sospesi,
alza il sudario ,
numera i giorni e i mesi
che restano per finire .
Strade e scale che salgono a piramide,fitte
d’intagli,ragnateli di sasso dove s’aprono
oscurita’ animate dagli occhi confidenti
dei maiali,archivolti tinti di verderame,
si svolge a stento ilcanto dalle ombrelle dei pini ,
e indugia affievolito nell’indaco che stilla
su anfratti ,tagli,spicchi di muraglie.
Grotte dove scalfito
luccica il Pesce ,chi sa
quale altro segno si perde,
perche’non tutta la vita
e’ in questo sepolcro verde.
Oh la pigra illusione .Perche’ attardarsi qui
a questo amore di donne barbute ,a un vano farnetico
che il ferraio picano quando batte l’incudine
curvo sul calor bianco da se’ scaccia?Ben altro
e’ l’Amore -e fra gli alberi balena col tuo cruccio
e la tua frangia d’ali, messaggera accigliata !
Se urgi fino al midollo i diòsperi e nell’acque
specchi il piumaggio della tua fronte senza errore
o distruggi le nere cantafavole e vegli
al trapasso dei pochi tra orde di uomini- capre,
(collane di nocciuole,
zucchero filato a mano
sullo spacco del masso
miracolato che porta.
le preci in basso,parole
di cera che stilla,parole
che il seme del girasole
se brilla disperde)
Il tuo splendore e’ aperto.Ma piu’ discreto allora
che dall’androne gelido ,il teatro dell’infanzia
da anni abbandonato,dalla soffitta tetra
di vetri e di astrolabi,dopo una lunga attesa
ai balconi dell’edera ,un segno ci conduce
alla radura brulla dove per noi qualcuno
tenta una festa di spari.E qui ,se appare inulidibile
il tuo soccorso,nell’aria prilla il piattello,si rompe
ai nostri colpi! Il giorno non chiede piu’ di una chiave.
E’ mite il tempo .Il lampo delle tue vesti e’ sciolto
entro l’umore dell’occhio che rifrange nel suo
cristallo altri colori.Dietro di noi ,calmo ,ignaro
del mutamento, da le mure ormai rifatto celeste,
il fanciulletto Anacleto ricarica i fucili.
ELEGIA A PICO FARNESE
Le pellegrine in sosta che hanno durato
tutta la notte la loro litania
s’aggiustano gli zendadi sulla testa ,
spengono i fuochi, risalgono sui carri.
Nell’alba triste s’affacciano dai loro
sportelli tagliati negli usci i molli soriani
e un cane lionato s’allunga nell’umido orto
tra i frutti caduti all’ombra del melangolo .
Ieri tutto pareva un macero ma stamane
pietre di spugna ritornano alla vita
e il cupo sonno si desta nella cucina ,
dal grande camino giungono lieti rumori.
Torna la salmodia appena in volute piu’ lievi
vento e distanza ne rompono le voci ,le ricompongono.
Isole del santuario ,
viaggi di vascelli sospesi,
alza il sudario ,
numera i giorni e i mesi
che restano per finire .
Strade e scale che salgono a piramide,fitte
d’intagli,ragnateli di sasso dove s’aprono
oscurita’ animate dagli occhi confidenti
dei maiali,archivolti tinti di verderame,
si svolge a stento ilcanto dalle ombrelle dei pini ,
e indugia affievolito nell’indaco che stilla
su anfratti ,tagli,spicchi di muraglie.
Grotte dove scalfito
luccica il Pesce ,chi sa
quale altro segno si perde,
perche’non tutta la vita
e’ in questo sepolcro verde.
Oh la pigra illusione .Perche’ attardarsi qui
a questo amore di donne barbute ,a un vano farnetico
che il ferraio picano quando batte l’incudine
curvo sul calor bianco da se’ scaccia?Ben altro
e’ l’Amore -e fra gli alberi balena col tuo cruccio
e la tua frangia d’ali, messaggera accigliata !
Se urgi fino al midollo i diòsperi e nell’acque
specchi il piumaggio della tua fronte senza errore
o distruggi le nere cantafavole e vegli
al trapasso dei pochi tra orde di uomini- capre,
(collane di nocciuole,
zucchero filato a mano
sullo spacco del masso
miracolato che porta.
le preci in basso,parole
di cera che stilla,parole
che il seme del girasole
se brilla disperde)
Il tuo splendore e’ aperto.Ma piu’ discreto allora
che dall’androne gelido ,il teatro dell’infanzia
da anni abbandonato,dalla soffitta tetra
di vetri e di astrolabi,dopo una lunga attesa
ai balconi dell’edera ,un segno ci conduce
alla radura brulla dove per noi qualcuno
tenta una festa di spari.E qui ,se appare inulidibile
il tuo soccorso,nell’aria prilla il piattello,si rompe
ai nostri colpi! Il giorno non chiede piu’ di una chiave.
E’ mite il tempo .Il lampo delle tue vesti e’ sciolto
entro l’umore dell’occhio che rifrange nel suo
cristallo altri colori.Dietro di noi ,calmo ,ignaro
del mutamento, da le mure ormai rifatto celeste,
il fanciulletto Anacleto ricarica i fucili.